C'è poco da capire nel successo di Meloni: era già tutto sotto gli occhi
La leader di Fdi è una delle poche persone coerenti e perbene nel nostro sgangherato milieu politico
Elezioni, Meloni ha guardato in faccia la sciagurata realtà del Paese e gli italiani le hanno detto sì, sapendo di essere vicini all’ultima spiaggia
Complimenti a Giorgia Meloni, una delle poche persone coerenti e perbene del nostro sgangherato milieu politico. Ha avuto il coraggio di affrontare l’assedio dei media asserviti al PD e ha infranto il sistema di potere allestito dai partiti di sinistra e tenuto in vita per trent’anni, dal 1992. Infranto ma non distrutto: secondo la teoria gramsciana, la sinistra è infiltrata in tutti i gangli della vita pubblica italiana: non sarà facile disboscare la scuola, la magistratura, la pubblica amministrazione, ma bisognava pur cominciare. Magari profittando del disorientamento dei video e delle prime pagine listate a lutto, dove gli sconfitti si domandano: perché abbiamo perso?
La risposta non è difficile. Basta soffermarsi a guardare le macerie d’Italia che la sinistra si lascia alle spalle. Basta affacciarsi alla finestra per vedere giovani post-analfabeti che reclamano esami più facili. Forse sarebbe il caso di abolirli: gli esami, non i giovani. Per vedere masse di giovani sui marciapiedi e nelle piazze, con un bicchiere in mano e gli sguardi perduti nel niente. Fino alle tre di notte. Domattina come faranno a svegliarsi per andare al liceo, all’università, al lavoro.
Domanda impropria: quale liceo, quale università, quale lavoro? Non saranno gli effetti delle droghe cosiddette leggere? Il consumo di stupefacenti è fuori controllo. Un tempo un grande istituto di ricerca analizzava i liquami delle fogne milanesi e ne ricavava il consumo collettivo di droga. Da qualche anno questa preziosa bussola è stata abolita, o forse vietata. Troppo imbarazzante scoprire che a Milano si consuma, forse, più cocaina che aspirina. E troppo ostile alla sterminata banda dei clandestini che, tra Lampedusa e i Navigli, di droga campano.
Se questi giovani di oggi – parlo della grande maggioranza percepibile, non dei picchi di virtù – sono gli italiani del futuro prossimo o più o meno remoto, siamo messi male. O meglio: non abbiamo speranze. Ma non ci facciamo caso. L’Italia – nazione visibilmente provvisoria – non ha mai guardato troppo avanti. Il suo patto sociale è fondato su una Costituzione zeppa di nobilissimi principi generici, ma nata in una fase alterata della Storia: cioè, quando l’imperativo era impedire il pur impossibile ritorno del fascismo, piuttosto che favorire un programmato sviluppo sociale e culturale di una repubblica appena nata in una nazione che non aveva ancora cent’anni.
Partendo da questa realtà, non c’è da stupirsi se l’orizzonte degli italiani non va oltre la prossima consultazione elettorale. La politica repubblicana ha pensato al futuro solo nei primi decenni, quando arrivavano i dollari dall’America e la Sinistra – storicamente miope – era ancora debole. Abbiamo fatto l’Autostrada del Sole e la modernizzazione del Paese è finita a Napoli. Abbiamo incrementato – a carissimo prezzo – le ferrovie, ma sempre dimenticandoci del Sud.
Abbiamo demolito la Scuola impostata sulla Riforma Gentile, ma poi non siamo riusciti a fermare le continue manomissioni ideologiche che l’hanno definitivamente distrutta. Intorno al 1860, in una famiglia torinese che parlava francese - come il re “padre della patria”, del resto – qualcuno disse: “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”.
Non ci sono ancora riusciti. Non ci sentiamo di programmare su tempi lunghi un Paese che ci è arrivato addosso col Risorgimento. I territori di Francia e Germania erano già “nazioni”, con una identità di lingua, di costumi, di tradizioni quando, prima dell’anno Mille, Carlo Magno pensava di unirle in un unico impero europeo e perciò scelse una capitale sul confine, cioè a metà strada, Aquisgrana, la moderna Aachen. A quell’epoca il Friuli era Austria e la Sicilia un’isola contesa da francesi, spagnoli, svevi e tunisini.
Osservate i resti della mancata Italia. Le grandi opere pubbliche – anfiteatri, acquedotti, fogne, strade di lunga percorrenza che richiedono soldi, tempo e progettazione – finiscono con la dissoluzione dell’impero romano. Poi per quasi un millennio non ci sono stati che grandi chiese volute dai papi e grandi fortezze volute dagli occupanti stranieri. Anche il Rinascimento fu una parentesi luminosa ma provvisoria. Con la Controriforma, la futura Italia rimpiombò nella miseria e nell’ignoranza. Ci eravamo illusi con l’Unità del 1861. Ne abbiamo preso atto in questi ultimi decenni.
Dagli anni Settanta l’Italia non cresce più. La sua arretratezza si rivela ogni giorno nello stato pietoso della scuola e nella ignoranza dei cittadini che essa produce. Non abbiamo elaborato una politica dell’energia: bocciato istericamente il nucleare, siamo diventati stupidi vassalli paganti dei vicini nuclearizzati. Abbiamo favorito l’abnorme sviluppo del trasporto su gomma, a danno di quello su ferro molto più economico e sicuro: la distribuzione dei sistemi di trasporto nazionali in
Francia e in Germania è molto meno squilibrata della nostra. Ci siamo ubbriacati di democrazia – comuni, province, regioni, nazione – moltiplicando il numero dei parolai parassiti che di politica campano e rimpinzando il calendario di scadenze elettorali, che esìmono quasi completamente i politici dall’impegno di governare realmente il Paese. Abbiamo frantumato la gestione della repubblica – con la scellerata riforma dell’Articolo
Quinto, governo D’Alema – assegnando alle Regioni le generose greppie della Sanità e del Turismo. E con questa bella pensata siamo tornati indietro di cent’anni, raddoppiando in pochi decenni la spesa pubblica.
L’idea di sistemare qualcosa con il PNRR di Draghi sta già rischiando di fallire: le feroci divisioni ideologiche impediscono di fare vere riforme. Questa risibile proposta per la Giustizia non è una riforma: è una “romanella”, una passata di bianco e via andare. Nessuno ha il coraggio di dirlo, ma con questa Costituzione e con questo assetto istituzionale non si riforma nulla e non si salva l’Italia. Ci stiamo indebitando fino al collo, ma non sappiamo con quali redditi pagheremo i debiti. Non abbiamo più industrie: dislocato l’automotive, esportato l’elettrodomestico, fiaccata l’agricoltura dalla cementificazione e dal dissesto ambientale.
La povertà avanza e l’Italia arretra. Viviamo di debiti e di bonus. Per quanto tempo si può andare avanti così? Ci vorrebbe una rifondazione costituzionale, correggendo – senza veti ideologici – i troppi errori commessi. Ma chi la fa? Avete visto chi sono i possibili “padri della Patria” di oggi, avete visto chi siede in
Parlamento? Questi pensieri hanno attraversato la mente degli italiani che hanno votato Meloni. Perché Meloni ha guardato con occhi disincantati e sinceri e ha deciso di agire, affrontando temi che la sinistra del quieto vivere e della pappa facile aveva nascosto da decenni sotto il tappeto: come la inadeguatezza della Costituzione e l’assurdità della struttura istituzionale. Come la sostituzione dei bravi e dei capaci con i raccomandati di partito, con i titolari di tessere e di appartenenze ideologiche.
Giorgia Meloni ha guardato in faccia a questa sciagurata realtà e gli italiani le hanno detto sì, sapendo di essere vicini all’ultima spiaggia. Così si spiega un successo previsto, ma non temuto. Cosa vogliono spiegarsi i finti analisti del nulla, che lacrimano smarriti su video e grandi giornali. Bastava leggere i quotidiani che hanno dato una mano a Giorgia – come Il Giornale, La Verità, Libero – e gli show televisivi come Fuori dal Coro, Diritto e Rovescio, Quarta Repubblica per capire ancor prima delle urne come sarebbe andata a finire. Ma gli struzzi sono specialisti nel difendersi affondando la testa sotto la sabbia.