Dazi, Usa contro Ue: ecco perché i mercati non si spaventano più e che cosa rischia davvero il Made in Italy
I mercati non temono più le minacce di Trump. L'intervista a più voci a: Michele Sansone (iBanFirst Italia), Sara Armella (studio Armella & Associati) e Daniele Civini (Head of Sales Italia di JAGGAER)
La guerra dei dazi non spaventa più i mercati, ma il Made in Italy rischia grosso
La lettera inviata da Donald Trump all’Unione Europea con la minaccia di dazi al 30% non ha affossato i mercati. Anzi, nonostante l’apparente escalation della guerra commerciale. Gli investitori sono tranquilli, sempre più convinti che si arriverà a un accordo di compromesso entro il 1 agosto. Ma perché i mercati non reagiscono più alle minacce della Casa Bianca? E soprattutto, quali potrebbero essere le conseguenze concrete per il Made in Italy e le imprese italiane?
Secondo Michele Sansone, country manager di iBanFirst Italia, "qualunque cosa Trump possa fare o dire, il mercato sembra aver ormai completamente interiorizzato la sua volatilità. Le lettere non hanno avuto quasi alcun impatto sul mercato, e le sue riflessioni su un dazio del 200% sui prodotti farmaceutici non hanno avuto alcun effetto visibile sulle azioni del settore."
Ma attenzione, avverte Sansone: questo atteggiamento rilassato potrebbe rivelarsi un boomerang se, alla fine, i dazi venissero davvero applicati. "Questo apre quindi alla possibilità, piuttosto spiacevole, che se l’ipotesi del mercato, ovvero che questi dazi non verranno mai applicati, si rivelasse errata, allora sarà necessario prezzarli tutti in una volta sola alla fine del mese.
Quanto sarebbe questo impatto? Alla fine della scorsa settimana (escludendo quindi l’ipotesi del 200% sui farmaci, il 30% su Europa e Messico, e l’idea che chi non ha ricevuto la lettera sarà soggetto a dazi tra il 15 e il 20%), il dazio medio post-sostituzione si attesta al 20%, sostanzialmente pari al picco raggiunto dallo Smoot-Hawley (1930)".
Chi paga il prezzo? Secondo Sansone, al momento il costo dei dazi è condiviso tra le diverse parti della catena: "Il danno sembra essere condiviso: alcune stime indicano che circa il 20% viene assorbito dagli esportatori, mentre il resto è diviso equamente tra importatori e consumatori finali."
Inoltre l'esperto sottolinea come, in questo contesto di incertezza, il franco svizzero (CHF) si stia rafforzando in modo anomalo: "Il CHF si sta comportando sempre più come l’oro: un bene liquido, politicamente neutrale, e una copertura contro l’incertezza fiscale di lungo termine." Un segno che gli investitori cercano rifugio in asset sicuri in un mondo con poche alternative credibili.
Anche secondo l’avvocato Sara Armella, fondatrice dello studio Armella & Associati, la calma dei mercati deriva da un'interpretazione ben precisa: i dazi sono stati di fatto rimandati, non applicati. "Al momento i mercati hanno reagito bene perché intendono la lettera di Trump come un rinvio ad agosto di una misura attesa da luglio e perché sono comunque inferiori al precedente annuncio di dazi al 50% per l’Unione europea.
Lo slittamento lascia spazio a una trattativa, che potrebbe portare a una riduzione delle tariffe, nei giorni scorsi annunciate al 30%. In questo momento il mercato è sui massimi e a Trump dà forza nella trattativa in corso con le varie economie estere."
E mentre Wall Street continua a volare, Armella evidenzia come sia il dollaro debole a dare una spinta alle esportazioni americane: "Attualmente gli USA sono passati da risultati negativi a nuovi massimi storici dello S&P500 dove le aziende sono solide con buoni utili; in questo momento è il dollaro debole che sta creando problemi, ma questa debolezza rafforza le loro esportazioni." Ma se per i mercati finanziari il clima resta sereno, per le imprese italiane la situazione è molto più delicata.
Le ripercussioni concrete per il Made in Italy, in caso di escalation dei dazi, sarebbero pesanti. Armella spiega: "L’Italia è uno dei Paesi europei che risentirà maggiormente della guerra dei dazi con gli Stati Uniti. A essere più colpite saranno le aziende che esportano macchinari e apparecchiature (nel 2024 l’export ha raggiunto 12,8 miliardi), prodotti farmaceutici (10 miliardi), beni alimentari (4,8 miliardi), autoveicoli (4,3 miliardi) e altri mezzi di trasporto (3,8 miliardi), oltre a prodotti manifatturieri (3,4 miliardi).
Tra i settori più attivi nell’export verso gli Usa vi sono anche quello dei prodotti chimici (2,8 miliardi), delle apparecchiature elettriche (2,8 miliardi), delle bevande (2,8 miliardi), dell’abbigliamento (2,4 miliardi) e degli articoli in pelle (2,6 miliardi), oltre ai prodotti in metallo (2 miliardi) e al settore metallurgico (1,6 miliardi)."
E i danni potrebbero essere ingenti: "Secondo Svimez (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel mezzogiorno), le prime stime sulle conseguenze dei dazi del 30% parlano di un possibile crollo dell’export del 19,8%, tradotto quasi mezzo punto di PIL in un anno (-0,44%). Tra i settori più colpiti vi sarebbe quello dell’agroalimentare, che potrebbe perdere 1,5 miliardi di euro, oltre a farmaceutica, tessile e automotive."
Affaritaliani.it ha interpellato anche Daniele Civini, Head of Sales Italia di JAGGAER, che mette in luce un aspetto spesso sottovalutato: non tutte le aziende soffrono allo stesso modo davanti alla minaccia dei dazi. La differenza la fa, ancora una volta, la tecnologia. Secondo Civini, l’impatto delle nuove tariffe doganali è tutt’altro che uniforme: "L’impatto dei dazi proposti da Trump non è uniforme e colpisce in modo diverso mercati e settori, creando nuovi ostacoli sia all’export che all’import di componenti strategiche."
In questo scenario, però, chi ha puntato sulla digitalizzazione della supply chain gioca una partita diversa. "Le aziende italiane che hanno investito in una gestione oculata e automatizzata del procurement sono decisamente più resilienti." Come? "Una visione end-to-end della supply chain permette infatti di individuare con tempestività i punti critici e attivare strategie di mitigazione dei rischi." Non solo. Civini aggiunge: "la qualifica dei fornitori e il category management, incrociati con dati certificati da terze parti, consentono di valutare rapidamente partner alternativi, validarne l’affidabilità e predisporre piani B o C."
In un mondo globalizzato ma sempre più instabile, la parola d’ordine diventa quindi proattività. Civini conclude: "La tecnologia applicata al procurement non è più un’opzione: è una leva competitiva per proteggere la continuità operativa e salvaguardare l’export italiano."