Il conflitto invisibile che lega Israele, Iran e l’Europa
Forse la vera sfida non è risolvere il conflitto con un colpo di mano. Ma trovare una grammatica nuova per affrontarlo
Guerra Israele Iran
La polvere del deserto e l’odore del gas: il conflitto invisibile che lega Israele, Iran e l’Europa
C’è un momento, nella storia dei conflitti, in cui il rumore delle armi si mescola a un silenzio più inquietante: quello delle decisioni che si prendono altrove, in stanze chiuse, nei corridoi delle cancellerie, nei grafici dei ministeri economici. È un silenzio che oggi avvolge il fronte tra Israele e Iran, ma che si propaga ben oltre le colline del Golan e il Golfo Persico. È il rumore ovattato di un mondo che cambia assetti senza aspettare che qualcuno lo dichiari.
A guardare il quadro da lontano, sembrerebbe solo l’ennesima escalation tra due nemici di lunga data. Israele da un lato, con la sua dichiarata impossibilità di tollerare minacce nucleari nel proprio vicinato; l’Iran dall’altro, con la retorica consolidata che continua a negare legittimità all’esistenza stessa dello Stato ebraico. Ma la vera posta in gioco è molto più ampia, molto più liquida. E coinvolge tutti, anche chi, in apparenza, rimane ai margini.
Israele è oggi governata da una leadership che fa della sicurezza nazionale non solo una priorità, ma il perno attorno al quale ruota l’intera vita politica. Un Paese che, di fatto, ha sospeso la possibilità di nuove elezioni, bloccato dalla convinzione – non priva di fondamento – che si trovi in stato d’assedio. Benjamin Netanyahu guida un governo forte, ma stretto nella morsa di un equilibrio interno precario, in cui ogni segnale di cedimento sarebbe colto come un tradimento del dovere primario: garantire la sopravvivenza.
L’Iran, intanto, prosegue lungo la sua traiettoria autonoma. Lo si può temere, lo si può criticare, ma non lo si può più descrivere come un Paese marginale o impreparato. Novanta milioni di abitanti, livelli di istruzione elevati, una base scientifica indipendente, capacità industriali e militari sviluppate, e una proiezione regionale che attraversa tutta la Mezzaluna sciita. Teheran non improvvisa: agisce, con la pazienza delle civiltà antiche e la durezza dei regimi che si sentono accerchiati.
In mezzo a questo scontro lungo, persistente e ideologico, si muove l’Europa. A fatica. Ancorata a Israele da legami storici e culturali, ma anche con interessi costruiti nel tempo verso il mondo arabo moderato. Perché ciò che oggi agita i mercati e i governi europei non è solo la minaccia della guerra, ma quella delle interruzioni. Del gas, delle rotte marittime, della stabilità dei fornitori. Dal Canale di Suez al corridoio energetico che va dal Maghreb al Levante, tutto il Mediterraneo allargato si regge su un equilibrio sottile, fatto di cooperazione, diplomazia commerciale e investimenti reciproci.
Ed è proprio questa la novità del nostro tempo: i conflitti non sono più soltanto fatti di trincee, ma di reti elettriche, terminali GNL, porti e memorandum energetici. Ogni colpo di artiglieria tra Israele e Iran scuote anche la borsa di Rotterdam, ogni decisione americana si riflette sui bilanci delle imprese europee, ogni esitazione diplomatica si traduce in tensione logistica nei porti del Mediterraneo.
In questo scenario, gli Stati Uniti riaffermano con chiarezza il loro sostegno a Israele. Ma lo fanno dentro una traiettoria nuova. L’amministrazione Trump, insediatasi con la promessa di dare risposte rapide alle grandi crisi internazionali – a cominciare da quella ucraina – si trova ora immersa in un contesto fluido, dove ogni intervento rischia di produrre effetti imprevisti. L’Ucraina stessa, un tempo priorità assoluta, sembra essere scivolata in secondo piano, sostenuta ormai con coerenza esplicita solo da alcune capitali europee. Il resto del mondo si muove tra cautele, stanchezze, distanze.
E intanto il sistema globale cambia forma. Non è più l’asse unico tra Washington e Bruxelles a governare i ritmi della sicurezza. C’è Mosca, che osserva e incassa. C’è Pechino, che costruisce infrastrutture e propone stabilità commerciale come forma di egemonia dolce. C’è l’India, che rafforza i suoi legami con Israele senza mai rompere del tutto quelli con Teheran. Ci sono i Paesi del Golfo, che diversificano alleanze e investimenti, guardando all’Occidente come partner ma non più come unica sponda.
Questo è il mondo multipolare che si sta consolidando. Un mondo dove i vecchi schemi fanno fatica a imporsi e dove ogni crisi regionale può diventare una faglia globale. L’Europa, in questo quadro, è chiamata a fare di più. Ma è frenata da una serie di vincoli interni – a partire dalle regole di bilancio – che limitano le possibilità di manovra strategica. Mentre altri Paesi, fuori dall’Unione, investono in difesa con maggiore libertà, l’Europa discute, media, osserva. Ma rischia di rimanere spettatrice.
E poi resta il cuore della questione: l’Iran. Dietro la teocrazia e le divise dei pasdaran c’è un Paese reale, dove vivono milioni di persone che studiano, lavorano, sperano. Ma quante di queste condividono ancora la linea della leadership? E quante vedrebbero con favore un cambiamento, se potesse avvenire senza l’ennesimo intervento esterno? A questa domanda nessuno, oggi, può rispondere con certezza. Anche perché la storia ha lasciato ferite profonde.
Dal Vietnam all’Iraq, dall’Afghanistan alla Libia, l’idea di cambiare i regimi dall’esterno non ha mai davvero funzionato. Spesso ha prodotto instabilità, guerre civili, ondate migratorie, nuove minacce. L’Iran non è un’eccezione, ma non è nemmeno un caso qualsiasi. È una civiltà millenaria, un nodo strategico, un interlocutore difficile ma ineludibile.
Forse la vera sfida non è risolvere il conflitto con un colpo di mano. Ma trovare una grammatica nuova per affrontarlo, tenendo insieme sicurezza, energia, diplomazia e legittimità popolare. Perché questa volta, più che mai, la posta in gioco non è solo regionale. È l’equilibrio, o il disordine, del mondo che verrà.