Intelligence, strumento di conoscenza. Le innovazioni del modello Russia-Cina

"Le agenzie di intelligence in Occidente non sono un potere autonomo, a differenza di quanto accade in nazioni meno democratiche". Parla Luigi Sergio Germani

di Sara Garino
MediaTech
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Quante pagine di letteratura sono state riempite nei secoli con racconti e suggestioni volte a predire il futuro? Dall’antichità classica, dove a Delfi le Pizie vaticinavano all’interno dell’omphalos i destini di uomini e civiltà, sino alla fantascienza e alle futuristiche/futuribili cronache sull’intelligenza artificiale. A ben vedere però, più che “previsto” il futuro va “costruito”, immaginando gli eventi prima che accadano e mettendo in opera tutte quelle azioni che lo rendano calibratamente conforme ai nostri desiderata.

In altri termini, serve fare della buona intelligence, intendendo essa quale scienza capace di anticipare proattivamente i possibili scenari del domani. A proposito di questa tematica, così cruciale tanto per la Politica (nazionale e internazionale) quanto per l’Economia, Affaritaliani intervista il Professor Luigi Sergio Germani, Direttore dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici in Roma.

Professor Germani, può spiegarci che cosa sia davvero l’intelligence e a che cosa serva?

L’intelligence si può definire quale strumento di conoscenza al servizio della leadership politica di uno Stato. Più nello specifico, è uno strumento che fornisce alla leadership un vantaggio competitivo di conoscenza nel prendere decisioni di carattere tattico e strategico, nei campi della Politica, degli Esteri, della Sicurezza ma anche per quanto concerne i risvolti economici. L’intelligence serve per acquisire informazioni altrimenti non ottenibili con metodi ordinari, attraverso fonti aperte: qui le fonti sono non convenzionali, finanche formalmente illegali, se la gravità della situazione lo richiede.

Esiste inoltre un secondo aspetto da considerare con attenzione. Oltre a costituire uno strumento di conoscenza, l’intelligence è altresì mezzo di influenza e di intervento occulto nelle politiche e nelle azioni dei soggetti attenzionati. Le fattispecie più eclatanti e assertive di intelligence di questo tipo sono quelle russe e cinesi, per le quali ricavare vantaggi personali attraverso l’utilizzo strategico di influenza e capacità di condizionamento è un cardine dell’ossatura politica statale.

Professor Germani, questa Sua puntualizzazione sottende il fatto che altri player mondiali, come l’Europa, siano ancora acerbi per quanto concerne le strategie di influenza?

Il punto vero è che sono diverse le architetture giuridiche alla base dei modelli di Stato, e dunque di intelligence. Ci sono Paesi europei, fra i quali Francia e Regno Unito, che vantano intelligence estremamente efficaci, specie per quanto concerne l’approccio HUMINT (Human Intelligence), basata per l’appunto sul reperimento di informazioni tramite relazioni interpersonali. Queste sono Nazioni democratiche, sono le Nazioni del blocco occidentale. Russia, Cina, India e Iran hanno culture marcatamente diverse, in quanto non vincolate da alcun controllo costituzionale: così il loro livello di spregiudicatezza (ancorché per fare intellicence sia necessario essere spregiudicati) è di gran lunga maggiore.

Esiste poi un ulteriore punto dirimente: le agenzie di intelligence in Occidente non sono un potere autonomo, a differenza di quanto accade in Nazioni scarsamente democratiche. Non è possibile comprendere le dinamiche di realtà come la Cina, la Russia o l’Iran se non si conosce il funzionamento delle loro polizie segrete.

Questo aspetto di influenza esercitato dall’intelligence non è così radicato in Occidente, specie nella nostra Europa, dove l’obiettivo fondamentale resta la raccolta di informazioni. Guardando l’altra sponda dell’Atlantico, durante la Guerra Fredda la CIA aveva invece portato avanti controverse operazioni di questo tipo, sovvenzionando tra l’altro alcuni partiti politici europei in chiave antisovietica. I Paesi autocratici o retti da autoritarismi non hanno per contro alcun freno inibitore. Da noi esiste un attivismo molto forte di Russi e Cinesi per influenzare tanto la politica quanto l’economia: sanno infiltrare molto bene i loro uomini. Una delle più importanti sfide per la sicurezza consiste proprio nel controllare l’attività di queste agenzie.

Professor Germani, all’inizio di Marzo il Capo della Diplomazia europea, Joseph Borrell, aveva dichirato l’Europa di fatto demunita e impreparata a fronteggiare le nuove minacce poste in essere da Russia e Cina, specie per quanto concerne le frontiere della cyber-security. In termini di intelligence, non è stato un controproducente alzare bandiera bianca?

Io credo che Borrell abbia voluto dimostrare un’evidenza, ponendo l’accento sulla improcrastinabile necessità di fronteggiare le minacce ibride a livello europeo. Con minacce ibride intendo le forme di aggressione perpetrate non con strumenti militari tradizionali ma a mezzo di attacchi cyber, disinformazione, propaganda, sostegno a movimenti eversivi e attività politiche turbolente: viatici con i quali screditare il nostro modello di Democrazia liberale, avvalorando invece quelle forme autocratiche tipiche, appunto, di realtà quali quella russa e soprattutto cinese. Questi assalti fanno parte di una strategia di guerra ibrida rispetto a cui – purtroppo è vero – la nostra Europa risulta ancora indietro.

Quali sono i tratti distintivi della strategia di intelligence russa e cinese? Cominciamo da quella russa.

Sia per Mosca sia per Pechino, la strategia di influenza è su larga scala, politico-economica e culturale. La Russia di Putin coltiva ormai da tempo il proposito di indebolire l’UE e la NATO creando divisioni e instabilità fra i singoli partner europei. Si tratta, se vogliamo, di concretizzare la nota massima latina del “divide et impera”. Per farlo, non ha ricusato collegamenti con gruppi estremisti, tanto a Destra quanto a Sinistra.

L’élite di potere russa ha una visione paranoica del mondo, ritenendo di poter rafforzare la propria stabilità (e segnatamente quella di Putin) solo svilendo e indebolendo l’altrui sicurezza. A partire dal Maggio 2012, con il ritorno al potere di Vladimir Putin dopo la breve parentesi di Dmitrij Medvedev, numerose rivolte e manifestazioni erano fioccate a Mosca e in altre città russe, come protesta contro il regime. Per farvi fronte, il Cremlino – convinto che esse fossero fomentate dai servizi segreti occidentali – aveva reagito con una recrudescenza di autoritarismo, intraprendendo azioni destabilizzanti un po’ ovunque nel vecchio continente. Questo è il concetto chiave: nel mirino sia di Mosca sia di Pechino c’è la Democrazia. Vogliono destabilizzarla, e dunque destabilizzarci.

Esiste poi una capacità fisica di penetrazione economica, mediata da ricchissimi oligarchi legati direttamente al Presidente Putin, i quali non esitano ad avvalersi anche della corruzione come strumento strategico di influenza, cooptando personalità dell’élite.

Qual è invece, in questo senso, il marchio di fabbrica del Dragone?

Il modello di intelligence cinese è più subdolo. Punta a penetrare l’Economia attraverso la Cultura, insinuandosi in Università, centri studi e think tank. Tuttavia, a differenza dei Russi, i quali operano con l’urgenza di creare subito caos e instabilità, i Cinesi manifestano una prospettiva temporale molto più lunga. Hanno, come dire, meno conflittualità con il cronometro. Inoltre, quello dell’assalto ai poli culturali (id est scientifici e tecnologici) occidentali è un movens acclarato da doviziosi rapporti internazionali, fra cui quello Strider del Novembre 2019.

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Appreso tutto ciò, fare intelligence significa dunque pensare in anticipo alle contromosse?

Certamente, e non solo in termini di difesa ma anche di attacco: di qui l’urgenza di sviluppare anche da noi – in Europa e in Italia – una vera e propria base culturale per intelligence e counter-intelligence. Manca molto pure a livello istituzionale, dove le lacune sono pericolose: perché se non si dispone degli strumenti conoscitivi adeguati per rispondere, inevitabilmente si subisce.

In Italia se ne parla da anni, fondamentalmente dai tempi della Legge sull’Intelligence del 2007: senza dubbio c’è dibattito a livello universitario, nondimeno una vera e fattiva opera di diffusione “urbi et orbi” non è ancora stata perorata, rimanendo il tutto relegato a pochi eletti.

Anzi, va detto come fino a pochi anni or sono l’intelligence, in Italia, venisse persino concepita come attività turbativa, predatoria. Lo è, certo, ma per finalità che concernono l’interesse nazionale, specie oggigiorno, di fronte a sfide asimmetriche che vanno dalle minacce ibride, alla minaccia terroristica sino alla guerra batteriologica. Ritengo che questa visione non obiettiva, questo pregiudizio di criminalità e devianza che ha corrotto la coscienza e la percezione collettiva risalga ai tempi della Guerra Fredda, quando Mosca infiltrava in Italia suoi accoliti con la complicità del Partito Comunista. Qui è nato il filone dei servizi segreti ritenuti deviati, in parte ridimensionato negli ultimi anni ma rispetto al quale, tuttavia, permangono ancora sacche di preconcetta resistenza.

Serve – e serve urgentemente – una cultura diffusa dell’intelligence, come esiste in Israele, in cui i servizi si aprano (per quanto possibile) alla cittadinanza, sensibilizzando l’uditorio e coinvolgendolo nella lotta ai pericoli emergenti. È necessario anestetizzare reticenze e diffidenza.

Professor Germani, a maggior ragione dopo l’esperienza pandemica del Covid-19 possiamo dire che Intelligence e Ricerca scientifica siano davvero i nuovi strumenti di deterrenza?

Senz’altro, in una prospettiva dove le nuove armi rischiano di essere virus e agenti batteriologici. Occorre perimetrare i baluardi della nostra Democrazia e del nostro Stato di Diritto, che passano anche attraverso la Cultura e dunque le Università. Le minacce sono tante: i servizi di intelligence italiani vanno potenziati e rinnovati.

Ci sono anche rischi di natura interna?

Purtroppo sì: terrorismo, estremismo e criminalità organizzata, che continua a essere un fenomeno molto grave. Anche le organizzazioni malavitose dispongono infatti di strutture di intelligence, usate per inquinare le istituzioni, penetrandovi e cooptandovi strumenti politici e governativi. E se torniamo all’imprinting di Russia e Cina, i loro servizi usano la criminalità organizzata come strumento di ingresso e radicamento negli altri Paesi: un’altra delle minacce più cogenti, un combinato disposto potenzialmente esplosivo per le nostre democrazie. C’è stato ed è ancora in corso un colpevole calo di attenzione da parte dei media: bisogna parlarne se vogliamo che certi concetti si radichino nel sapere e nella coscienza collettiva, incrociando tutti i dati disponibili.

Professor Germani, quale imperativo categorico suggerisce alla Politica e a tutte le Istituzioni italiane in tema di Intelligence e di sensibilizzazione all’Intelligence?

Ci sono tantissimi fronti aperti, per via delle congiunture geopolitiche particolarmente instabili e critiche che stiamo attraversando. In Europa – e in Italia particolarmente – l’intelligence va rinnovata e rafforzata. Non può essere un corpo burocratico che risponde a cavilli e farraginosità di ogni sorta: deve potersi muovere con spregiudicatezza e immaginazione se vogliamo anticipare le mosse del nemico e costruire per la nostra collettività un futuro di maggior sicurezza.