Crisi energetica e stretto di Hormuz: le fonti alternative come unica salvezza. Ieri e oggi
Circa il 25% del petrolio e del gas passa da lì. C'è il rischio di un effetto domino mondiale. La transizione ecologica va accelerata ma ci sono ancora molti ostacoli da superare
Crisi energetica, le fonti alternative come unica salvezza
Secondo l'Agenzia internazionale per l'energia, lo Stretto di Hormuz è "la via d'uscita dal Golfo per circa il 25% delle forniture di petrolio a livello globale" e la sua "chiusura, anche per un tempo limitato, avrebbe un impatto importante sul mercato del petrolio e del gas".
Un problema che ricadrebbe sul costo delle bollette e non solo, a danno delle imprese e delle famiglie italiane. Da qui, l'urgenza di riportare al centro del dibattito pubblico il tema delle energie rinnovabili e dell’indipendenza energetica: "Produrre la propria energia -spiega Igor Bruzzese, Ceo di Green Power azienda attiva nelle soluzioni di efficienza energetica- non solo permette di abbattere i costi, ma anche difendersi dalle oscillazioni del mercato. Occorre avviare un serio ragionamento perché questo è l'unico modo per non dipendere da altri".
In gergo la chiamano transizione ecologica ma, in Italia, stenta a decollare per una lunga serie di ostacoli: Il primo è di carattere finanziario. Anche di fronte a impianti vantaggiosi e a bandi pubblici ben strutturati, molte imprese non riescono ad accedervi per una questione di merito creditizio. In particolare, questo fenomeno, è più accentuato nelle regioni del Sud Italia dove il tessuto imprenditoriale è spesso composto da imprese valide ma non sempre solide sul piano bancario. Accade così che, pur lavorando bene e generando valore, molti imprenditori si trovano in una fase delicata, magari per aver fatto altri investimenti o per dover fare i conti con fatturati incerti, e questo le taglia fuori in automatico.
Il risultato? Quelle stesse aziende che avrebbero più bisogno di ridurre i costi energetici si trovano escluse dagli strumenti per farlo. E quando il prezzo dell’energia si impenna, come avvenuto con la guerra in Ucraina, vedono eroso in pochi mesi l’utile di un intero anno. Ma gli ostacoli non finiscono qui: il secondo è di tipo culturale. Anche se può sembrare paradossale nel 2025, esistono ancora imprenditori (soprattutto della vecchia guardia) che non credono davvero nel fotovoltaico. Alcuni lo considerano una moda passeggera, altri temono che “non funzioni davvero” o che comporti più problemi che vantaggi: "Questo tipo di diffidenza -sottolinea Bruzzese- rallenta l’adozione di tecnologie già mature e consolidate".
Un terzo freno, forse meno visibile ma altrettanto rilevante, è la perdita di fiducia nel mercato. L’ondata di incentivi pubblici degli ultimi anni, in particolare il Superbonus 110%, ha attirato nel settore decine di nuovi operatori, molti dei quali improvvisati.
Aziende nate in fretta, spesso senza struttura, che hanno realizzato impianti con superficialità o con documentazione incompleta. In alcuni casi, non hanno nemmeno portato a termine i lavori: questo ha creato un clima di sfiducia generalizzata. I clienti, scottati da esperienze negative, oggi fanno più fatica a distinguere tra chi lavora con serietà e chi no. E anche aziende solide e competenti si trovano a dover “giustificare” la qualità del proprio lavoro e a riconquistare una fiducia che altri hanno compromesso".
Questi tre ostacoli - finanziario, culturale e reputazionale - si intrecciano tra loro e spiegano perché, nonostante le evidenti opportunità, il tasso di adozione del fotovoltaico sia ancora inferiore al potenziale reale. Chi lavora nel settore con competenza e visione ha oggi una doppia sfida: non solo installare impianti, ma ricostruire fiducia e fare cultura imprenditoriale: "Una sfida - conclude Bruzzese - resa ora urgente dalle tensioni internazionali. Non bisogna perdere altro tempo".