Dazi USA e rischio reshoring: l’Italia al centro della nuova geoeconomia industriale
L’Italia rischia una forte fuga di imprese Usa: sono solo l’1,2% delle aziende, ma valgono il 21% del fatturato e il 30% dell’export manifatturiero nazionale
Dazi USA e rischio reshoring: l’Italia al centro della nuova geoeconomia industriale
Nel quadro della “guerra dei dazi” e delle nuove politiche di reshoring promosse dall’amministrazione statunitense, l’Italia si trova tra i Paesi europei più esposti a un possibile ritiro delle imprese americane. Secondo le stime SVIMEZ contenute nel nuovo numero di Informazioni SVIMEZ, dedicato al ruolo delle imprese a controllo estero nel sistema produttivo italiano, le multinazionali straniere rappresentano appena l’1,2% del totale delle imprese, ma generano il 21% del fatturato nazionale e impiegano il 9,5% degli addetti. Nel solo comparto manifatturiero, queste aziende producono il 30% dell’export italiano.
La presenza delle multinazionali è particolarmente rilevante nel Mezzogiorno, dove si concentra una quota significativa della produzione a capitale estero. In Basilicata, ad esempio, le imprese estere generano il 52% delle esportazioni regionali, e quelle americane il 24,8%. Nel complesso, le multinazionali statunitensi esportano dall’Italia circa 43 miliardi di euro l’anno, ossia oltre un quinto dell’export complessivo del Paese, con forti poli produttivi in Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Lazio.
In questo scenario, si aprono interrogativi cruciali per il futuro dell’industria italiana: per l’avv. Sara Armella, founding partner dello studio legale Armella & Associati ed esperta di diritto doganale, i numeri Svimez mettono in luce un possibile vantaggio competitivo per le filiali italiane delle multinazionali americane: “esportando circa 43 miliardi di euro l’anno, le filiali italiane delle grandi aziende USA realizzano oltre un quinto del totale estero. Un dato che, in una fase di grande incertezza dovuta alla guerra commerciale intrapresa dal Presidente USA Donald Trump, potrebbe assicurare alle filiali italiane delle multinazionali USA un vantaggio competitivo”.
Secondo Armella, infatti, le controllate americane possono ricorrere a strumenti tecnici di ottimizzazione doganale, “per esempio ricorrendo alla regola della first sale rule, che consente di calcolare i dazi su un valore inferiore rispetto a quello di vendita. Nonostante ciò, alcune aziende USA potrebbero decidere di rivedere le proprie strategie, tenendo conto delle nuove barriere, orientandosi verso scelte di reshoring e di riduzione della dipendenza da fornitori o filiali estere.
Uno dei principali obiettivi dei dazi imposti dal Presidente USA è proprio quello di stimolare il back shoring, ossia il rientro della produzione e degli investimenti negli Usa, per finanziare il deficit di bilancio e i tagli alla tassazione diretta. Va considerato, però, che riallocare la produzione negli USA potrebbe comportare nuovi investimenti, rendendo questa strada più difficile per le aziende”.
Un approccio più prudente arriva dall’avv. Valentino Durante, partner dello studio legale Casa & Associati ed esperto di diritto internazionale e societario: “constatare, infatti, che un tessuto di aziende multinazionali presenti anche nel nostro Paese e rappresentanti, nell’insieme, una quota pari all’1,2% della popolazione totale delle imprese locali sia in grado di generare il 21% del fatturato Italiano (con una percentuale di addetti pari al 9,5% del totale) è un dato che ci dovrebbe far riflettere, e molto. Tuttavia, penso che questa riflessione dovrebbe essere orientate soprattutto al tema dell’efficientamento dell’organizzazione aziendale, della competitività e, in particolare, al tema della taglia delle imprese e della loro stabile collocazione in un quadro di relazioni multinazionali.
Mentre sarei più prudente, rispetto a quanto ci hanno presentato gli analisti di SVIMEZ, riguardo al rischio di reshoring”. Durante sottolinea che i dati Svimez non considerano alcuni elementi chiave del contesto statunitense: “lo studio, infatti, non tiene conto dei costi di ‘apprendimento della manodopera’ e delle difficoltà (presenti anche negli Stati Uniti) nel reperire personale manufatturiero specializzato.
Oltre al fatto che l’uso della politica dei dazi in un’ottica di ‘rimpatrio delle imprese’ è quanto di più lontano dall’approccio liberistico al mercato, di cui pure gli Stati Uniti sono stati a lungo promotori. Continuo a pensare che le decisioni dell’attuale amministrazione statunitense non siano ancora assestate in un nuovo quadro di relazioni stabili, e, sintanto che non lo saranno, prevedere ‘effetti negativi’ anche sulla localizzazione delle imprese è una possibilità, ma non un corollario”.
E aggiunge una prospettiva europea: “d’altra parte, non possiamo neanche escludere a priori che i ‘sobbalzi’ generati dal nuovo approccio al mercato di matrice statunitense conducano, in qualche modo, a una forma di ‘reazione sfidante’ anche sul lato europeo: naturalmente, non nei termini di un puro e semplice giuoco al rialzo delle tariffe doganali, quanto piuttosto a livello di macroregolamenti sulla circolazione delle merci e sulle imposte di produzione o di scambio.
In altri termini, innovare il mercato europeo per aumentarne la competitività. Questo sarebbe uno scenario interessante da valutare. Come ha proposto, ad esempio, Mario Draghi, finora purtroppo con un ascolto solo parziale”.
Per Stefano Rossi, partner di EXP Legal e responsabile del Dipartimento di internazionalizzazione d’Impresa, la chiave di lettura va spostata dal rischio alla strategia: “i nuovi dati SVIMEZ confermano quanto il sistema produttivo italiano sia integrato, più che dipendente, dalle multinazionali statunitensi. Storicamente i dazi non hanno determinato fughe, ma riassetti delle catene di fornitura: dopo i dazi del 2018 su acciaio e alluminio, la presenza USA in Italia si è persino rafforzata.
Oggi il rischio non è il reshoring in sé, ma l’assenza di una strategia per attrarre e trattenere investimenti. L’art. 95 del Ddl Bilancio 2026, che proroga al 2028 il credito d’imposta per la ZES Unica è, ad esempio, un segnale positivo, ma va accompagnato da un serio lavoro sulle semplificazioni burocratiche. Solo così l’Italia potrà trasformare la guerra dei dazi in un’occasione di consolidamento industriale e attrazione stabile di capitali esteri”.