Il diktat di Trump su Gaza e il naufragio in Ucraina: così il tycoon mostra i muscoli più per il suo ego che per la pace

Chi sperava nella pace intesa come dialogo fra pari resta deluso: questo non è un negoziato fra contendenti equivalenti, ma un diktat con scadenza e minacce

di Simone Rosti
Esteri

Tra diktat politici, risultati concreti e leadership da palcoscenico: il commento 

Solo uno stolto — e ce ne sono tanti, anche fra i manifestanti di questi giorni — potrebbe non rallegrarsi se, come pare, il piano propinato da Donald Trump per Gaza stia producendo effetti concreti: Hamas avrebbe accettato parti dell’accordo e si parla di un rallentamento delle operazioni militari israeliane nella Striscia. Vedremo nei prossimi giorni, i colloqui fra le parti sono in corso.

Intanto però, possiamo dire che siamo di fronte a un fatto politico, per quanto frutto di pressioni colossali e di ultimatum pubblici, non una grazia disinteressata. Non siamo mai stati teneri con Trump e non abbiamo motivo per esserlo (la lista dei suoi misfatti sarebbe molto lunga da fare). Però, nel caso specifico, ha giocato l’unica carta che poteva: non ha sprecato parole su riconoscimenti simbolici e ha sparato l’ultimo colpo secco, plateale e minaccioso, sul tavolo.

Il risultato? Un documento che impone ad Hamas di cessare il fuoco, il rilascio degli ostaggi e una sorta di transizione amministrativa per Gaza — il tutto condito dall’imperativo: o vi arrendete o vi faccio distruggere. È politica muscolare, non diplomazia gentile. Chi sperava nella pace intesa come dialogo fra pari resta deluso: questo non è un negoziato fra contendenti equivalenti, ma un diktat con scadenza e minacce. La pace, di solito, richiede due parti che si riconoscano reciprocamente; qui abbiamo un aggressore determinato che sta uccidendo migliaia di civili, un’organizzazione ormai messa alle strette (Hamas) e un terzo attore (Trump) che detta tempi e condizioni dall’esterno.

Se funziona — e se davvero si tradurrà in meno bombe e più aiuti umanitariben venga. Trump, come sappiamo, è forte con i deboli e spesso debole con i forti — un refrain confermato dalla sua gestione dell’Ucraina. I suoi ultimatum rivolti a Mosca, urlati in grande stile, i suoi tappeti stesi al dittatore russo, si sono rivelati puri colpi a effetto: Putin non si è seduto al primo richiamo e le promesse di portarlo al tavolo non hanno smosso il fronte russo quanto servirebbe.

L’esito? Un conflitto che si trascina, con l’Ucraina che paga il conto umano, mentre le minacce tacciono per mancanza di virtù negoziale. Sul fronte cinese, la musica non cambia: con Pechino, Trump non sembra voler rischiare lo scontro frontale necessario quando ci sono interessi strategici in gioco. L’atteggiamento è spesso più prudente che risoluto, la retorica infuocata rimane frequentemente teatrale, mentre le mosse concrete, dure davvero, vengono calibrate o rinviate.

È la fisionomia di un leader che grida più per la platea (e il suo ego) che per i tavoli dove si decidono i conti veri. Concludendo: se oggi vediamo una tregua o una riduzione dell’offensiva nella Striscia, applaudiamo il risultato concreto. La “riabilitazione” di Trump come pacificatore sarebbe prematura. Su Gaza ha giocato d’autorità, ha imposto condizioni e ha incassato qualcosa a partire dal concetto, mai sottolineato abbastanza dai manifestanti pro-pal, che il vero ostacolo alla pace fosse Hamas.

Non ha compiuto un miracolo diplomatico, ma ha fatto l’unica mossa possibile riuscendo, per una volta, a trasformare la sua teatralità in leva politica efficace. Questo non lo rende un negoziatore superiore, lo colloca, piuttosto, nel ruolo che gli riesce meglio: il duro che pretende obbedienza. E quando l’obbedienza viene a mancare, le parole altisonanti restano belle lette sul palco senza cambiare il corso degli eventi.

 

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