Milano
I candidati e i dilemmi social. Ecco il mistero dell’engagement. L’analisi

In attesa di un esito che i sondaggi raccontano come scontato, si conclude oggi la campagna elettorale delle primarie, una campagna che, vista la breve durata, ha dovuto per forza di cose essere piuttosto intensa, in termine non solo di impegno dei candidati sul territorio ma anche e soprattutto di presenza “social”.
E’ pratica comune dei nostri politici, soprattutto quelli milanesi, di affidarsi a cosiddette “agenzie di comunicazione” gestite da supposti paraguri che, non si sa bene a che titolo o a fronte di quali successi raggiunti in questo campo, si incaricano di “gestire” la “presenza in rete” dei vari candidati, nella costante ricerca di un mito chiamato “allargamento del consenso” meglio se rivolto all’Eldorado dell’area “degli indecisi o del non-voto”.
Gli studiosi di comunicazione sanno perfettamente che nel 2016, visto il costante mutamento dei social e’ assai difficile, se non impossibile, misurare l’efficacia di una campagna online. Questo, a maggior ragione, se si considera che
1) le leggi che regolano uno stesso social cambiano continuamente nel corso del tempo, il Facebook di oggi e’ completamente diverso dal Facebook di soli 12 mesi fa (il banale numero di like su una pagina, per esempio, non ha più alcun valore e anzi, molti sostengono che sia meglio averne meno di diecimila, fatidica soglia oltre la quale Facebook praticamente smette di far circolare i contenuti non sponsorizzati di una pagina tra i fan di quella particolare pagina)
2) La comunicazione politica - che sarebbe più corretto, in fase pre-elettorale, chiamare semplicemente “propaganda” - ha come target la conquista di voti (altrimenti, che senso avrebbe spendere soldi) ma non esiste modo alcuno di provare, con certezza, quanti dei voti poi effettivamente presi siano dipesi dalla propaganda online stessa.
Da un lato, tutto questo i candidati lo avvertono, e difficilmente qualcuno pensa sul serio che i like su una pagina o su un post si tramutino in voti.
Dall’altro, i paraguri di cui sopra tengono famiglia, e in queste ore provano in ogni modo a rivendicare la bontà del loro lavoro.
Cosi’ ecco il fiorire in queste ore di chiusura le tabelle come quella pubblicata dal Corriere Milano (prodotte da chi? Ma certo, da altre agenzie di comunicazione) volte a misurare “oggettivamente” il peso avuto dalla “presenza online” dei vari candidati” dietro la parolina magica “engagement”.
“Eh? Diecimila euro per la gestione della pagina Facebook?! Ma non poteva farlo mio cugino Pino gratis?”. “Eh si, e poi secondo lei, il candidato X avrebbe avuto un simile engagement!”.
In realtà, l’engagement è solo un’altra variante della famosa scuola di Antani, un termine che considera tutto - like, commenti, condivisioni - per non considerare nulla.
Pensiamo all’infelice post di Sala su David Bowie. Quel posto prese oltre cento commenti, e tutti negativi (alcuni veri e propri insulti): ebbene, Sala sicuramente di quel post e di quei commenti avrebbe fatto volentieri a meno, pero’ i profeti dell’engagement, tutti baldanzosi, aggregano quei commenti agli altri, come fosse un fatto positivo.
E che dire di quei sostenitori di forze politiche avverse che frequentano con insistenza la pagina Facebook di Majorino, con nessuna altra funzione se non quella - come si dice in gergo - di fare trolling? Via, tutto dentro l’engagement.
Per la gioia di chi? Non certo del povero candidato, che da post o commenti simili non cava neppure l’ombra di un voto.
Ma sicuramente, dell’agenzia di comunicazione che così pompa il dato dell’engagement e ha una pezza d’appoggio fintamente oggettiva in grado di giustificare la fattura.
Esistono rilevazione per separare il commento negativo dal commento positivo, pero’ personalmente noi di simili rilevazioni in queste ore non ne abbiamo visto, e in ogni caso anche simili rivelazioni prestano numerosi fianchi a critiche (giacche’ se e’ facile capire cosa sia un “commento negativo” e’ assai difficile, di contro, stabilire cosa sia un “commento positivo” e, di nuovo, come questo possa tradursi in beneficio tangibile per il candidato).
Sarebbe quindi ora che ci si facesse tutti più furbi, si gestisse la comunicazione in modo più maturo, magari studiando come fanno comunicazione in America durante le primarie, ed evitando spamming che a volte, genera addirittura effetti contrari, allontanando chi potrebbe essere interessato da una proposta politica e avvicinando i trolls.
Più affidarsi ai paraguru, bisognerebbe cercare le idee. Non a caso, il candidato che in questo momento ha meno della meta’ dei like degli altri due (Giuseppe Sala, 4 mila contro gli oltre 10 mila di Balzani e Majorino) e’ accreditato dai sondaggi come largamente in testa.
Vedremo chi avrà ragione. Di certo, la più bella idea della campagna elettorale, nonché l’unica a essere diventata realmente virale, e’ stata sicuramente l’immagine di Giuseppe Sala travestito da Che Guevara.
Peccato che quella e’ farina gratuita del sacco di un artista e non certo di un paraguru della comunicazione lautamente retribuito.
