Vito Peragine (Dief): 'Le disuguaglianze impattano sulla crescita'

Conclusa la due giorni a Bari con economisti provenienti dalle più prestigiose Università del mondo.

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Disuguaglianze economiche che si manifestano in diverse dimensioni: disuguaglianze di reddito, di ricchezza, nell’accesso ai servizi, dall’istruzione alla sanità ai trasporti, disuguaglianze tra persone e gruppi sociali ( genere, cittadinanza, tra territori e tra quartieri all’interno delle città).


 

È stato il tema della due giorni a Bari con economisti provenienti dalle più prestigiose Università del mondo in un workshop internazionale organizzato dal Dipartimento di Economia e Finanza di Uniba,  in collaborazione con il Luxembourg Institute of Socio-Economic Research e il Dipartimento di Economia e Diritto dell’Università La Sapienza di Roma.

Al centro della riflessione il legame tra le disuguaglianze e i processi di crescita e di sviluppo dei territori e delle economie più in generale. Pur essendo attenzionato da tutta la comunità scientifica negli ultimi trent’anni, il tema delle disuguaglianze in questi ultimi anni torna prepotentemente al centro perché si è compreso come la maniera in cui le opportunità si distribuiscono tra individui e gruppi sociali, ha un impatto sulle potenzialità di crescita dell’economia e viceversa.

“Se volessimo guardare gli ultimissimi anni - ha affermato Vito Peragine direttore del Dief -  abbiamo assistito ad un processo di convergenza del Mezzogiorno con il resto d’Italia guidato principalmente dal peso della spesa pubblica, generato dalla reazione alla crisi pandemica e alla conseguente crisi economica. Entrambe le crisi sono state affrontate con una grossa immissione di spesa pubblica. E questo per forza di cose ha generato un processo di convergenza".


 

"Ora siamo in una fase, secondo la relazione della Banca d’Italia di qualche giorno fa, in cui questo effetto sta scemando. Quindi - ha sottolineato Peragine - le prospettive a medio e lungo termine, certo, dipenderanno un po’ da fattori di economia globale e un po’ da fattori tutti interni al nostro Paese. Molte aspettative sono legate agli effetti del PNRR che, qualora non dovesse incidere sulla produttività come si auspica faccia, sarà un’altra occasione persa”.

“Le radici storiche delle disuguaglianze nel nostro paese hanno a che fare con lo sviluppo del capitale umano, l’istruzione”, secondo Alberto Basin della New York University, che ha aperto il workshop con una relazione sulle cause storiche della Questione meridionale, ben lontana dall’essere archiviata, "Lo dicono i numeri. Secondo gli ultimi dati ISTAT e della Banca d’Italia, nel Mezzogiorno il reddito medio disponibile delle famiglie è inferiore di oltre il 35% rispetto al Nord; il tasso di abbandono scolastico supera il 16%, contro l’11% della media nazionale; la ricchezza netta media per famiglia è meno della metà di quella del Nord".

"Un divario che non è frutto del caso, ma affonda le radici in fattori storici, strutturali cui solo in minima parte ha tentato di porre rimedio lo slancio economico e lo sviluppo industriale del dopoguerra. Scarso investimento in infrastrutture pubbliche e trasporti; un tessuto produttivo debole, le migrazioni, sottofinanziamento dell’istruzione e minore accesso ai servizi essenziali hanno nel tempo allargato la forbice dei divari territoriali e di quelli tra nord e sud del Paese".


 

“Dai quali - ha continuato Basin - la Puglia esce sicuramente come la regione più dinamica economicamente. Non sono un esperto di Puglia, ma ciò che emerge chiaro è che parliamo di una regione che ha fatto del turismo il suo petrolio, l’asset più importante del suo sviluppo. Credo che abbia fatto benissimo in questi anni ad investire su questo settore, però il turismo porta crescita limitata, non è un settore trainante. Oggi per crescere bisogna sviluppare il settore delle tecnologie avanzate”.

E poiché le disuguaglianze rappresentano un fenomeno complesso e interconnesso, che richiede un approccio multidimensionale, un focus specifico è stato dedicato al rapporto tra disuguaglianze e sistema pensionistico: con al centro la relazione del professor Michele Reitano, direttore del Dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza - Roma.

"Le disuguaglianze -  ha spiegato Reitano  - in Italia negli ultimi anni hanno riguardato in larga parte il mondo del lavoro. Dentro il gruppo dei lavoratori si osservano disuguaglianze fortemente crescenti e persistenti: Tendenzialmente chi inizia a lavorare con salari bassi e con carriere meno remunerate rimane nella stessa condizione a lungo o per tutta la vita con implicazioni inevitabili sul trattamento pensionistico".


 

"Con la riforma del 1995 e l’introduzione del sistema contributivo siamo approdati ad un sistema in cui le pensioni non fanno più riferimento all’ultimo salario, ma all’intera vita lavorativa, il che vuol dire che le pensioni delle prossime generazioni saranno esattamente lo specchio dell’intera storia lavorativa dell’individuo. Anni di svantaggio dal punto di vista lavorativo si tradurranno in anni di bassi contributi e, proporzionalmente, in basse pensioni”.

Una situazione che presenta rischi enormi e desta non poche preoccupazioni soprattutto per quei lavoratori che pur essendo stati attivi professionalmente per 20 anni si ritroveranno a ricevere assegni pensionistici di 8-900 euro mensili. “Sono le cosiddette carriere fragili spesso il risultato dell’intersecarsi di almeno tre elementi: primo il rischio di non lavoro o lavoro frammentario, secondo la scarsa contribuzione dovuta a contratti con aliquote basse, e terzo i bassi salari, spesso legati alla diffusione del part-time involontario".

Una situazione che richiede policy adeguate. “Uno schema contributivo va benissimo per chi ha carriere stabili - ha evidenziato Reitano - ma va immaginato un trattamento minimo per chi ha versato pochi contributi per molti anni, pur essendo stato attivo a lungo. Attualmente i dati Inps ci dicono che circa il 50% delle donne ha un orario di lavoro inferiore a quello standard; stesso dato per il 20% degli uomini”.

Secondo Reitano, è ormai superata l’idea - diffusa negli anni ’90 con le liberalizzazioni - secondo cui bastava entrare nel mercato del lavoro. “Una idea smentita dai dati. Non è vero che entrando si sale di livello e si fa carriera: si possono invece incontrare trappole e ostacoli che impediscono un’effettiva inclusione”. Infine, un’osservazione sulle dinamiche attuali dell’occupazione, anche queste a tratti ingannevoli: “I settori in cui si assume di più - ha precisato - come grande distribuzione, turismo, logistica, sono quelli che molto spesso utilizzano forme contrattuali atipiche, part-time, tempo determinato, stagionali”.

Dunque, attenzione a fare di tutta l’occupazione un fascio. Basta anche un’ora di lavoro retribuito al giorno per rientrare nella categoria di occupato. Ma un’ora non fa un lavoro, né una carriera e dunque neppure una pensione. “Perciò – ha concluso Reitano - più che guardare a misure macroeconomiche, bisognerebbe intervenire sull’intensità del lavoro”, che garantisca dignità e futuro ai lavoratori.  

(gelormini@gmail.com)

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