Tassazione sui dividendi, la stretta che rischia di affossare gli investimenti in PMI e club deal

Il commento di Paolo Guida, partner di ETA fund

di redazione economia
investimento
Economia

Tassazione sui dividendi, la stretta che rischia di affossare gli investimenti in PMI e club deal

La Legge di Bilancio 2026, ancora sotto la lente del Parlamento, sta per cambiare le regole del gioco sulla tassazione dei dividendi delle holding italiane. Una mossa che rischia di mandare in frantumi certezze consolidate nel mondo fiscale e di frenare, invece che stimolare, gli investimenti. Ecco il commento di Paolo Guida, partner di ETA fund.

"La modifica introdotta nella bozza di testo della legge finanziaria rischia di avere un effetto deflagrante in tema di investimenti in PMI e club deal in Italia. Mentre al momento si parla di una maggiore tassazione sui dividendi e non sui capital gain, per cui il regime della participation exemption sembra non essere toccato, con un impatto limitato su investimenti diretti dove l’exit è da plusvalenza tramite cessione della partecipazione, i club deal rischiano di essere decimati e anche i search fund rischiano di avere molte più difficoltà nel raccogliere capitali da soggetti privati.

Secondo l’attuale proposta infatti, qualora un investitore partecipi a un club deal, il regime attuale consente di limitare in modo significativo la tassazione se la distribuzione avviene in forma di dividendi e di rinviarla indefinitamente a patto di continuare a re-investire tali somme. Secondo la nuova proposta, l’investitore dovrebbe detenere per un periodo di almeno 12 mesi una quota pari ad almeno il 5% del veicolo di co-investimento (cd. “club deal”) che a sua volta dovrebbe detenere almeno il 5% della target, pena rischio di tassazione doppia. 

Questi requisiti rischiano di penalizzare in modo significativo gli investitori abituati a fare ticket più piccoli ovvero che non investono secondo altri schemi quali per esempio i PIR. I search fund, che in ultima sono dei club deal finalizzati alla ricerca della target, proprio nel momento di massima crescita e accelerazione, rischierebbero di vedere il numero degli investitori privati accessibili ridursi in modo drastico.

In un paese che storicamente cresce poco e che non riesce a convogliare i risparmi privati verso l’economia reale, questa norma decisamente non aiuta. Mentre il regime attuale è decisamente favorevole alle holding e ingiustamente penalizzante per i fondi, l’effetto netto possibile è quello di restringere ulteriormente il parterre degli investitori disponibili a prendersi tali rischi.

Un intervento era probabilmente da mettere in conto, ma l’incertezza creata è molta e la posta in palio, oltre 1 miliardo di euro, difficilmente ignorabile o rimpiazzabile nell’ambito della legge di bilancio a saldi invariati. In un governo che tende inoltre a essere Roma-centrico, è legittimo dubitare della capacità di fare lobby di alcune famiglie Milano-centriche, per quanto importanti, per rendere i cambiamenti meno drastici e sostenibili. 

La sensazione è che non ci sia sempre piena consapevolezza da parte del legislatore delle esigenze del tessuto economico e che interventi come questi tendano a soffocare nella culla qualche cosa che invece funziona. Infine, come per il caso degli affetti brevi o della flat tax per gli stranieri che si trasferiscono in Italia, la cosa peggiore è che una volta che un settore viene attenzionato da parte del legislatore, potenzialmente non c’è fine alla “spremitura” a cui può essere sottoposto e alla pessima abitudine tutta italica di cambiare le regole del gioco a ogni finanziaria.  Il messaggio che ne deriva è pessimo.

Tags: