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“Les Contes d'Hoffmann” alla Scala di Milano
Les Contes d'Hoffmann alla Scala

“Les Contes d'Hoffmann” alla Scala di Milano

Se il vostro cronista avesse dato retta a tutti i recensori, critici, commentatori, opinionisti, postatori (cioè autori di post sui social) ecc che avevano massacrato senza se e senza ma la prima de “Les Contes d'Hoffmann” di Jacques Offenbach alla Scala, se ne sarebbe rimasto a casa la sera della seconda, magari spiaggiato sul divano col telecomando in mano a cercare di districarsi, in assenza di partite di calcio, fra le 7563 puntate di “Mare fuori” (anche no, grazie). E invece martedì sera il vostro cronista ha deciso di andare al Piermarini e affrontare stoicamente le 3 ore e 40 minuti di spettacolo (inclusi due intervalli da 25, eh).

Quella che sembrava la Caporetto dell'opera lirica si è rivelata come una serata di teatro nella media

Alla fine quella che sembrava la Caporetto dell'opera lirica si è rivelata come una serata di teatro nella media, con cose brutte, cose normali, cose belle. Le 3 ore e 40 sono passate, meno peggio di altre volte (sicuramente meno peggio dei recenti “Vespri Siciliani”, quelli sì veramente inguardabili).

Il direttore d'orchestra, Frédéric Chaslin

Cominciamo dal direttore d'orchestra, il francese Frédéric Chaslin, esperto del repertorio offenbachiano. Il problema maggiore è stata la scelta editoriale della partitura: Offenbach morì prima di poterla completare, lasciando ai posteri una enorme matassa di appunti, varianti, tagli e aggiunte da cui nessuno è ancora sostanzialmente venuto a capo. Chaslin utilizza una delle edizioni esistenti, quella di Choudens (perché fuori diritti, dicono le male lingue), e si prende la libertà di tagliare alcune parti vitali, anche per la comprensione della trama, come il duello Hoffmann-Schlémil e l'intervento finale della Musa che dismette i panni di Nicklausse.

Una direzione opaca, in certi momenti greve, priva della lieve gioia, della lieve malinconia, della lieve eleganza che sono la cifra di questo capolavoro. Poco c'era del magico, del misterioso, ma anche dell'ironico che fanno di questa partitura un autentico gioiello. C’è stato anche qualche buon momento, come la melodia dei due corni del terzo atto, che ci ha catapultato nel mondo fantastico e brumoso di Karl Maria von Weber.

Nel complesso abbiamo sentito di peggio, anche alla Scala e anche in tempi recenti

Nel complesso abbiamo sentito di peggio, anche alla Scala e anche in tempi recenti. Certo anche di meglio, dall'immenso Gergiev-il-Cattivo della “Dama di Picche” agli eccellenti Zangiev, Gamba, Kober, Viotti, Chailly, solo per citare l'ultimo anno solare. È stata una direzione modesta, forse mediocre, non catastrofica.

La regia di Davide Livermore

La regia di Davide Livermore (come al solito affiancato da Giò Forma per le scene e Gianluca Falaschi per i costumi) pecca di eccessi: troppo di tutto, come a voler dimostrare quanto sia bravo e quanto multiforme sia il suo ingegno. In particolare è stato fastidioso l'abnorme uso di mimi, che hanno scorrazzato sul palcoscenico dall'inizio alla fine, abbigliati come schermidori con tanto di casco paracolpi in maglia d’acciaio (tra parentesi, avete notato quanti mimi si usino oggi nell'opera lirica? Che ci sia qualche agevolazione fiscale?). Troppo di tutto, dicevamo: troppe simbologie, troppi intrecci che invece di essere sciolti vengono ulteriormente “avviluppati e rintrecciati”, per parafrasare Rossini. Però i giochi di ombre cinesi erano suggestivi e al vostro cronista – lapidato sia! - è piaciuto l’inizio del terzo atto, quando la platea è stata invasa da sinuose danzatrici che l'hanno coperta con un enorme telo grigio dai riflessi verdi mosso al ritmo della barcarola. Forse vista dall'alto la trovata può essere sembrata priva di ogni logica, ma vista dal basso, appunto dalla platea, ha avuto un suo che di insolito e, perché no, di poetico.

Il cast vocale

Il cast vocale. Premessa: è un peccato che La Scala non sia riuscita a trovare un soprano che interpretasse tutti e tre i personaggi, come previsto dal compositore. Certo, di Joan Sutherland non ne nascono tutti i giorni, e nemmeno tutti i decenni e nemmeno ogni mezzo secolo, ma se l'opera di Monte Carlo è riuscita solo pochi anni fa nell'impresa con Olga Peretyatko, perché non La Scala, uno dei principali teatri mondiali? Fatto sta che le tre donne del racconto sono state interpretate da tre cantanti. Olympia era il soprano Federica Guida: una parte da piccola Regina della Notte affrontata con qualche fatica sugli acuti in agilità ma nel complesso bene. Antonia era il soprano, Eleonora Buratto, una delle grandi star operistiche di questi tempi, timbro bellissimo, capace di svariare nei registri, presenza scenica: una cantante che da sola vale il biglietto, come si usa dire. Giulietta era il mezzosoprano Francesca Di Sauro, qualche problema sugli acuti ma interessante.

Benissimo il mezzosoprano Marina Viotti, nella duplice parte di Nicklausse/La Musa

Benissimo il mezzosoprano Marina Viotti, nella duplice parte di Nicklausse/La Musa: fraseggio impeccabile, bel timbro, emissione elegante.

I quattro ruoli diabolici maschili sono stati interpretati, come Offenbach chiedeva, da uno stesso cantante, qui il baritono Luca Pisaroni, uno dei più grandi Leporello degli ultimi decenni. Non sempre a fuoco, un po' affaticato vocalmente, in certi passaggi non adeguatamente morbido, ma che controllo del palcoscenico, che classe attoriale!

Vittorio Grigolo è stato sicuramente grande attore

Infine Hoffmann, impersonato da Vittorio Grigolo: il tenore aretino forse ha già dato il meglio di sé in carriera, e in carriera è stato discontinuo, vittima più o meno inconsapevole di sé stesso, del suo gigionismo (altrimenti detto grigolismo). E per questo sprezzato da metà del pubblico dei teatri d'opera (ma amato per gli stessi opposti motivi dall’altra metà). La parte è micidiale, ti tiene sul palcoscenico dall'inizio alla fine. Oltre che grande cantante devi essere grande attore. Grigolo è stato sicuramente grande attore; come cantante ha avuto qualche momento di appannamento ed è arrivato stremato alla fine, ma la voce è ancora luminosa, elegante, fascinosa. Se riuscirà a gestirsi in maniera ragionevole potrà avere ancora davanti molti anni di palcoscenico. Delle parti cosiddette “minori”, grande per classe e mezzi vocali è stato il Luther/Crespel di Alfonso Antoniozzi.

Infine il coro, anzi Il Coro, magnifico come al solito. Durante il secondo atto, prima di tornare in scena nel terzo, il direttore Alberto Malazzi si è seduto in platea come un normale spettatore, accanto al vostro cronista, che durante l'intervallo ha avuto modo di parlargli e di esprimergli l'immensa gratitudine per quello che Il Coro della Scala è: Patrimonio dell'Umanità.

Solo per questo sarebbe valsa la pena venire e non restare a casa davanti alla tv.

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