Brand o brand...elli / American Apparel, il marchio del minimal e del sesso diventato una setta: tra culto, crollo e molestie. Così il sogno americano è finito in incubo
Dal minimalismo provocante alle accuse che ne hanno segnato la caduta: il docu Netflix su American Apparel racconta l’ascesa fulminea (e la rovinosa caduta) del brand che ha vestito una generazione e spogliato la moda di ogni ipocrisia
American Apparel, dal sogno cool anni 2000 al crollo di un mito
Da un lato c’erano i leggings lucidi, i cappellini con la visiera dritta, i loghi ovunque: sulle t-shirt, sui calzini, persino sul lato B dei jeans. Dall’altro, le felpe fluo, le maglie a tinta unita, i body sgambati e quel rigore minimalista che sembrava uscito direttamente da un template in Helvetica Bold, con sfondi bianchi e un’estetica spoglia ma carica di intenzione Era l’estetica pulita, iper curata e provocatoria di American Apparel, che di quel look aveva fatto la sua religione.
Se eri giovane nei primi anni 2000 e anche solo vagamente in sintonia con le subculture urbane, American Apparel non potevi non conoscerlo. Non era solo un marchio: era un club, un’identità, quasi una setta. Il sogno americano in chiave hipster, che però, come succede spesso a certi sogni, si è trasformato in incubo. E' proprio questa storia che racconta Trainwreck: The Cult of American Apparel, il documentario uscito il 1° luglio su Netflix. 54 minuti che ricostruiscono la parabola perfetta di un impero costruito sul marketing spregiudicato e crollato sotto il peso delle sue stesse contraddizioni.
Tutto parte nel 1989, a Montreal, quando Dov Charney, canadese ossessionato dalla moda e dal sesso, decide di fondare un marchio diverso dagli altri. In un momento in cui le grandi aziende spostavano la produzione in Cina o in Bangladesh, Charney decide di produrre in loco, a Los Angeles, e pagare i suoi operai americani sopra il minimo sindacale per garantire condizioni più dignitose. Una scelta che lo trasforma in un caso mediatico e che per molti rappresenta un nuovo modo di fare impresa: più etico, più umano.
Ma per Charney non bastava vendere magliette. Voleva istituire un culto della semplicità che sembrasse alternativo, sexy e rivoluzionario al tempo stesso. E ci riesce. Ragazzi e ragazze fotografati al naturale: senza ritocchi, spesso seminudi, in pose amatoriali e sfacciate. Spesso erano i dipendenti stessi a posare, o gente trovata per strada. Talvolta erano persino delle porno-attrici. Era una community, più che un’azienda. C’era la radio interna, Viva Radio. C’erano le riviste come Vice o Purple vendute nei negozi. E c’erano le celebrità: Beyoncé, Rihanna, Britney Spears. Anche loro si vestivano di American Apparel, magari entrando nei negozi la sera.
Dietro l’estetica sexy e ribelle però, c’era altro. C’era un ambiente di lavoro elettrizzante, certo, ma anche tossico. Dov Charney viveva l’azienda come una religione, e lui ne era il predicatore. Chiamava tutti a raccolta per conference call a qualsiasi ora, ignorando fusi orari e confini. Esigeva reperibilità h24. Mescolava lavoro, sesso e vita privata senza limiti. Nella sua villa vivevano alcune delle cosiddette "Dov Girls", ragazze con ruoli mai ben definiti, che in azienda avevano potere solo per il fatto di essere legate al capo. Chi entrava in quel circolo ne usciva raramente. E chi non voleva farne parte veniva messo in guardia.
Allo stesso tempo, Charney si batteva per diverse cause sociali, come la campagna “Legalize LA", un manifesto politico contro le politiche migratorie americane. Le magliette con lo slogan venivano vendute ovunque e i ricavati donati a gruppi che lottavano per la cittadinanza degli immigrati. Insomma American Apparel era contraddizione pura, tra ideali progressisti e una gestione personale caotica, sfacciata, spesso abusante.
Il crollo
Il castello iniziò a scricchiolare quando uscirono le prime accuse di molestie sessuali. Nel documentario di Netflix, alcune ex dipendenti raccontano in forma anonima episodi pesantissimi: dalle pressioni per spogliarsi fino ad atti sessuali non consensuali. Charney ha sempre negato tutto, e non è neanche mai stato condannato per nessuno di questi reati. Molte cause furono archiviate o risolte in arbitrato, ma l’immagine pubblica crollò, e con quella anche le finanze.
Nel 2014 Charney viene licenziato dal consiglio di amministrazione. L’anno dopo l’azienda dichiara bancarotta. E poi di nuovo nel 2016. Il marchio viene rilevato dal gruppo Gildan Activwear, che lo trasforma in un e-commerce, privandolo del suo volto e della sua storia. Charney nel frattempo non ha mollato e ha fondato Los Angeles Apparel, un nuovo marchio che ricorda tanto (forse troppo) la sua creatura originale.
Nel 2025, l’originale American Apparel sopravvive solo come shop online. Ma la sua eredità forse un po' ancora vive, tra chi rimpiange l’estetica hipster-sexy di quegli anni e chi, invece, non può dimenticare il lato oscuro del culto di AA (così veniva chiamato). Non è solo la storia di un brand caduto in disgrazia, è il racconto di un’epoca. Di quella voglia di sentirsi parte di qualcosa, anche quando il prezzo da pagare era troppo alto.