Cinque romanzi in cui immergersi con l’arrivo dell’inverno

La magia del fantasy, l’adrenalina del thriller, le atmosfere dark e gotiche: ecco come dare un po’ di vitalità alle giornate fredde invernali

di Chiara Giacobelli
Libri & Editori

Cinque romanzi in cui immergersi con l’arrivo dell’inverno

Stanno per arrivare i pomeriggi sferzati dal vento gelido da trascorrere accanto al caminetto con un buon libro in mano, la neve e le cioccolate calde, il buio troppo presto e la poca voglia di uscire, magari per privilegiare una lettura sotto le coperte che possa farci sentire vivi, accesi, trasportati in un mondo di immaginazione.
Ecco allora cinque romanzi che Affari Italiani ha selezionato per voi e che sapranno senza dubbio come dare pepe alle vostre giornate invernali, regalandovi emozioni intense e immergendovi in atmosfere surreali.  


 

1) Katabasis di R. F. Huang (Mondadori)

Una vera e propria discesa nell’inferno dell’anima: è così che molte testate e lettori hanno definito l’oscuro e travolgente Katabasis di R. F. Kuang, il nuovo capolavoro dark accademico pubblicato da Mondadori Oscar Fantastica e ottimo anche come regalo natalizio, per chi ama il genere.
L’edizione si presta infatti ad essere ammirata e apprezzata, con una cover lucida e stampe sovraimpresse, tagli laterali dai motivi gotici nei toni del verde ricchi di dettagli, mappe da studiare, simboli da decifrare e un formato importante che fa la sua bella figura negli scaffali. Insomma, non soltanto un libro da leggere, ma anche da mostrare in libreria. 

Con Katabasis R. F. Kuang firma senza dubbio una delle opere più dense e folgoranti della sua carriera, confermandosi tra le autrici più visionarie e sofisticate del fantasy contemporaneo. Dopo il successo travolgente della trilogia della Guerra dei Papaveri, del celebrato Babel e dell’irriverente Yellowface, Kuang ci conduce in un viaggio letterale e metaforico negli Inferi, un’odissea nera e magistrale che mescola mito, accademia, dolore e magia con un equilibrio stupefacente.


 

L’opera prende avvio da una parola antica, katábasis – dal greco: la discesa, l’atto di scendere nell’Ade. E proprio questo è il destino di Alice Law, protagonista complessa e straordinariamente umana. Si legge nella sinossi del libro: «Alice Law ha sempre avuto un solo obiettivo: diventare una delle menti più brillanti nel campo della magia. Per realizzarlo ha sacrificato molto: l’orgoglio, la salute, l’amore e, soprattutto, la sua salute mentale». La sua ossessione la porta a lavorare fianco a fianco con Jacob Grimes, il più eminente mago vivente, fino a quando un misterioso incidente lo strappa alla vita... o così pare.

Grimes, infatti, è finito letteralmente all’Inferno. Quando una lettera criptica indirizzata ad Alice apre spiragli sulla possibilità di salvarlo, la giovane maga decide di tentare l’impossibile. Al suo fianco, il rivale Peter Murdoch – brillante, irriverente, segnato da una ferita identica alla sua – con cui condivide un passato accademico e una perdita insanabile. Armati di conoscenza, pergamene e ossessioni, i due attraversano le soglie degli Inferi alla ricerca dell’anima perduta del loro maestro, in un percorso che mette alla prova i loro limiti, il loro legame e la loro stessa umanità.


 

Il romanzo si muove con grazia tra citazioni letterarie, echi mitologici e filosofia contemporanea. Kuang non si limita a costruire un universo narrativo coerente: lo intarsia di riferimenti colti e riflessioni sulla colpa, sul sacrificio intellettuale, sull’ambizione distruttiva. In una nota introduttiva, l’autrice dichiara: «È fantasia pura, come del resto gran parte di questo libro», rivelando il sottile gioco di specchi tra realtà accademica e immaginazione che permea ogni pagina.
Il tono è raffinato, a tratti lirico, denso di allusioni ma sempre nitido, mai pretenzioso. Il lettore si ritrova in una dark academia dalle tinte dantesche, in cui si respira l’atmosfera plumbea di Babel, ma con un’intensità psicologica ancora più pronunciata. La narrazione alterna momenti di tensione incalzante a passaggi intimi, a volte dolorosamente onesti, in cui i personaggi si spogliano delle maschere per rivelare ferite profonde.

Alice è un personaggio magnificamente imperfetto. Fragile eppure determinata, distruttiva ma capace di amore profondo, incarna la tensione eterna tra ambizione e umanità. Peter Murdoch, il suo compagno di viaggio e di incubi, è il contraltare ironico e brillante, segnato da un trauma condiviso ma incapace di affrontarlo con la stessa ossessione cieca di Alice. Insieme, danno vita a un duo dinamico, tormentato, che ricorda le grandi coppie letterarie spezzate dal destino più che unite dall’amore.
Le dinamiche tra i due sono imprevedibili e profonde, sorrette da un dialogo che alterna sarcasmo, vulnerabilità e tenerezza malcelata. Non mancano figure secondarie memorabili, come Jacob Grimes stesso – enigmatico e paterno, un Virgilio che ha perso la via – e le creature infernali che incarnano le paure più recondite dei protagonisti.

Katabasis è un’opera che sfugge alle categorie: è fantasy, certo, ma è anche un romanzo psicologico, un trattato sull’etica dell’ambizione, una parabola sul dolore non elaborato. Tematicamente esplora la colpa, il lutto, la memoria e l’identità intellettuale. La magia non è un potere salvifico, bensì uno strumento imperfetto, talvolta pericoloso: «la magia non è sempre la risposta a tutti i problemi» scrive Kuang.


 

In un’intervista per il canale YouTube di Barnes & Noble, l’autrice spiega: “Volevo che Katabasis esplorasse cosa significhi inseguire la conoscenza quando ha un costo totale. Quanto dovremmo sacrificare per il genio?” – un interrogativo che attraversa il romanzo come una lama sottile. E ancora, in dialogo con la CBS Boston afferma: “La dark academia non riguarda solo l’estetica. Parla dell’ossessione, del prezzo dell’eccellenza, della solitudine della mente”.

Il retro della cover di Oscar Fantastica ospita opinioni entusiaste da parte di altri scrittori. Leigh Bardugo lo definisce “un’avventura piena di allusioni e illusioni, intelligente, cruenta e straziante…”; Shannon Chakraborty lo loda per la sua originalità: “andare all’Inferno non è mai stato così divertente”, mentre Rebecca Roanhorse parla di un “perfetto mix di profondità letteraria, godibilità assoluta e audacia sfacciata”, sottolineando l’equilibrio raro e non per nulla scontato tra erudizione e accessibilità.


 

R. F. Kuang, nata a Guangzhou nel 1996 e naturalizzata statunitense, ha pubblicato il primo romanzo a soli diciannove anni. Dopo aver studiato a Cambridge e Oxford, oggi è dottoranda a Yale in lingue e letterature dell’Estremo Oriente. Con Katabasis prosegue una traiettoria letteraria che, pur attraversando generi differenti, mantiene una coerenza etica e una profondità concettuale che la rendono una delle voci più originali della sua generazione.
Questo romanzo è secondo Affari da suggerire a chi ama il fantasy colto, ai lettori di Donna Tartt, ai fan di Babel, ai cultori della dark academia, ma anche a chi cerca una storia di redenzione, d’amicizia e di lotta contro i propri demoni. È un libro che parla a chi ha inseguito sogni troppo grandi, a chi ha perso qualcosa per la strada, a chi non smette di cercare, anche quando sa di dover attraversare l’Inferno.

Lo consigliamo perché: Con Katabasis Kuang non ci offre solo una discesa nell’Oltretomba, ma ci consegna una mappa per attraversare le profondità della mente, del dolore e della memoria, dimostrando ancora una volta che la letteratura fantastica, se ben scritta, può farsi specchio lucido della nostra umanità più fragile.

2) La bugia dell’orchidea di Donato Carrisi (Longanesi)

In La bugia dell’orchidea (Longanesi, 2025) Donato Carrisi conduce il lettore all’interno di un labirinto mentale che affonda le radici nella menzogna, nell’identità e nel potere perturbante della narrazione. Un romanzo che segna non solo un ritorno alle atmosfere più cupe dello scrittore di Il suggeritore, ma anche una sua evoluzione verso una letteratura più metanarrativa, complessa e stratificata, capace di ridefinire i confini del thriller psicologico.

Tutto ha inizio in un casale rosso, isolato nella campagna, dove il silenzio dell’alba viene infranto da un urlo. È la fine della famiglia C.: tre bambini e due genitori brutalmente assassinati. Un solo sopravvissuto, Lorenzo C., immediatamente accusato e incarcerato. I fatti sembrano chiari, ogni indizio combacia, ogni dettaglio è allineato. Tuttavia Carrisi sussurra sin dall’inizio una verità dissonante: “Ma ciò che proprio non puoi immaginare è che questa non è la fine della storia. È l’inizio”.


 

Al centro del romanzo troviamo Victoria Anthon, scrittrice invisibile, una sorta di alter ego femminile dell’autore. Nessuno sa chi sia, nessuno l’ha mai vista. Lei stessa ci racconta: «Non appartenevo a nessuno e a nessun posto. E nessuno e nessun posto mi apparteneva. Ma mi ero scelta la mia vita randagia e non l’avrei rimpiazzata con nient’altro». La sua voce guida il lettore in una narrazione dentro la narrazione, un gioco letterario in cui il romanzo che teniamo in mano è presentato come un manoscritto, Labia sericea, scritto da lei stessa dieci anni dopo la strage. È lei, insieme al giornalista Alfredo F., a indagare su quel delitto che sembrava risolto, ma che invece nasconde verità disturbanti, “oltreumane”, come le definisce la stessa protagonista.

Carrisi costruisce una finzione dentro la finzione, una metanarrazione in cui il lettore è costantemente destabilizzato. La verità diventa sospetta e persino i ricordi assumono il sapore dell’inganno. L’orchidea del titolo – La bugia dell’orchidea – è simbolo perfetto di questa ambiguità: fiore seducente che attira per bellezza, ma che si nutre di menzogna. «A volte la verità è solo un’altra forma di menzogna, raffinata come il profumo di un fiore che fiorisce solo di notte», si legge nel romanzo.

Lo stile di Carrisi in questo romanzo è visivo, essenziale e ipnotico. L’atmosfera è un personaggio a sé, come ha dichiarato lui stesso nel corso del programma In altre parole condotto da Gramellini: “Non desideravo solo raccontare una storia ma anche un’emozione, una sensazione. E volevo creare un’esperienza”.
Ogni dettaglio – le biciclette sulla ghiaia, i panni stesi, il moscone sul secchio – concorre a comporre un quadro disturbante di normalità infranta. E lo stile asseconda questa tensione: rapido ma preciso, poetico ma tagliente. Carrisi, come un illusionista, irretisce il lettore in una rete di suggestioni che cresce di intensità fino a un epilogo spiazzante, enigmatico e sfuggente.


 

Nel romanzo, il male non ha una forma definita: è un’ombra che serpeggia tra le pieghe del quotidiano, alimentato da rancori, segreti familiari, silenzi mai interrotti. «Il rancore è un lievito che cresce lentamente, al calore domestico degli affetti» scrive l’autore, e questa metafora rivela l’essenza più profonda della narrazione.
Non c’è un solo colpevole, né una verità assoluta. Come spiega Carrisi in un’intervista per i canali social di Longanesi: “Qualcuno si è arrabbiato. Ed è normale che ci si senta spaesati alla fine, ma moltissimi mi hanno scritto qualche giorno dopo averlo terminato per dirmi che avevano capito. Il libro ha continuato ad agire dentro di loro. E credo che questo un romanzo debba sfidare i lettori”.

Rispetto alle celebri opere della saga di Pietro Gerber (La casa delle voci, La casa dei silenzi), La bugia dell’orchidea rappresenta un punto di svolta. Non c’è un profiler, ma una scrittrice; non c’è un’indagine ufficiale, ma un viaggio interiore e narrativo; non ci sono risposte, ma infinite domande. Carrisi rinuncia al comfort delle regole del genere per costruire qualcosa di più ambizioso: un romanzo che si legge come un’indagine, ma si vive come un’esperienza sensoriale e mentale.
In questo senso, l’autore stesso, sempre ospite di Gramellini, sottolinea la natura “illuminista” della scrittura: “I libri sono l’ultimo strumento di libertà che ci rimane”. Un’affermazione che inquadra la vocazione del romanzo: scuotere, interrogare, far pensare.

La bugia dell’orchidea è un romanzo che parla a chi ama il thriller cerebrale, ma anche a chi cerca nella narrativa qualcosa che sfugga alle convenzioni. È quindi adatto a lettori maturi, attenti, disposti a farsi disorientare, ideale per chi apprezza autori come Gillian Flynn o Paul Auster, per chi non ha paura di leggere un libro che non dà risposte, ma stimola domande.

Lo consigliamo perché: con La bugia dell’orchidea Donato Carrisi ha scritto molto più di un thriller. Ha costruito una trappola narrativa elegantissima, dove ogni parola pesa, ogni dettaglio è sospetto e ogni certezza si frantuma. È un libro che sfida la fiducia del lettore e che, come l’orchidea, affascina mentre nasconde. Una lettura che lascia un segno indelebile: perché, come scrive Carrisi, “chi lo legge avrà un segreto. E nessuno sarà più lo stesso”.

3) Darkly di Marisha Pessl (Bompiani)

Con Darkly, edito in Italia da Bompiani nella traduzione di Cecilia Fadda, Marisha Pessl firma un romanzo che è insieme avventura, thriller psicologico e riflessione metanarrativa sul potere dei giochi. Un’opera ambiziosa e sofisticata, destinata a conquistare lettori di ogni età, ma soprattutto coloro che amano smarrirsi in storie dove la finzione diventa esperienza sensoriale e la narrazione un meccanismo a orologeria.

“Una storia folle e avvincente che tiene con il fiato sospeso”, la definisce The Washington Post, mentre Los Angeles Times parla di un libro “pieno di emozioni e atmosfera”.
Arcadia “Dia” Gannon è una diciassettenne fuori dal comune: vive in Missouri, gestisce il negozio d’antiquariato di famiglia quasi da sola, mentre sua madre — eccentrica e inaffidabile — rischia di far naufragare tutto. La vita di Dia ruota però intorno a una passione viscerale: i giochi Darkly, ideati dalla leggendaria Louisiana Veda, game designer geniale e misteriosa, scomparsa in circostanze mai del tutto chiarite. I suoi giochi, oggi rarissimi, sono diventati oggetti di culto, venduti per milioni di dollari.


 

L’occasione della vita arriva con uno stage estivo alla Darkly Foundation, in Inghilterra: sette adolescenti da tutto il mondo, i “Veda Seven”, vengono selezionati per un incarico segreto. Tra loro ci sono Poe, Franz-Luc, Torin, Cooper, Mouse ed Everleigh: tutti diversissimi, accomunati da un’intelligenza fuori norma e da una particolare sensibilità logica. Il compito? Ritrovare una copia rubata di Valkyrie, il ventinovesimo e mai pubblicato gioco della Veda, la cui esistenza sfuma tra mito e ossessione.
Dia si ritrova allora in un mondo parallelo, dove ogni stanza, ogni oggetto, ogni indizio può essere parte del gioco. La ricerca del gioco perduto si trasforma in una discesa nell’inconscio della Veda stessa, in un viaggio tra enigmi e illusioni dove i confini tra realtà e finzione si dissolvono.

Louisiana Veda è una figura di culto, costruita con straordinaria cura da Pessl. Un’artista visionaria, ossessionata dal controllo, dalla verità e dalla bellezza matematica del gioco. Per anni ha progettato giochi capaci di destabilizzare e incantare, lasciando dietro di sé una scia di misteri. La sua morte — così come la sparizione del gioco Valkyrie — è il centro oscuro attorno a cui ruota tutta la vicenda. E Dia, con la sua mente acuta e intuitiva, è l’unica capace di decifrare il codice nascosto nell’eredità della Veda.
Come racconta Pessl in un’intervista a Publishers Weekly: “Volevo creare un’esperienza che fosse più di una semplice storia: un mondo in cui il lettore si potesse perdere, come in un sogno lucido”. Questo intento traspare chiaramente: Darkly è un romanzo costruito come un gioco, pieno di simboli, livelli, false piste e colpi di scena.

Pessl costruisce un mondo letterario denso e stratificato, intriso di malinconia e mistero. L’isola dove si svolge lo stage è immersa in una nebbia quasi gotica, che ricorda le ambientazioni di Knives Out e le atmosfere immersive di Ready Player One, ma con un tocco tutto personale. I luoghi sembrano pensati per riflettere le ossessioni della Veda: stanze che cambiano aspetto, giochi che si animano, simboli che conducono a verità nascoste.
L’esperienza narrativa è totalizzante. Come ha affermato la stessa autrice nell’intervista rilasciata a NPR, “scrivere Darkly è stato come costruire una macchina da sogno: tutto doveva combaciare, ma anche disorientare”.

La narrazione in prima persona permette di vivere l’intera esperienza attraverso gli occhi di Dia, la cui voce è autentica, riflessiva e mai banale. Pessl dosa con maestria introspezione e tensione narrativa. Lo stile è fluido, ma pieno di sfumature; ogni frase nasconde un doppio fondo. Il ritmo cresce gradualmente, poi accelera con precisione chirurgica fino al twist finale, che rimescola tutte le carte in tavola.
L’epilogo è uno dei punti più forti dell’opera: sorprendente, coerente, emotivamente potente. Non si tratta di un semplice colpo di scena, ma di un ribaltamento prospettico che dà senso a ogni dettaglio precedente. Come spesso accade nei romanzi della Pessl, la verità arriva solo quando il lettore ha già accettato di non poterla trovare. E invece, improvvisamente, tutto torna.


 

Marisha Pessl, nata ad Ann Arbor nel 1977 e formatasi a Columbia, ha esordito con Teoria e pratica di ogni cosa, un romanzo metanarrativo accolto con entusiasmo dalla critica. Il suo secondo libro, Notte Americana, l’ha consacrata come una delle voci più interessanti della narrativa contemporanea: un thriller gotico che unisce narrazione visiva, inserti multimediali e riflessioni sul potere dell’immagine e della memoria.
Con Darkly, Pessl torna a rivolgersi a un pubblico young adult, ma lo fa mantenendo la sua firma stilistica inconfondibile: intrecci intricati, protagoniste forti e vulnerabili, e una fascinazione costante per ciò che si cela oltre la superficie. Come ha dichiarato a Zibby Books: “Dia non è un’eroina. È una cercatrice. Cerca risposte, ma trova nuove domande”.

Darkly è una lettura consigliata a chi ama i romanzi-labirinto, dove nulla è come sembra, e dove il lettore è chiamato a partecipare attivamente alla decifrazione del mistero. È perfetto per chi cerca un’esperienza narrativa immersiva, per chi ama il thriller psicologico, la narrativa speculativa e le storie che mettono in discussione la realtà.
È anche una potente riflessione sul talento e sull’ossessione, sull’adolescenza come fase di transizione e sulla capacità delle storie di plasmare il nostro sguardo sul mondo. Come scrive la stessa Pessl in un passaggio cruciale del romanzo: «Non sei tu a possedere i giochi Darkly. Sono loro che possiedono te». 

Lo consigliamo perché: è una dichiarazione d’intenti e allo stesso tempo una promessa mantenuta. Darkly è un gioco narrativo che ti entra nella mente e non ti lascia più andare.


 

4) Seppellisci le mie ossa nel suolo di mezzanotte di V.E.Schwab (Mondadori)

Seppellisci le mie ossa nel suolo di mezzanotte è arrivato in Italia grazie a Oscar Mondadori, nella collana Fantastica e nella traduzione impeccabile di Chiara Brovelli. Un volume che si presenta esteticamente intriso di azzurro e nero, con uno studio accurato – come sempre per questo genere di titoli – della grafica e dei dettagli. 
V.E. Schwab ci consegna questa volta un romanzo vibrante, oscuro e lirico che trascende i confini del gotico per farsi meditazione narrativa su fame, amore, rabbia e rinascita. Attraverso tre epoche, tre protagoniste e un’unica, potente rosa selvatica che fiorisce al centro del racconto, l’autrice costruisce un’opera che si imprime nella memoria come una fiaba scritta col sangue.

Il libro si apre con una poesia incantata e sinistra, un vero e proprio incipit simbolico:
Seppellisci le mie ossa nel suolo di mezzanotte,
sotto poca terra, e annaffiale con tanta acqua,
e al mio posto spunterà una rosa selvatica,
con morbidi petali rossi che nascondono denti bianchi e aguzzi
”.

Un canto funebre e rigenerante che incarna lo spirito del romanzo: la trasformazione, il dolore come seme, la bellezza feroce che nasce dalla sopravvivenza.


 

Il romanzo si articola in tre storie indipendenti ma legate da un filo invisibile – la presenza di una rosa nera dai poteri misteriosi, la medesima sete di libertà, lo stesso urlo represso che da secoli abita il corpo femminile.
María, nel 1532, vive nella Spagna rurale. Giovane, bella e selvaggia, conosce fin troppo bene cosa significhi essere merce in un mondo governato dagli uomini; ma quando un misterioso straniero le offre un’alternativa al matrimonio forzato, sarà la disperazione – e forse qualcosa di più antico – a guidare la sua scelta.
Charlotte, nel 1827, è una ragazza inglese cresciuta nel chiuso di una tenuta aristocratica. Un errore d’amore la costringe a lasciare la sua esistenza protetta per raggiungere Londra; qui, l’incontro con una vedova affascinante le mostra un altro modo di esistere. Ma ogni scelta ha un prezzo.
Alice, nel 2019, ha lasciato tutto per studiare in un college di Boston. Lontana dalla sua casa e da un passato che preferisce dimenticare, si trova coinvolta in un’avventura notturna che le farà domande scomode e le imporrà un confronto con la propria rabbia, il proprio potere.


 

V.E. Schwab dimostra, ancora una volta, una padronanza assoluta della parola. Lo stile è teso e poetico, capace di evocare atmosfere con pochi tratti: la polvere di un monastero spagnolo, la pioggia su Londra, le luci fredde di un dormitorio americano. Ogni capitolo ha una propria voce, una musicalità diversa, ma l’insieme vibra in armonia.
Nei ringraziamenti finali, l’autrice confessa la sua natura di narratrice “inaffidabile”: “Sono a tal punto ossessionata dalla portata del mio compito che, una volta che sono sopravvissuta allo scavo delle fondamenta di un libro, al trasferimento delle idee dal cervello alla carta, comincio a cancellarle mentalmente”.
Questa consapevolezza traspare nel testo: Schwab lavora per sottrazione, lasciando spazi di silenzio che il lettore è chiamato a colmare con la propria emotività.

Le protagoniste del romanzo sono donne in fuga: dalla fame, dall’amore, dalla rabbia. Ma nessuna di loro è vittima. Tutte attraversano la notte per trovare una nuova forma di esistenza. Il romanzo parla di emancipazione, desiderio, dolore generazionale, e lo fa con simboli potenti: il corpo, la rosa, il sangue, la terra.
La rosa selvatica, presenza quasi mitologica, incarna l’idea di sopravvivenza che si fa bellezza feroce. Cresce laddove qualcosa è stato seppellito – fisicamente, simbolicamente – e porta con sé un’eredità da onorare e trasformare.


 

In diverse interviste, Schwab ha raccontato la genesi del libro. Nel dialogo con Brett’s Book Stack, afferma: “Questa storia mi ha scelta. Non ho deciso di scriverla, è stata lei a scrivere me. Era come se le tre donne bussassero dentro la mia testa, chiedendo di essere ascoltate.”
Nell’incontro per il Georgia Center for the Book, ha aggiunto: “Avevo bisogno di raccontare cosa significa essere affamate. Non solo di cibo, ma di libertà, di amore, di giustizia.” Parole che risuonano forti in ogni pagina.

Conosciuta per la serie Shades of Magic, per la trilogia Cassidy Blake e per l’acclamato La vita invisibile di Addie LaRue, Schwab è una delle voci più versatili del panorama fantasy contemporaneo. Seppellisci le mie ossa nel suolo di mezzanotte rappresenta un unicum: un’opera compatta, quasi una novella gotica. Eppure, proprio nella sua essenzialità, l’autrice riesce a distillare un’emozione pura, lancinante, indimenticabile.
Un romanzo, dunque, adatto a lettrici e lettori che amano le atmosfere gotiche, i racconti di rinascita femminile e la prosa che sa diventare poesia. È un testo che parla al cuore, ma lo fa con eleganza, senza sentimentalismi. Chi ha amato Erin Morgenstern, Madeline Miller o Carmen Maria Machado troverà in Schwab una sorella d’inchiostro.

Lo consigliamo perché: con Seppellisci le mie ossa nel suolo di mezzanotte V.E. Schwab ci offre un giardino oscuro in cui ogni fiore racconta una ferita che ha imparato a rifiorire. È una lettura che scorre piacevolmente nonostante le 600 pagine dell’edizione italiana, lasciando tracce durature, come il profumo di una rosa notturna che non si dimentica più.


 

5) Le sette fate di Youssef di Linda Scaffidi (Fazi Editore)

Ci sono romanzi che non si leggono, si abitano: Le sette fate di Youssef, edito da Fazi Editore, è uno di questi. L’esordio narrativo di Linda Scaffidi si rivela un’opera raffinata e stratificata, che unisce la concretezza del romanzo di formazione all’evocazione poetica della leggenda, attraversando le contraddizioni incandescenti di una Palermo plurale, dove le radici affondano nell’arabo e fioriscono nella resistenza silenziosa di chi lotta per diventare sé stesso.

Al centro della narrazione c’è Youssef, ragazzino nato in Italia da padre marocchino e madre italiana di origini marocchine, che sceglie di farsi chiamare Peppe per sentirsi più vicino al mondo che lo circonda. 
Quando la famiglia si trasferisce nella piazzetta delle Sette Fate, nel cuore popolare di Ballarò, inizia per lui un percorso fatto di piccole conquiste e grandi dolori. Il padre Alì, uomo autoritario e radicato nella nostalgia del Marocco, sogna un ritorno impossibile; la madre Taslima, donna coraggiosa e moderna, combatte ogni giorno per garantire ai figli un futuro in quella Palermo che ha imparato ad amare.


 

In questo spazio domestico e mitico, dove la leggenda delle sette fate che rapiscono i bambini nella notte si mescola al profumo delle spezie e ai rumori del mercato, si snoda la crescita del protagonista: «Ti conducono in volo, ti fanno planare nell’acqua come se avessi le ali…» racconta Taslima. Il mondo reale e quello simbolico si fondono, restituendo un’immagine poetica ma non edulcorata dell’adolescenza.

Youssef è un ragazzo diviso tra due mondi, due idiomi, due genealogie. Studente brillante, lettore appassionato di Quasimodo e dei poeti arabo-siciliani come Ibn Ḥamdîs, porta nel cuore una fame di conoscenza che si oppone alla volontà del padre, restio ad accettare un figlio che sogna l’università. È proprio nella poesia che trova la sua vera voce. “Versi tuoi?” chiede un professore, stupefatto. “Voglio che la completi, promettimelo”. 
È l’inizio della metamorfosi: da bambino che cerca di compiacere a giovane che accetta, come scrive la stessa autrice, «la grande avventura di essere me stesso».

La Scaffisi ha dichiarato in un’intervista per RSI – Radiotelevisione Svizzera: “Youssef rappresenta chi è in bilico tra due mondi e teme di essere colpito della stessa infelicità di cui si ammalavano gli esuli poeti arabo siciliani: la malinconia, combattiva e rassegnata”. E ancora: “Youssef è un ragazzo arabo, anzi palermitano. Un picciotto di Ballarò”.
Questa ambivalenza non è mai forzata, bensì naturale, autentica. È la voce delle seconde generazioni che Scaffidi racconta con empatia profonda e sguardo lucido.

Le sette fate di Youssef è un romanzo popolato da figure indimenticabili: Taslima, madre fiera che si reinventa per proteggere i figli; Fatima, sorella complicata e dolente; Mui’zz, amico fraterno la cui strada si interrompe troppo presto per le esigenze della sopravvivenza; Teresa, compagna di banco e primo amore, fragile e ribelle, che ispira versi e accende rivoluzioni interiori. E poi Emanuele, il commendatore gentile, che riconosce in Peppe la bellezza rara di chi sa trasformare il dolore in parola. «I tuoi sogni, ragazzo, ti salveranno: tieniteli stretti».

La scrittura di Linda Scaffidi è fluida, ricca di immagini eppure mai artificiosa. Si avverte l’influenza della sua formazione poetica, eppure ogni pagina è ancorata alla realtà. L’uso sapiente del dialetto, la descrizione dei mercati, delle case scrostate, dei piccoli gesti quotidiani: tutto contribuisce a costruire un’atmosfera autentica, quasi cinematografica.
Il cuore del romanzo pulsa nella tensione tra memoria e futuro. Palermo non è solo sfondo, ma personaggio vivo, con le sue contraddizioni abbaglianti. “Un luogo che sa essere tanto squallido quanto abbagliante”, scrive l’autrice sul blog di Fazi Editore. 
Da una parte le ferite del patriarcato, le violenze taciute tra le mura domestiche, la pressione delle aspettative culturali; dall’altra la forza delle donne — Taslima, Fatima, Teresa — e il potere salvifico dell’amicizia: “Mui’zz, Emanuele e la sorella Fatima sono per Youssef veri e propri compagni di vita”.


 

In un tempo iperconnesso ma emotivamente disgregato, il romanzo riscopre l’amicizia come resistenza. La solidarietà diventa strumento di emancipazione.
Le sette fate di Youssef si colloca nel solco della narrativa di formazione, ma si distingue per una prospettiva ancora troppo rara: quella dei figli della migrazione narrati dall’interno, senza retorica, ma con compassione e consapevolezza storica. È un romanzo che parla ai ragazzi che si sentono in bilico, ma anche agli adulti disposti ad ascoltare. Una storia che “si fa leggere” con il cuore aperto, come una preghiera laica o una fiaba moderna.
Adatto a chi ama la letteratura che non ha paura di essere emotiva, a chi cerca voci nuove e coraggiose nella narrativa italiana, a chi crede che la poesia possa fiorire anche — o soprattutto — nelle crepe.
«Scrivi, non importa se la strada non c’è ancora, se inizi a scrivere, apparirà». Una frase che contiene l’anima intera di questo romanzo.

Lo consigliamo perché: Linda Scaffidi ci regala un libro necessario, non solo perché racconta una realtà poco rappresentata, ma perché lo fa con arte, con grazia, con verità. In Youssef ciascuno può riconoscere il proprio passaggio dall’infanzia all’età adulta, la paura di perdersi e il coraggio di restare.


 

 

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