Israele oltre ogni limite a Gaza e Mosca ha calpestato l'Onu: così il mondo combatte una Terza Guerra Mondiale

Il discorso integrale della premier Giorgia Meloni pronunciato all'assemblea generale dell'Onu

di Giorgia Meloni
Politica

Il discorso integrale della premier all'Onu

Presidente Baerbock, Segretario Generale Guterres, colleghi delegati, signore e signori, 

Viviamo una fase storica accelerata, complessa, ricca di opportunità ma anche, forse soprattutto, densa di pericoli. Sospesi tra guerra e pace. Secondo il Global Peace Index 2024, nel mondo sono in corso 56 conflitti armati, il numero più elevato dalla Seconda Guerra Mondiale. 

Viviamo cioè in un mondo profondamente diverso da quello in cui sono nate le Nazioni Unite, quando nel 1945, 51 Nazioni, che oggi sono diventate la quasi totalità, decisero di unirsi per fondare un’organizzazione internazionale che avesse come scopo principale quello di evitare la guerra. 

La domanda che dobbiamo farci, ottant’anni dopo, e guardandoci attorno, è: ci siamo riusciti? La risposta la conoscete tutti, perché è nella cronaca, ed è impietosa. 

Pace, dialogo, diplomazia sembrano non riuscire più a convincere e a vincere. L’uso della forza prevale in troppe occasioni. E lo scenario che ci troviamo di fronte è quello che Papa Francesco descrisse con rara efficacia: una “terza guerra mondiale” combattuta “a pezzi”.

Ovviamente, tra i principali conflitti in corso, c’è la guerra d’aggressione su larga scala della Federazione Russa contro l’Ucraina. 

La guerra in Ucraina

Tre anni e mezzo fa, il 24 febbraio 2022, Mosca ha deciso di attaccare Kiev. Penso che non si sia riflettuto abbastanza sulle conseguenze di quella scelta e su un punto che considero fondamentale: la Federazione Russa, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ha deliberatamente calpestato l’articolo 2 dello Statuto dell’Onu, violando l’integrità e l’indipendenza politica di un altro Stato sovrano, con la volontà di annetterne il territorio. E ancora oggi non si mostra disponibile ad accogliere seriamente alcun invito a sedersi al tavolo della pace. 

Questa ferita profonda inferta al diritto internazionale, come era prevedibile, ha scatenato effetti destabilizzanti molto oltre i confini nei quali si consuma quella guerra. Il conflitto in Ucraina ha riacceso, e fatto detonare, diversi altri focolai di crisi. Mentre le Nazioni Unite si sono ulteriormente disunite. 

Hamas e Israele

Non è un caso, che Hamas abbia approfittato dell’indebolirsi di questa architettura per sferrare – il 7 ottobre del 2023 – il suo attacco contro Israele. La ferocia e la brutalità di quell’attacco - la caccia ai civili inermi - hanno spinto Israele ad una reazione, in principio, legittima. Perché ogni Stato e ogni popolo ha il diritto di difendersi. 

Ma la reazione a una aggressione deve sempre rispettare il principio di proporzionalità. Vale per gli individui, e vale a maggior ragione per gli Stati. E Israele ha superato quel limite, con una guerra su larga scala che sta coinvolgendo oltre misura la popolazione civile palestinese. È su questo limite che lo Stato ebraico ha finito per infrangere le norme umanitarie, causando una strage tra i civili. 

Una scelta che l’Italia ha più volte definito inaccettabile, e che porterà al nostro voto favorevole su alcune delle sanzioni proposte dalla Commissione Europea verso Israele. 

Però non ci accodiamo a chi scarica su Israele tutta la responsabilità di quello che accade a Gaza. Perché è Hamas ad aver scatenato la guerra. È Hamas che potrebbe far cessare le sofferenze dei palestinesi, liberando subito tutti gli ostaggi. È Hamas che sembra voler prosperare sulla sofferenza del popolo che dice di rappresentare.

Israele deve uscire dalla trappola di questa guerra. Lo deve fare per la storia del popolo ebraico, per la sua democrazia, per gli innocenti, per i valori universali del mondo libero di cui fa parte. 

E per chiudere una guerra servono soluzioni concrete. Perché la pace non si costruisce solo con gli appelli, o con proclami ideologici accolti da chi la pace non la vuole. 

La pace si costruisce con pazienza, con coraggio, con ragionevolezza. 

I bambini di Gaza, come quelli che l’Italia sta orgogliosamente accogliendo e curando nei propri ospedali, chiedono risposte che possano migliorare la loro condizione, e su quello siamo impegnati. L’Italia c’è e ci sarà per chiunque sia disposto a lavorare a un piano serio per il rilascio degli ostaggi, un cessate il fuoco permanente, l’esclusione di Hamas da ogni dinamica di governo in Palestina, il graduale ritiro di Israele da Gaza, l’impegno della comunità internazionale nella gestione della fase successiva al cessate il fuoco, fino alla realizzazione della prospettiva dei due Stati. 

Consideriamo, in questo senso, molto interessanti le proposte che il Presidente degli Stati Uniti ha discusso con i paesi arabi in queste ore e siamo pronti ovviamente a dare una mano. 

Riteniamo che Israele non abbia il diritto di impedire che domani nasca uno Stato palestinese, né di costruire nuovi insediamenti in Cisgiordania al fine di impedirlo. Per questo abbiamo sottoscritto la Dichiarazione di New York sulla soluzione dei due Stati. È la storica posizione dell’Italia sulla questione palestinese, una posizione che non è mai cambiata. 

Riteniamo, allo stesso tempo, che il riconoscimento della Palestina debba avere due precondizioni irrinunciabili: il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e la rinuncia da parte di Hamas ad avere qualsiasi ruolo nel governo della Palestina. Perché chi ha scatenato il conflitto non può essere premiato. 

Le regole, la forza del diritto e la riforma delle Nazioni Unite

E torniamo, così, al punto di partenza: le regole. La forza del diritto. In Ucraina, in Medio Oriente, in ogni scenario nel quale la guerra domina e la ragione sembra persa.

Non si scappa, colleghi, dalla domanda più importante, che è la ragione per la quale siamo tutti qui insieme oggi: l’architettura delle Nazioni Unite che abbiamo costruito 80 anni fa, è all’altezza delle sfide che la nostra epoca ci impone oggi? 

Non lo è. E multilateralismo, dialogo e diplomazia, senza istituzioni che funzionano come dovrebbero sono solo parole vuote. Dobbiamo riconoscere i nostri limiti. Dobbiamo riconoscere che è necessaria, e urgente, una riforma profonda delle Nazioni Unite. Una riforma non ideologica, ma pragmatica, realista. Che rispetti la sovranità delle Nazioni e apra a soluzioni condivise. 

Abbiamo bisogno di un’istituzione agile, efficiente, in grado di rispondere velocemente alle crisi. Trasparente nella missione, trasparente nei costi. Capace di ridurre al minimo la burocrazia, gli sprechi, le duplicazioni. 

Il Palazzo di Vetro deve essere anche una Casa di Vetro. 

La riforma che ha in mente l’Italia, a partire dal Consiglio di Sicurezza, deve rispettare i principi di eguaglianza, democraticità, rappresentatività e responsabilità. Non servono nuove gerarchie e non servono nuovi seggi permanenti, semplicemente perché non risolverebbero la paralisi decisionale che ha minato la credibilità di questa istituzione. 

Siamo aperti a discutere la riforma senza alcun pregiudizio, anche in forza delle proposte già avanzate dal Gruppo Uniting for Consensus, ma vogliamo una riforma che serva a rappresentare meglio tutti, non a rappresentare di più alcuni. 

Vanno modificate anche le Convenzioni che in alcuni casi non sono legate ai tempi attuali

E per essere efficaci non sono solo le istituzioni che dobbiamo riformare. Perché siamo di fronte a un cambio d’epoca, e questo impone una revisione profonda di tutti gli strumenti che abbiamo per regolare i rapporti tra le Nazioni e difendere i diritti delle persone, comprese le Convenzioni Internazionali. 

Penso, ad esempio, alle convenzioni che regolano la migrazione e l'asilo. Sono regole sancite in un’epoca nella quale non esistevano le migrazioni irregolari di massa, e non esistevano i trafficanti di esseri umani. Convenzioni non più attuali in questo contesto che, quando vengono interpretate in modo ideologico e unidirezionale da magistrature politicizzate, finiscono per calpestare il diritto, invece di affermarlo. 

Con altri Stati europei abbiamo sollevato questo tema e intendiamo portarlo avanti. Non ovviamente per abbassare il livello delle garanzie, ma per costruire un sistema che sia al passo con i tempi, capace di tutelare i diritti umani fondamentali, insieme però alla sacrosanta prerogativa di ogni Nazione di proteggere i propri cittadini e i propri confini, esercitare la propria sovranità, e governare il tema della migrazione, che impatta sulle persone, e particolarmente su quelli più fragili.

La comunità internazionale deve unirsi nel contrastare il fenomeno del traffico di esseri umani. Le Nazioni Unite, al pari di altre istituzioni internazionali come l'Unione europea, non possono voltarsi dall’altra parte o finire per tutelare i criminali nel nome di presunti diritti civili. 

Allo stesso modo, le Nazioni Unite non possono ipocritamente considerare alcuni diritti umani meno meritevoli di essere tutelati rispetto ad altri. Penso tra tutti al valore negato della libertà religiosa e alle decine di milioni di persone in tutto il mondo – in larga parte cristiane – perseguitate, massacrate, in nome della loro fede.

Un nuovo modello di cooperazione tra le Nazioni

Serve anche un nuovo modello di cooperazione tra le Nazioni. Ma costruirlo richiede umiltà, consapevolezza, e fiducia nell’interlocutore che si ha di fronte. 

L’Italia sta cercando di fare la sua parte anche in questo, su tutto con il suo Piano Mattei per l’Africa. Negli ultimi tre anni abbiamo lanciato il nostro Piano di cooperazione con l’Africa ed esteso il suo raggio d’azione a quattordici Nazioni. 

Abbiamo costruito collaborazioni con le Nazioni Unite, l’Unione Europea e il suo Global Gateway, il G7, l’Unione Africana e la Banca Africana di Sviluppo, le Istituzioni finanziarie internazionali, molti partner bilaterali, come gli Emirati Arabi Uniti, che ci tengo a ringraziare. 

Questa complementarità ci ha consegnato l’onore, lo scorso luglio, di co-organizzare con l’Etiopia il Terzo Vertice delle Nazioni Unite sui Sistemi Alimentari, la responsabilità di essere parte attiva dell’imponente progetto infrastrutturale del Corridoio di Lobito tra Angola e Zambia, la possibilità di costruire partenariati pubblico-privati che attraggono investimenti e assicurano risultati concreti. 

Il futuro dell'Africa e le politiche italiane

Come sta accadendo in Algeria, dove recupereremo oltre 36 mila ettari di deserto per metterli a coltura, generando benefici per oltre 600 mila persone. Come sta accadendo con l’apertura dell’AI Hub for Sustainable Development, che coinvolgerà centinaia di start-up africane sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale. E come sta accadendo con l’estensione all’Africa orientale del Blue Raman Cable, per collegare l’India alle economie europee, passando per il Medio Oriente e il Mediterraneo.

Noi, a differenza di altri attori, non abbiamo secondi fini in Africa. Non ci interessa sfruttare il Continente africano per le ricchissime materie prime che possiede. Ci interessa, invece, che l’Africa prosperi processando le sue risorse, dando lavoro, e una prospettiva, alle sue energie migliori, potendo contare su governi stabili e società dinamiche, e sicure. 

Ma è un cammino che non può prescindere dalla necessità di affrontare una questione non più rinviabile, ovvero il debito delle Nazioni africane. 

L’Italia prevede di convertire, nei prossimi 10 anni, l’intero ammontare del debito per le Nazioni economicamente meno sviluppate, secondo i criteri della Banca Mondiale, e di abbattere del 50% quello delle Nazioni a reddito medio-basso. L’intera operazione, nei 10 anni, ci permetterà di convertire in progetti di sviluppo, da attuare in loco, oltre 235 milioni di euro di debito. 

È un’iniziativa alla quale il Governo italiano – nell’anno del Giubileo - tiene particolarmente, e che ci auguriamo possa essere da esempio anche per altre Nazioni, perché è una questione non solo economica ma di giustizia, di dignità, di futuro. 

Gli errori della Globalizzazione

Cari colleghi, trent’anni di globalizzazione fideistica sono finiti, ne sono stati sottovalutati i contraccolpi e oggi siamo davanti a 'conseguenze inattese', che inattese non erano, di grave portata per i cittadini, per le famiglie e per le imprese. Non è andato tutto bene, come pure veniva promesso. 

E vi do un’altra notizia: le cose potranno andare molto peggio, se non fermeremo la creazione a tavolino di modelli di produzione insostenibili, come i «piani verdi» che in Europa - e nell’intero Occidente - stanno portando alla deindustrializzazione molto prima che alla decarbonizzazione. 

La riconversione di interi settori produttivi sulla base di teorie che non tengono conto dei bisogni – e delle disponibilità economiche – delle persone, è stato un errore che provoca sofferenze nei ceti sociali più deboli e fa scivolare la classe media verso il basso, imponendo scelte di consumo non razionali. 

L’ecologismo insostenibile ha quasi distrutto il settore dell’automobile in Europa, creato problemi negli Stati Uniti, causato perdite di posti di lavoro, appesantito la capacità di competere e depauperato la conoscenza. E ciò che è più paradossale, non ha migliorato lo stato di salute complessivo del nostro pianeta. 

Non si tratta, ovviamente di negare il cambiamento climatico, ma di affermare la ragione, che significa soprattutto neutralità tecnologica, e gradualismo delle riforme in luogo dell’estremismo ideologico. Rispettare l'ambiente mantenendo l’uomo al centro. Perché ci sono voluti secoli per costruire i nostri sistemi, ma bastano pochi decenni per ritrovarsi nel deserto industriale. Solo che come ho detto moltre volte nel deserto non c’è nulla di verde. 

Il coraggio di cambiare questa nostra organizzazione

Colleghi, delegati, signore e signori,

quest’anno non celebriamo solo gli ottant’anni della nascita di questo consesso, ma anche i 70 anni dell’adesione dell’Italia alle Nazioni Unite. Un doppio anniversario che ci carica ancora di più della responsabilità di tenere fede ai principi e ai valori istitutivi di questa Organizzazione. 

Nella consapevolezza che, per farlo, dobbiamo saper rendere efficaci gli strumenti per difendere quei principi e quei valori nel nostro tempo, perché la nostra azione possa essere più incisiva e davvero aderente alle necessità delle nostre società. 

La scelta che abbiamo nelle nostre mani è semplice: lasciare tutto così com’è, e rifugiarci in ciò che è semplice, o dimostrare ai nostri cittadini che non sprecheremo l’occasione storica - che questo tempo, con le sue molteplici sfide, ci ha consegnato – di costruire un mondo più giusto e più sicuro. 

Perché, come ha detto San Francesco, il più italiano dei Santi, che ha dato il nome alla città dove questa Organizzazione è nata, “i combattimenti difficili vengono riservati solo a chi ha un coraggio esemplare”. Credo sia arrivato il tempo di dimostrare quel coraggio. 

Vi ringrazio.

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