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Milano
Le "opinioni dissenzienti" di Zanon: un 'terremoto' tra i giuristi
Nicolò Zanon

Le "opinioni dissenzienti" di Zanon: un 'terremoto' tra i giuristi

“Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale: dieci casi" (Zanichelli) è l'ultimo libro di Nicolò Zanon, ex vicepresidente della Corte Costituzionale, nonché professore ordinario di diritto costituzionale alla Statale di Milano. Attraverso la disamina di dieci casi esemplari, Zanon ripercorre le sentenze che hanno diviso la Consulta negli anni in cui lui ne ha fatto parte (2014-2023). Dopo la pubblicazione, “c'è chi ha parlato di 'leggerezza', chi di 'delegittimazione della Corte costituzionale', chi addirittura di 'illeciti'. Ma è solo paura di discutere sulle idee”. Raggiunto da Affaritaliani.it Milano, Zanon racconta della controversa accoglienza del libro e perché è stato oggetto di una serie di polemiche tra i cultori del diritto. L'intervista

La pubblicazione del suo libro ha suscitato un acceso dibattito all'interno del mondo della giustizia. Quali sono state le reazioni principali?

Purtroppo, le reazioni a caldo sono state deludenti: chi ha parlato di “leggerezza”, chi di “delegittimazione della Corte costituzionale”, chi addirittura di illeciti. Finora, per quel che ne so, l’unico che ha risposto in modo interessante, dissentendo da me con una serie di argomenti di rilievo, è stato Pasquale Pasquino, sul sito dell’associazione Libertà eguale. Proprio per questo, l’ho invitato a fare una lezione sul tema ai miei studenti del corso di Giustizia costituzionale.

L'attuale presidente della Corte Costituzionale, Augusto Barbera, ha definito una “grave leggerezza" scrivere un libro sulle proprie dissenting opinion. Qual è la sua idea in merito?

Ecco, appunto. Io non direi che è stata una scelta leggera, è stata una decisione molto meditata e anche sofferta. Comprendo come il mio amico prof. Barbera abbia dovuto interpretare il proprio ruolo, dando voce anche a preoccupazioni di natura istituzionale. Ma, vede, io sono un ex giudice tornato a fare il professore universitario, e non credo proprio che alcune mie modeste riflessioni “postume” possano anche solo scalfire l’autorevolezza della Corte, che è essenziale organo di garanzia del nostro sistema.

Perché, secondo lei, il libro ha suscitato questo effetto?

Rispondere a questa domanda significa squarciare un velo su una questione culturale di fondo, nel nostro come in altri Paesi: si ha paura della discussione delle idee, quando alcune di queste appaiano controcorrente e non allineate al pensiero dominante. Si tende immediatamente a rifiutare il confronto, emarginando con invettive chi le sostiene. Non si accetta più la fatica della discussione pacata, si è smarrita la pazienza di argomentare e riflettere, e magari anche di cambiare le proprie idee di partenza. In molti settori della vita politica e pubblica è così.

Qual è il messaggio principale che vorrebbe trasmettere con il suo libro?

Senza nessuna presunzione di essere nel giusto, mi interessava attirare l’attenzione sulle tecniche interpretative della Costituzione e della legge, e mostrare ai miei studenti (il mio è un volumetto universitario) come una stessa questione, se si muove da diverse interpretazioni di tali norme, può essere decisa in modi diversi. Mi interessa che loro, in Università, imparino l’arte della discussione e del contraddittorio tra posizioni diverse.

Quali sono state le reazioni "ufficiali" che, in seguito alla pubblicazione, l'hanno particolarmente colpita?

Se si eccettua la reazione della Corte, sulla quale ho già detto, mi hanno fatto impressione alcuni articoli che contenevano messaggi quasi intimidatori, con ricostruzioni davvero distorte della mia carriera professionale e della mia stessa persona. Reazioni realmente minacciose e cariche di violenza verbale.

In che modo rivelare i dissensi interni può dare forza alla Consulta?

Questo è una questione centrale. Il nodo del contendere sta fondamentalmente qui. L’opinione dominante pensa che, a tutela dell’autorevolezza e della indipendenza della Corte, le voci dissonanti “di dentro”, dentro alla Corte debbano restare. Io penso che, al contrario, in certi e cruciali casi, sia giusto portarle “di fuori” e farle conoscere alla cerchia dell’opinione pubblica interessata. Quest’ultima non deve essere paternalisticamente “protetta” dalle idee. Io sono della vecchia scuola liberale: più idee sono in circolazione meglio è. Inoltre, nutrire il dibattito “esterno”, che si svolge nella società intellettuale, significa, di converso, dare maggiore (non minore) autorevolezza alla stessa Corte, e mostrare con trasparenza la serietà delle discussioni che si svolgono in quel collegio.

Lei ha scritto che "l'assenza dell'opinione dissenziente in Corte Costituzionale è retaggio di una tradizione da superare". Come si fa a superare? Quali sono gli strumenti necessari?

Si discute se la Corte possa provvedere da sola, introducendo il dissenso nelle proprie norme “integrative” (quelle che appunto integrano le norme di legge sul processo costituzionale), o se non sia necessario un intervento del legislatore, ordinario o addirittura costituzionale. Personalmente, penso che sarebbe preferibile l’intervento di un legislatore molto prudente, consapevole e attento. In fin dei contri il processo davanti alla Corte non è affare della sola Corte, ma di tutti noi… Sono però a mia volta consapevole, con queste parole, di scatenare il sospetto, nel clima che descrivevo prima, di voler suggerire alla politica di “mettere le mani” sulla Corte. In realtà, è la Costituzione stessa (art. 137) che riserva alla legge (ordinaria e costituzionale) il compito introdurre le regole per il funzionamento della Corte…

Le decisioni collegiali, one voice, che vengono prodotte dalla Corte hanno il torto di far considerare corresponsabili i giudici in disaccordo con la sentenza prodotta. Consentire la pubblicazione del dissenso sarebbe protettivo nei loro confronti?

C’è chi ritiene pericoloso consentire al dissenziente di far conoscere all’esterno i propri argomenti, perché questo consentirebbe la sua “cattura” da parte di partiti o movimenti politici, politicizzando inopportunamente l’attività della Corte. Io preferisco pensare che la conoscenza di argomenti rimasti minoritari possa aiutare l’evoluzione della giurisprudenza, stimolando pluralismo e approfondimento dei problemi.

Nella Corte americana i dissenzienti, impotenti a spingere a concessioni la maggioranza, invece di rivolgersi ai colleghi "sordi" alle loro obiezioni, si rivolgono ad un pubblico esterno. Quali sono le conseguenze?

Non voglio affatto idealizzare l’esperienza della Corte suprema, mi limito a rilevare che là i giudici della maggioranza e della minoranza si scambiano le rispettive opinions, e riescono così a tener conto delle rispettive posizioni. Questo non fa loro cambiare idea, ma obbliga entrambi ad affinare le proprie argomentazioni. Ruth Bader Ginsburg, icona dei giudici progressisti, raccontava che il suo amico Nino Scalia, mito dei giuristi conservatori, le recapitava il suo dissent il venerdì pomeriggio: le rovinava così il week end, ma le permetteva di migliorare la qualità della sua motivazione. In generale, Inoltre, trasferire all’esterno il dibattito tra i giudici può tradursi in una discussione che si diffonde presso l’opinione pubblica interessata (per quanto ristretta essa sia), con benefici effetti di integrazione culturale e sociale, proprio perché dividersi, senza violenza, su tesi contrapposte sconta l’accettazione di un presupposto essenziale: che l’argomentazione razionale serve a persuadere, non a costringere. Insomma, il dissenso fra i giudici, dentro la Corte, potrebbe svilupparsi, fuori da essa, cioè nella società, con effetti che io riterrei niente affatto pericolosi.








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