"Accordo Gaza-Israele? Tregua temporanea, il piano di pace di Trump non è risolutivo. Netanyahu in bilico e in mano all'estrema destra"

Intervista a Elia morelli, ricercatore di storia presso l’Università di Pisa, analista geopolitico e saggista

di Federica Leccese

Donald Trump e Benjamin Netanyahu

Esteri

Elia Morelli: “Si tratta di tregua temporanea che cerca di porre fine al genocidio a Gaza, ma molti i punti critici...”

Finalmente l’accordo. Dopo due lunghissimi anni di combattimenti tra Hamas e Israele, sembra che si possa intravedere una via d’uscita da questo interminabile tunnel di dolore e vite innocenti spezzate. Ma si può davvero cantare vittoria? Questo accordo rappresenta una reale rinascita per il popolo palestinese o si tratta solo di una tregua provvisoria?

La risposta che Elia Morelli - ricercatore di storia presso l’Università di Pisa, analista geopolitico e saggista – offre ad Affaritaliani non è quella che tutti vorrebbero sentire: “Il cessate il fuoco ha carattere temporaneo, in quanto non sono state prese in considerazione nel piano Trump, le modalità per ragionare sulla geografia territoriale dell'entità statuale palestinese. Penso che non sia molto realistico".

Quali sono i principali punti di forza e debolezza della prima fase dell'accordo tra Hamas e Israele? In che misura questo accordo può essere considerato sostenibile sul lungo termine o è solo una tregua temporanea?

"Questa sarà sicuramente una tregua temporanea che cerca di sedare lo scontro e di porre fine al genocidio in corso a Gaza. Gli elementi di forza sono l'accettazione da parte di Hamas di alcuni punti principali, sostanzialmente connessi alla deposizione delle armi da parte del gruppo armato affinché si favorisca l'ingresso degli aiuti umanitari all'interno della Striscia. Questo dovrebbe portare a un graduale ritiro dell'esercito israeliano – non dall'intera Striscia di Gaza, ma da alcune zone specifiche. L’esercito israeliano dovrebbe infatti rimanere sul valico di Rafah e nelle parti più settentrionali della Striscia.

È altrettanto vero che, all'interno di Hamas, sono stati fatti passi in avanti significativi anche grazie all'operato di Khalil al-Hayya, che è il capo negoziatore di Hamas, scampato all'attentato ordito dagli israeliani tramite il bombardamento della delegazione del gruppo presente a Doha, in Qatar, dove però è rimasto ucciso suo figlio. Al-Hayya ha messo al centro il rilascio di 48 ostaggi israeliani, di cui 22 ancora vivi, purché poi ci sia una promessa per un graduale disarmo del movimento.

Sarà interessante vedere, in particolare, come andranno avanti le discussioni all'interno di Hamas – non solo come movimento politico ma anche come gruppo armato – perché, come sappiamo, nel corso di questi ultimi due anni, a seguito dell’incisiva azione bellica israeliana, il gruppo è passato da una catena di comando tradizionalmente verticistica a cellule militari autonome, in grado quindi di operare in maniera clandestina e in parziale isolamento, senza l'obbligo di dipendere dai superiori per eseguire gli attacchi contro le forze antagoniste.

Quindi, se Hamas, il gruppo politico con Al-Hayya e gli altri esponenti del comitato presenti a Doha e anche a Sharm el-Sheikh, la pensa in un modo, i combattenti rimasti all'interno della Striscia potrebbero pensarla diversamente. Sicuramente in questo momento tra Hamas e le Brigate Izz al-Din al-Qassam c'è un accordo che è stato propedeutico per la firma di un cessate il fuoco, di una tregua che però – ripeto – ha carattere temporaneo, poiché non sono state prese in considerazione, in questa dichiarazione di principi del piano Trump, le modalità per ragionare sulla geografia territoriale dell'entità statuale palestinese."

Come impatterà questo accordo sugli equilibri politici interni di Israele, soprattutto in relazione alla coalizione di governo? E sul fronte palestinese: che effetti potrebbe avere la creazione di un comitato tecnocratico a Gaza sulla legittimità di Hamas?

"Hamas ha detto di essere favorevole alla costituzione di un comitato internazionale che preveda la partecipazione degli Stati arabi e degli Stati musulmani. Diversi hanno già presentato la loro disponibilità: mi riferisco al Qatar, alla Turchia, all’Indonesia, al Pakistan, all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti. Quindi tutta una serie di soggetti arabi o musulmani hanno espresso la loro disponibilità a creare questo comitato internazionale, che però preveda anche la partecipazione di palestinesi.

Infatti, per Hamas, questo è un principio cardine: non ci deve essere un comitato internazionale capeggiato da Donald Trump o da Tony Blair, ma un comitato che preveda la partecipazione dei palestinesi – e quindi anche dei nemici di Hamas, cioè Al-Fatah, ovvero il presidente Abu Mazen, che è il capo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Senz’altro, all'interno dell’Autorità Nazionale Palestinese si dovrà iniziare a pensare a delle possibili elezioni, che non vengono indette ormai da quasi 20 anni e che probabilmente potrebbero vedere una vittoria del movimento politico sunnita di resistenza islamica, cioè di Hamas, che è ancora oggi identificato con la resistenza e gode ancora di grande consenso, non solo all’interno della Striscia di Gaza, ma probabilmente anche nella Cisgiordania.

Per quanto riguarda Israele, questo accordo temporaneo avrà degli impatti significativi. Bisognerà vedere quanto effettivamente terrà il governo Netanyahu, in particolare nel rapporto con le frange più estremiste e facinorose di estrema destra del governo, che – in cambio di questa temporanea tregua nella Striscia di Gaza – vorranno avere mano libera per quanto riguarda l’avanzamento delle colonie sioniste in Cisgiordania.

Vedremo soprattutto come si instaureranno i rapporti anche con la Turchia, ma soprattutto con l’Iran, che potrebbe tornare a essere un fronte caldo. Ma questa temporanea tregua nella Striscia di Gaza costringe di fatto il governo Netanyahu a concentrare l’attenzione anche verso le aporie presenti all’interno di Israele.

Come sappiamo, Israele è diviso in quattro tribù: i laici, i sionisti religiosi, gli ultraortodossi e gli arabo-palestinesi con cittadinanza israeliana, ciascuno con le proprie scuole e i propri luoghi di socializzazione. Per i laici, Israele è uno Stato democratico; per i sionisti religiosi, è uno Stato ebraico – quindi, per definizione, etnocratico; per gli ultraortodossi, invece, è uno Stato illegittimo. Questa tribalizzazione interna potrebbe far scoppiare il fronte interno, e per evitare questo, probabilmente il governo israeliano concentrerà sempre più la sua attenzione verso un nemico esterno, che potrebbe tornare a essere l’Iran."

Il nuovo ordine politico che si instaurerà a Gaza è realistico? O c’è il rischio di un vuoto di potere?

"Penso che non sia molto realistico, e quindi ci potrebbe essere un reale vuoto di potere nel momento in cui le fazioni palestinesi non dovessero arrivare a una effettiva riconciliazione, che era già stata siglata – a dir la verità – l’anno scorso, nel 2024, a Pechino, attraverso l’operato del ministro degli Esteri Wang Yi.

Effettivamente, il nuovo sistema di potere che si vorrebbe creare all’interno della Striscia di Gaza deve prevedere la partecipazione delle diverse fazioni palestinesi, che prima di tutto devono dare avvio a una riconciliazione comunitaria all’interno della Palestina. Perché uno dei grandi problemi dell’inesistenza dello Stato palestinese – oltre ovviamente alle pressioni esterne e alla non volontà da parte di Israele – è proprio questo problema di spaccature e fratture interne alla stessa comunità palestinese.

La contesa di questa partita sarà proprio la capacità dei palestinesi di saper riconciliarsi fra loro, e anche, ovviamente, il tipo di sostegno che riceveranno dalle comunità arabe e musulmane, che spesso hanno usato strumentalmente la causa palestinese per perseguire i propri egoistici interessi". 

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