Terrorismo, l'evoluzione del jihad secondo il politologo francese Gilles Kepel

di Sara Garino
Esteri
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Ci sono date destinate a segnare uno spartiacque nella Storia del mondo, e certamente l’11 Settembre 2001 figura fra queste. Il collasso delle Torri Gemelle a New York ha infatti significato metaforicamente anche il crollo del senso di sicurezza e protezione dell’Occidente, l’abbandono della serafica “distrazione” degli ultimi anni ’90 e l’irruzione, prepotente, del terrore e del terrorismo jihadista fra le mura domestiche.

Una data simbolo, che Gilles Kepel ­– Politologo fra i massimi esperti al mondo di Medio Oriente  – su Le Monde sottolinea “chiudere a cerniera” un altro momento topico della Storia recente. Dunque l’11/9 2001 come prosecuzione del 9/11 1989, quando, specularmente, fu il Comunismo a essere abbattuto con il crollo del muro di Berlino. Comunismo, de facto, decapitato già nove mesi prima, a seguito del ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan il 15 Febbraio 1989.

Eventi, tutti, che hanno lasciato un’impronta indelebile non solo sull’Occidente ma anche nei gangli del mondo arabo-islamico, dove – crescendo – tale humus si è poi tradotto nel terrorismo – o meglio, nei terrorismi – in campo oggi, in concomitanza con l’insediamento del nuovo governo talebano in Afghanistan.

Come documentato da Kepel, Docente presso le Università Paris Science et Lettres e Sciences Po, nonché titolare della cattedra di Medio Oriente-Mediterraneo presso l’Ecole Normale Supérieure, i nessi di causa-effetto sono lapalissiani, originando proprio dalla data fatidica della fuga dei Russi da Kabul. Il cambiamento epocale in termini di assetti geopolitici che questo “Vietnam dell’U.R.S.S.” determinò (soprattutto per quanto concerne il predomio sunnita nella polveriera medio-orientale), fu messo in sordina e “relegato alle pagine interne dei quotidiani”. Solo il giorno prima, infatti, l’ayatollah Khomeyni aveva lanciato una fatwa ai danni dello Scrittore Salman Rushdie, reo di blasfemia per aver scritto “I versi satanici”, un’opera chiaramente irridente il Profeta Maometto.

É qui, di fronte a questo furto mediatico perpetrato dalla potenza sciita di Teheran che, secondo Gilles Kepel, si celano i prodromi per la nascita di Al-Qaida: “dalla frustrazione dello jihadismo sunnita per essere stato defraudato della vittoria in Afghanistan”. Del resto già nel documento ritenuto il manifesto di Al-Qaida, “Cavalieri sotto il vessillo del Profeta” (diffuso a partire dal 1998), Ayman Al-Zawahiri (numero due di Osama Bin Laden) deplorava come la sconfitta mediatica subita in Afghanistan avesse determinato l’arretramento e la sconfitta del jihad in Egitto, Algeria e Bosnia. Raffreddando, in buona sostanza, gli spiriti bollenti dell’avanguardia islamica. Così dunque va letto l’11 Settembre, come una gigantesca rivincita ottenuta extra mœnia, nel cuore dell’Occidente che si credeva intoccabile. E con modalità, sottolinea ancora Kepel, “da codice narrativo hollywoodiano”, per via dello sgomento e dell’allibito sconcerto che le immagini degli attentati hanno provocato in tutto il mondo.

In maniera neanche del tutto paradossale, Al-Qaida fu però presto vittima della sua funerea eco planetaria, venendo sconfitta da un’anomala coalizione in cui Washington e Teheran combattevano la “guerra contro il terrore” – come ebbe a definirla l’allora Presidente George W. Bush – dalla stessa parte della barricata. Si innesta a questo punto, proprio sullo sradicamento di Al-Qaida, la pianta da cui nascerà Daesh.

E si innesta con un approccio totalmente diverso. Se l’organizzazione capeggiata da Osama Bin Laden aveva infatti una struttura verticistica e centralizzata, con ordini precisi impartiti a monte ed esecutori a valle sul modello leninista, l’ISIS presenta invece un’impronta di tipo reticolare. Meno acuta nello scagliarsi contro gli U.S.A., facendo leva invece sull’odio verso gli “eretici” sciiti e contro i “crociati occidentali”, europei in primis. In quest’ottica, evidenzia ancora Gilles Kepel, è normale che il braccio armato potenzialmente più efficace e mortale sia divenuto quello gestito da una galassia, da una rete di soggetti, figli di immigrati sparsi nelle banlieues di Francia, Belgio e Germania. Con un’ulteriore moltiplicazione dei fattori di potenza comunicativa: dalle televisioni satellitari di cui poteva beneficiare Al-Qaida nel 2001 per rilanciare i suoi proclami, agli istantanei e pervasivi social media esplosi nell’ultima decade. Da cui poter trasmettere in diretta ogni truce e vile barbarie, comprese le decapitazioni e gli sgozzamenti ad usum di formidabile arma di intimidazione e propaganda.

Dal momento della proclamazione dello Stato Islamico, nel Giugno del 2014, sono occorsi cinque anni per debellare (o per lo meno contingentare) la minaccia di Daesh: con i bombardamenti della coalizione internazionale, con le montagne di dollari spesi in sviluppo della Cyber-sicurezza ma anche in ragione dell’intervento delle milizie sciite, da Hezbollah a Hachd Al-Chaabi. Cinque anni: per l’Europa, cinque anni di sangue e attentati, prima di arrivare alla caduta di Raqqa e Mosul nel 2017 e all’uccisione dell’auto-proclamato califfo Abu Bakr Al-Baghdadi nell’Ottobre del 2019.

Siamo così giunti ai nostri giorni. Con, da una parte, quello che l’Autore di “La rivincita di Dio” definisce evocativamente “terrorismo d’atmosfera”, portato avanti da una serie di fanatici “imprenditori della rabbia”, i quali attraverso i social individuano obiettivi (diretti o incarnazione di un certo modo di pensare) verso i quali altri poi scaricheranno la propria mano armata. È il caso del Professor Samuel Paty, decapitato l’anno scorso da un giovane di origine cecena per aver osato evocare in classe le caricature del Profeta Maometto.

Dall’altra parte abbiamo ovviamente l’Afghanistan odierno, il nuovo Emirato Islamico governato dai Talebani. Che, come osserva ancora Gillel Kepel su Le Monde, non sono ideologicamente diversi dai loro padri e predecessori di venti anni addietro. Semplicemente, fa notare lo Studioso, “è il contesto a essere profondamente mutato”. Rispetto al 2001, infatti, sul palcoscenico della Geopolitica mondiale insiste l’ulteriore protagonismo, potente e ambizioso, della Cina. Una Cina che si è affrettata a ricevere in pompa magna la delegazione talebana, per sfruttare il vantaggio epocale che gli investimenti a pioggia sul territorio afghano potranno sortirle, ma anche per assicurarsi il silenzio di Kabul circa le pratiche genocidarie perpetrate da Pechino ai danni della minoranza musulmana uigura nello Xinjang.

È inoltre fondamentale ricordare la portata storica dei Patti di Abramo, siglati nel 2020 fra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein nell’ottica di dar luogo a un’allenza militare regionale che vigili come una sentinella sul Medio Oriente, fronteggiando la comune minaccia di Teheran.

L’analisi di Kepel dimostra dunque come quello del terrore sia un rizoma soggetto a continui cambiamenti e a mutazioni quasi infinite. Il rischio per l’Occidente – e la tanto drammatica quanto repentina caduta di Kabul lo attesta pienamente – è quello di ritrovarsi, dopo venti anni, al punto di partenza. Con lo sguardo rivolto indietro, a chiedersi “perchè”.