Gaza, l'esperto non ha dubbi: “Il piano di Trump? Una resa per Hamas. E se fallisce Israele potrà far di Gaza ciò che vuole”

L’analista geopolitico: “Se il piano fallisse, i combattenti di Hamas continueranno a versare il loro sangue per la causa palestinese e Netanyahu proseguirà con la pulizia etnica all'interno della Striscia di Gaza”

di Federica Leccese
Esteri

L’esperto: “Il piano di Trump? Solo concessioni di facciata, ma nessuno sviluppo concreto” 

"Siamo molto, molto vicini alla pace”: così il presidente degli Stati Uniti ha esordito dopo l’annuncio del suo piano per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese. 

Ma sarà davvero così? O si tratta di un altro buco nell’acqua? Hamas accetterà questo accordo? A fare chiarezza è Elia Morelli, ricercatore di storia presso l’Università di Pisa, analista geopolitico e saggista, che ad Affaritaliani ha illustrato le ambiguità e i limiti del piano proposto da Trump, definendolo un'iniziativa preconfezionata che non affronta le vere cause del conflitto, a partire dalla mancata autodeterminazione del popolo palestinese.

Questo piano sembra più un “accordo di resa” imposto da Israele con la benedizione di Trump, piuttosto che una vera trattativa. Lei lo considera un piano di pace o un diktat politico?

“Sì, questo è un piano preconfezionato, che dovrà essere ulteriormente discusso, lavorato e rielaborato e che, se da un lato vuole tentare di rilanciare una proposta per ricostruire effettivamente la Striscia di Gaza, dall'altro è sostanzialmente una resa per Hamas, in quanto non andrebbe a risolvere alle radici le cause che hanno determinato il conflitto israelo-palestinese, che è fondamentalmente la questione dell'autodeterminazione del popolo palestinese e, dunque, del riconoscimento dello Stato palestinese.

Tra l’altro, alcune concessioni di facciata non risultano poi essere effettivamente concrete a livello pratico. Mi riferisco in particolar modo al ventilato ritiro delle truppe israeliane, quando in realtà lo stesso primo ministro israeliano Netanyahu ha detto che le truppe dell’esercito ebraico continueranno a rimanere in parti consistenti della Striscia di Gaza.”

Hamas non rischia di perdere totalmente la faccia se accetta un piano che impone la sua smilitarizzazione e un’amministrazione esterna?

“Senz’altro sì. Infatti, il piano prevede la deradicalizzazione, e quindi la liberazione di Gaza dall'organizzazione terroristica di Hamas, in particolar modo dall'ala militare, ovvero le Brigate Izz ad-Din al-Qassam. Ma è altrettanto vero che Hamas, attraverso l’alto funzionario Taher al-Nunu, ha rilasciato delle dichiarazioni alla Reuters in cui afferma che è inaccettabile per il popolo palestinese avere un comitato esterno presieduto dall'ex premier britannico Tony Blair.

Ha detto di aver sì accettato la formazione di un comitato che non rappresenti in toto alcuna fazione palestinese per gestire gli affari di Gaza dopo la guerra, ma che non accetteranno mai l’imposizione di quella che viene vista come una tutela straniera sul popolo palestinese.

Tra l’altro, lo stesso Taher al-Nunu ha affermato come la resistenza armata sia un diritto del popolo palestinese finché esiste l'occupazione. Quindi, se il popolo palestinese sarà liberato e verrà creato effettivamente uno Stato di Palestina, allora non ci sarà più bisogno né di resistenza né di armi, e ciò farà parte dell’entità palestinese.

Quindi, fondamentalmente, se nel piano è prevista la smilitarizzazione di Gaza, e quindi la neutralizzazione del dispositivo bellico di Hamas attraverso il controllo dei tunnel sotterranei e delle infrastrutture militari del gruppo armato da parte di Israele o di questo comitato internazionale, dall’altra parte Hamas risponde che i membri della resistenza armata – e dunque delle Brigate Izz ad-Din al-Qassam – dovranno confluire all’interno di un esercito nazionale palestinese.

Certamente, Hamas non potrà consegnare le armi fino a quando l'invasione israeliana e l’occupazione sionista procederanno non solo all’interno della Striscia di Gaza, ma anche in Cisgiordania. Perché il problema principale di questo piano è che analizza la Striscia di Gaza senza prendere in considerazione la Cisgiordania e senza soprattutto ragionare su quale dovrà essere la geografia territoriale del nuovo Stato palestinese.”

L’Europa è praticamente assente da questo piano. Quanto conta questo silenzio europeo?

“Il silenzio europeo è emblematico di come gli Stati europei, o almeno la maggior parte di essi – a eccezione della Spagna o di altri piccoli attori – siano sostanzialmente visti come strumenti in posizione ancillare rispetto agli Stati Uniti. Sono completamente schiacciati sulle posizioni di Washington.

E questo risulta essere un problema, perché fondamentalmente il Medio Oriente, e soprattutto il Mediterraneo orientale, dovrebbero essere al centro della nostra proiezione strategica. Dunque, la stabilizzazione del Medio Oriente dovrebbe avere una fondamentale importanza strategica, perché da esso dipende sostanzialmente la sopravvivenza dei Paesi europei.

I quali però sono schiacciati sulle posizioni di Washington e hanno avuto un approccio nei confronti degli Stati Uniti, di Israele e ancora di più dei palestinesi, di stampo colonialista, imperialista, orientalista e anche razzista. E quindi un sostegno spregiudicato nei confronti di Israele, senza mai prendere in reale considerazione quali siano le aspirazioni – più che legittime – da parte dei palestinesi, se non in alcuni rari casi. Però ecco, il riconoscimento dello Stato palestinese è importante perché ha un’alta valenza dal punto di vista politico e simbolico.

Ma senza una pressione diplomatica, delle sanzioni economiche e soprattutto la rottura immediata degli accordi di natura militare, non avrà grande concretezza.”

Se il piano fallisse, quali sarebbero gli scenari alternativi? Un’escalation totale? Una guerra a bassa intensità per altri dieci anni?

“Se il piano fallisse, da un lato avremmo i combattenti di Hamas che continueranno a versare il loro sangue per la causa palestinese. Dall’altra parte, l’esercito israeliano – che ha una supremazia tecnologica e militare – proseguirà con questa svolta di natura genocidaria e, dunque, con la pulizia etnica all'interno della Striscia di Gaza, per prenderne interamente il controllo, assecondando le richieste che provengono non solo dalle frange più estremiste del governo Netanyahu, ma anche all’82% degli israeliani che sono favorevoli alla prosecuzione dell’offensiva, di questa martellante campagna bellica all’interno della Striscia e, dunque, alla presa di controllo totale della Striscia di Gaza.”

Crede che i palestinesi comuni vedranno in questo piano una possibilità reale di vita migliore?

“Non penso, fino a quando non ci sarà l'autodeterminazione del popolo palestinese e, dunque, il riconoscimento concreto dello Stato palestinese. Senz’altro, l’aspetto positivo di questo piano è che prevede la permanenza dei palestinesi all’interno della Striscia di Gaza, quindi non più il loro sfollamento forzato verso il Sinai o verso altre località.

Però al centro ci deve essere proprio il riconoscimento dello Stato palestinese, un aiuto concreto e fattuale per lo sviluppo economico e, soprattutto, per garantire la sicurezza del popolo palestinese in una convivenza pacifica con il popolo israeliano.”

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