Lazio, "Rischio alto di perdita della copertura sanitaria universale"
"Grave diseguaglianza. Lazio, parla l’assessore Alessio D’Amato
Lazio, assegnati 674 milioni del PNRR per la Missione 6, di cui circa 600 milioni da suddividere tra le Asl e le Aziende ospedaliere come soggetti attuatori, mentre 74 milioni sono stati assegnati a Laziocrea
Alla regione Lazio sono stati assegnati 674 milioni del PNRR per la Missione 6, di cui circa 600 milioni da suddividere tra le Asl e le Aziende ospedaliere come soggetti attuatori, mentre 74 milioni sono stati assegnati a Laziocrea, per l'ammodernamento del parco tecnologico ospedaliero. Zingaretti tempo addietro esultò dicendo che sono stati i primi ad assegnare una gara del PNRR già a giugno per l'acquisto di apparecchiature, per gli acceleratori lineari, linguaggio usato in fisica delle particelle per dire macchinari per radioterapia.
Vediamo più in generale lo stato dell’arte della sanità laziale, dato che la situazione sembra essere questa: i soldi per rinnovare i macchinari stanno arrivando, grazie a Dio, ma i medici sono sempre meno, si stanno estinguendo come i panda del Sichuan, la Moretta Tabaccata, l'Anatra marmorizzata, il Gobbo rugginoso, il Fistione turco o il leone selvatico africano. Ecco, i medici italiani sono una razza vulnerabile a rischio estinzione esattamente come questi animaletti qua.
Se a questo aggiungiamo i problemi economici in cui ha versato la regione Lazio negli ultimi dieci anni, il Covid, l’apertura di nuovi servizi, la necessità di dover dimostrare di stare al passo, essere una sanità all’altezza dei sempre citati standard di livello nazionale (e talvolta internazionale) sulle spalle del personale sanitario che non riesce neppure a prendersi le ferie arretrate, è un sogno o vita reale?
Così ne parliamo direttamente con l’assessore Alessio D’Amato, cercando di dipanare qualche dubbio direttamente alla fonte.
Siamo davvero usciti dal commissariamento nel Lazio oppure no, visto che il MEF incombe costantemente e ci dice che non abbiamo più soldi, che abbiamo sforato il budget?
Dal commissariamento siamo usciti, perché ormai sono tre esercizi consecutivi che vi è un equilibrio economico e finanziario dell’intero sistema. In questa annualità però abbiamo avuto sia un aumento dei costi che riguardano l’emergenza sanitaria, e lo Stato ancora non ha rimborsato le regioni per queste spese che abbiamo sostenuto tutti, e sia l’aumento dei costi energetici, per cui quest’anno viviamo una situazione più complicata. Ma sicuramente non significa tornare indietro. Noi siamo usciti dal commissariamento, ma siamo ancora in piano di rientro. Significa che ci deve essere ancora un’attenzione agli equilibri economico finanziari. Però abbiamo una situazione completamente diversa da quella ereditata tanti anni fa, soprattutto per quanto riguarda i Livelli essenziali di assistenza, perché per la prima volta stiamo superando l’asticella nelle tre aree.
Con il piano di rientro a che punto siamo?
Quest’anno deve essere l’ultimo anno del piano di rientro e molto dipenderà da quanto avremo di rimborso dei costi, perché abbiamo sostenuto circa 400 milioni di spese, che ovviamente vanno ad incidere sul fondo sanitario. Ma sono costi di natura straordinaria, pertanto attendiamo che ci siano dei segnali dal governo per rimborsare le regioni di queste spese. Ciò non riguarda solo il Lazio, a livello nazionale sono circa tre miliardi, riguarda quindi tutte le regioni.
Sono questi costi eccezionali che hanno causato lo sforamento, quelli che sono serviti anche per assumere il personale nel periodo Covid?
Si, di quel personale noi abbiamo in corso le procedure di stabilizzazione, perché c’è una norma che prevede che chi ha lavorato consecutivamente per 18 mesi a tempo determinato può essere selezionato per avere una stabilizzazione. Questa partirà dal 1 settembre 2022.
Sono stati assunti più medici o più infermieri?
Il 70% del personale assunto è di natura infermieristica. Noi da inizio pandemia abbiamo introdotto personale nuovo per circa 6000 unità, oltre coloro che sono stati sostituiti per il turnover. Il 70% di queste figure sono infermieri, il resto è personale medico e tecnico.
Perché questa scelta, gli infermieri costano meno ed è stato più comodo economicamente acquisire loro piuttosto che i medici?
L'intero comparto degli infermieri rappresenta la parte più preponderante, ma è stato sempre così e noi ci muoviamo all’interno degli standard per quanto riguarda la parte ospedaliera. Oggi il tema è che per alcune figure mediche si ha ancora difficoltà per il reclutamento, soprattutto fuori dall’area metropolitana di Roma, nelle province, è sempre più complicato.
Non si possono recuperare invece quei medici che sono andati a rifugiarsi nel privato e quindi trattarli meglio economicamente?
Occorrerebbe muoversi a livello nazionale. Le norme sul pubblico sono molto stringenti e avere una maggiore flessibilità riguardo all’età del pensionamento sarebbe importante, poiché quando questa viene raggiunta nel pubblico, non puoi trattenerli in servizio. Molti professionisti, che sono ancora piu' che validi, vanno così ad operare nel privato. Per cui è una perdita per il sistema pubblico. L'altra cosa importante è quella legata agli incentivi economici, cioè alla parte retributiva, perché qui da noi storicamente c’è stato un livellamento, dal punto di vista nazionale, degli stipendi dei medici. Basta pensare che un giovane medico che entra per la prima volta in servizio in Germania, ha 4.000€ di stipendio, e un giovane medico che entra per la prima volta in servizio in Italia ne ha la metà. Per cui bisogna riconoscere il valore sociale ed economico di questa professione.
Un'altra considerazione da fare a livello nazionale, anzi due, è innanzitutto come si accede al percorso formativo per diventare medico. Probabilmente la scelta che noi abbiamo fatto dal punto di vista universitario tanti anni fa, riguardo al numero chiuso, è una cosa che andrebbe rivista, e un modello come quello francese, dove si consente nel primo anno di accedere a tutti coloro che desiderano entrare e dal secondo anno alzare l'asticella, potrebbe per noi essere migliore. L’altro elemento, anche qui a livello nazionale, che come Regione Lazio abbiamo avanzato come proposta, è di poter superare il tetto di spesa per il personale, che è relativo al 2004, ovvero la Regione Lazio e le altre regioni non possono spendere più di quanto spendevano nel 2004 per la spesa del personale. Questo ovviamente essendo un parametro di 17 anni fa è veramente molto vincolante, soprattutto dal momento in cui si chiede alle regioni, e al Lazio nella fattispecie, di attivare anche i servizi territoriali. Per cui il combinato disposto dell'assenza di mezzi, poiché si ha difficoltà a reperirli, e del vincolo del tetto di spesa del personale, rende la vita molto complicata.
Quindi il numero chiuso per la facoltà di Medicina e Chirurgia, mi conferma sia un errore grave?
Si, secondo me è un errore grave, perché ci ha comunque comportato una distonia tra ciò che a noi serve per garantire i livelli essenziali e quanto viene numericamente formato dal nostro sistema universitario. Io capisco, comprendo, che le università sono prudenti su questo tema, perché temono che ci sia una rincorsa al primo anno, che hanno un problema strutturale di aule, di docenti e quant’altro. Però il sistema così non tiene più, e noi dobbiamo sicuramente aumentare il denominatore consentendo a tutti i giovani che vogliono avviarsi verso questa formazione, di poterlo fare. Poi, ripeto, come fanno in Francia si potrebbe inserire un'asticella alta al secondo anno. Chi supera un certo numero di esami con una certa media prosegue, chi invece non ce la fa, desiste.
Più volte lei ha detto che la Danimarca ha la stessa popolazione del Lazio ed ogni danese ha 4.000€ pro capite per la sanità, mentre noi solo 2.000€. Questo per far capire quale sforzo da parte del personale sanitario ci sia stato per mantenere più che egregiamente il sistema sanitario ad un certo livello, poiché nel frattempo la Regione Lazio ha comunque aperto molti servizi, a fronte del fatto che manca molto personale e che ci sono tutti i problemi di contorno che conosciamo.
Anche questo deve essere uno sforzo nazionale, perché il Lazio da solo non può farcela. Ciò significa che bisogna aumentare il fondo sanitario nazionale e che quando si dice che la Danimarca, che ha la stessa popolazione nostra, gode di risorse che sono il doppio delle nostre, sottolineiamo la differenza di come vengono finanziati questi sistemi. Questo ci deve insegnare che aumentare il livello di finanziamento è un tema fondamentale, ma di carattere nazionale. Noi oggi stiamo circa intorno al 6.4% di investimento sul prodotto interno lordo, che è uno tra i più bassi a livello europeo.
Paesi come la Francia e la Germania arrivano anche all’11%, Svezia, Belgio e Danimarca superano il 10%.
Appunto, c’è una differenza molto profonda. Questo è il tema principale per il Paese. Deve essere proprio completamente rivisto questo sistema. E' chiaro che se noi potessimo beneficiare delle stesse risorse che hanno questi paesi, il quadro sarebbe completamente diverso, anche perché noi abbiamo ottimi professionisti e il paradosso è che nonostante abbiamo la metà delle risorse degli altri, dal punto di vista della qualità dei servizi, soprattutto ospedalieri, non abbiamo nulla da invidiare loro. Perché comunque la qualità e gli esiti delle cure, anche quelle complesse, a partire dai trapianti fino a quelle di routine che vengono erogate, sono assolutamente eccellenti. Pertanto significa che qui si fa un miracolo nel cercare di gestire con queste risorse il sistema sanitario regionale. Anche adesso che si andrà verso un rinnovo del Parlamento, questo tema dovrà essere centrale all’attenzione delle forze politiche, dei gruppi dirigenti. Perché la sanità, soprattutto in questi ultimi anni, ci ha insegnato che "è il tema", non è uno tra i tanti temi.
Quanto rischiamo seriamente di perdere la copertura sanitaria universale e diventare privati?
Il rischio è alto. Peraltro è un rischio che già oggi in alcune circostanze è quasi realtà, perché comunque i cittadini sborsano già di tasca propria, annualmente, circa 40 miliardi. Ciò significa che gli italiani spendono già adesso 1/3 di quello che lo stato destina per il fondo sanitario nazionale, che è di circa 120 miliardi, attraverso le regioni per i livelli essenziali di assistenza. Per cui già oggi ciò che si spende dal proprio stipendio o pensione è una componente importante, quindi è lecito ritenere che bisogna rafforzare la gamba pubblica, cioè quei 120 miliardi devono essere di più, perché altrimenti il rischio è che non si riesce a garantire determinati servizi e i cittadini poi sono costretti inevitabilmente a comprarseli, se hanno i soldi.
Quindi rafforzare la gamba del pubblico oppure fare un governativo atto di coraggio e andare verso il privato totalmente?
Ma questo però non è nella nostra cultura. Abbiamo visto che anche nei paesi dove ciò è avvenuto si creano grandi discriminazioni, perché sono altri modelli di assistenza che creano una grave diseguaglianza. Tradotto, da noi oggi un cittadino, ma anche chiunque arrivi nel nostro paese, indipendentemente dal suo reddito, usufruisce di tutta una serie di servizi, dal servizio ospedaliero, al medico di famiglia, alla parte farmaceutica. Se dovesse acquistare da solo tali servizi, dovrebbe pagarsi un’assicurazione che mensilmente costerebbe circa 4/5 mila euro, per cui è evidente che solo una piccola fetta della popolazione potrebbe permettersi di essere coperta e garantita. Questo è quello che accade negli Stati Uniti, dove se sei assicurato hai una copertura di base e poi se vuoi assistenza extra devi avere una copertura assicurativa superiore. Per avere la copertura assicurativa equivalente a tutti i servizi che eroghiamo noi bisogna guadagnare almeno 5.000 $ al mese e allora è chiaro che oltre l’80% della popolazione è tagliata fuori, ecco perchè il nostro modello ci viene invidiato, perchè tende a ridurre le diseguaglianze e dobbiamo perseguire questa strada, ovvero il rafforzamento della componente pubblica.
Troppe pezze sul nostro sistema sanitario, l’articolo 32 non sembra essere garantito, ogni regione fa come vuole, non c'è una linea comune nelle cure. Cosa bisogna fare, mettere mani sul Titolo V, ad esempio?
Probabilmente il Titolo V non ha portato quei benefici che allora pensavano i legislatori e forse andrebbe anche rivisto. Occorre una maggiore omogeneità sul territorio e soprattutto anche un rafforzamento di una cabina di regia da parte del ministero della Salute e sulle indicazioni alle singole regioni. Poi è chiaro che se ci sono regioni che hanno bisogno di essere aiutate ben venga, noi l’abbiamo fatto, anche durante la pandemia. Abbiamo preso molti pazienti provenienti dal nord Italia. Però ci deve essere un equilibrio negli standard che vengono erogati, insomma dal nord al sud. Oggi c’è una tendenza a fare da nord a sud ognuno per proprio conto, e questa cosa non va bene.
Soprattutto sarebbe necessario adottare un protocollo unico, specie quando si tratta di alcune patologie, almeno fra le tre macro aree, e non venti azioni o approcci diversi per ogni regione.
Il regionalismo può dare e ha dato dei benefici, soprattutto per quanto riguarda la conoscenza del territorio e la prossimità, perché non è detto che i servizi gestiti centralmente dallo Stato siano poi più efficienti di quelli gestiti dalle regioni. Faccio un esempio: la scuola. Il servizio formativo è gestito centralmente dallo Stato e diciamo che non brilla per capacità. Per cui ci sono dei pro e dei contro. Allora il tema qual è: bene che certe gestioni siano delle regioni, come per la Sanità, per la conoscenza del territorio, ma è bene che ci sia un controllo maggiore da parte del ministero della Salute e sui servizi che vengono erogati. E laddove dovessero esserci dei problemi anche dei poteri sostitutivi, ecco questo è un po' quello che in questi anni è accaduto, che per molti anni nel controllo delle regioni ha prevalso il Mef. Ma dev'esserci un equilibrio. L’errore di fondo di quest'ultimo periodo è stato che ci si è concentrati più sulla parte economico - finanziaria piuttosto che sulla parte dell’erogazione dei servizi. Allora adesso quella pagina andrebbe definitivamente chiusa e bisognerebbe ripensare all’erogazione dei servizi, soprattutto quelli territoriali, che in questi anni hanno avuto maggiore difficoltà, rimanendo indietro.
Si parla da anni di servizi territoriali scollegati agli ospedali e adesso si attendono i fondi del PNRR per ricostruire il territorio e risollevare la sanità, l'ultima ancora di salvezza, senza i quali non ci sarà alternativa alla deriva.
I fondi già stanno arrivando e nel Lazio abbiamo in piedi sei gare europee, una delle quali già aggiudicata per sostituire tutti gli acceleratori lineari. Abbiamo le gare in corso per le tac e per le risonanze magnetiche. E' un percorso in essere, per cui non bisogna attendere chissà quanto. La tempistica molto stretta, abbiamo fatto la scelta di non andare a costruire nuovi siti per le case di comunità, gli ospedali di comunità, ma di utilizzare siti esistenti che non erano utilizzati o erano destinati ad altri scopi. Ci siamo fatti dare anche sedi Ipab, proprio per non consumare ulteriore suolo, per fare più in fretta e costruire questa rete territoriale, il cui elemento fondamentale deve essere quello legato anche alle cure domiciliari, con i servizi di telemedicina, di monitoraggio a distanza, che oggi consente anche di controllare il paziente cronico, evitandogli di fare spostamenti, di fare accessi inappropriati al pronto soccorso. Quindi anche la parte domiciliare è un elemento dominante. Il PNRR sulla parte domiciliare, nella misura sei, ha un obiettivo molto ambizioso, ovvero quello di raggiungere il 10% della popolazione over 65. In Germania stanno al 13%. Per cui il 10% è un obiettivo di tutto rispetto, diciamo per la media europea. Però per arrivare a quel livello dobbiamo spingere molto sulla tecnologia e sui professionisti, sia infermieri che medici, avere un rapporto virtuoso con la medicina di base, che non può essere un elemento estraneo. Tutto questo deve arrivare alla conoscenza dell’utente e soprattutto bisogna renderlo protagonista, perché non vada a fare il giro delle sette chiese, come diciamo noi a Roma, ma che sia il sistema che giri intorno a lui. Ciò significa che un paziente cronico anche multi patologico si potrà monitorare da casa perchè oggi la tecnologia consente di trasferire l’esito di quel monitoraggio in automatico al suo medico di famiglia, che darà un primo parere e se ci sarà bisogno dello specialista, il fascicolo sanitario del paziente potrà essere trasferito immediatamente, così come per il ricovero in ospedale. Ci dovrà essere un sistema circolare, questa è la sfida che abbiamo di fronte e abbiamo pochi anni per costruire questo modello virtuoso e quindi dobbiamo spingere molto sulla digitalizzazione. In Israele, con uno dei sistemi sanitari più avanzati al mondo, la digitalizzazione ha fatto superare molte difficoltà.
Una parola ancora per i professionisti della salute, per i medici, su cui poggia il nostro sistema sanitario, perché ci tengono molto a capire il pensiero del loro assessore riguardo alla loro valorizzazione, al riconoscimento dei loro diritti. Non è che parliamo di fallimento dell'ospedalità?
No, assolutamente! Noi abbiamo una formazione di professionisti che è tra le migliori al mondo. Di questo dobbiamo essere decisamente consapevoli. Nel Lazio abbiamo superato un decennio molto difficile, perché il commissariamento, al di là del termine nel concreto, ha significato una cosa molto precisa, ovvero che se andavano in pensione 100 medici ne potevano essere sostituiti 10. Ecco, questa regola che c’è stata imposta a livello nazionale è andata avanti per 9 anni, e grazie all’azione che abbiamo messo in campo noi non abbiamo più questo cappio, siamo in una fase completamente diversa e bisogna puntare molto sulle risorse umane. Abbiamo chiesto due cose: innanzitutto di rimuovere il vincolo di 17 anni fa sul personale, perché questo rende difficile il reclutamento del personale necessario; a seguire, e anche questa una regola molto semplice, nel servizio sanitario si deve entrare solo con contratto a tempo indeterminato, non ci vuole nulla per far sì che si concretizzi. Purtroppo altrimenti accade che di volta in volta ci troviamo di fronte a dei bacini di precariato di personale con contratti a tempo determinato. Prima erano quelli della legge Madìa, i cosiddetti contratti a 36 mesi, adesso sono quelli dei contratti a 18 mesi. Questa storia non può andare avanti così, non è giusto nei confronti di questi professionisti che comunque rappresentano il valore aggiunto del nostro sistema sanitario, che ci ha risolto i problemi quando ne avevamo bisogno. Ecco quella sarebbe una piccola regola rivoluzionaria, ovvero si entra solo con contratti a tempo indeterminato in maniera tale che coloro che hanno fatto un percorso di studi così ampio, perché occorrono 10 anni per formarsi nelle professioni mediche, abbiamo davanti a sé una stabilità.
Cornuti e mazziati..
Esatto. Questo questo non va bene!
Sappiamo che sono in arrivo 500 medici da Cuba per coprire i buchi dell’organico, ma e' vero che noi prendiamo personale medico, ma soprattutto infermieristico anche dal nord Africa, oltre che dall'est europeo?
Sì, a livello nazionale è stato richiesto soprattutto dal versante est europeo, ma anche dalla Siria, Egitto, Tunisia l’acquisizione di professionisti.
In Italia abbiamo delle scuole di medicina di altissimo livello, sei soltanto nella regione Lazio. Siamo sicuri che tutte queste professionalità siano all'altezza dei nostri standard?
Indubbiamente la preparazione nel nostro Paese è molto elevata e bisognerebbe, come detto, superare l'annoso problema del numero chiuso per superare il problema del reperimento del personale medico in futuro. Però anche in altri paesi hanno una preparazione importante. Il fenomeno della mancanza del personale sanitario lo hanno vissuto anche altri Stati dieci anni fa, come l'Inghilterra. Hanno dovuto fare incetta di personale infermieristico e medico proveniente dall’india, dal Pakistan e dalle Filippine. Ovviamente per loro era più semplice perché avevano la conoscenza della lingua inglese. Poi molti di questi Stati hanno accordi commerciali con gli inglesi. Però il problema esiste e da noi ancora di più, perché abbiamo fatto la scelta del un numero chiuso. Allora dobbiamo scardinare il paradigma. Non è un’azione che si mette in campo da oggi a domani, purtroppo, avendo noi scelto la linea a differenza di altri paesi europei e mondiali della massima qualità. Però noi adesso vogliamo fare le nozze coi fichi secchi, e la laurea in Medicina di per sè non consente di esercitare, ci vuole la specializzazione. Per cui avendo alzato molto l’asticella, a fronte di questo abbiamo ristretto il campo di ingresso e pure mantenuto gli stipendi bassi. Oggi questa situazione non si riesce più a gestire. Ecco perché abbiamo difficoltà e perchè alla fine ci si dobbiamo rivolgere anche all’estero. Bisognerebbe fare anche qua di necessità virtù, voglio dire che anziché avere una situazione ingestibile oppure incontrollata dei flussi migratori e dato che in alcuni settori come nelle cure domiciliari ci mancano professionisti come gli infermieri di famiglia, potremmo andare direttamente a prenderci le figure professionali mancanti e accanto a quelli che formiamo già, colmare quei vuoti.
@vanessaseffer