Puoi rifiutarti di andare al lavoro per paura del Coronavirus? La risposta - Affaritaliani.it

Milano

Puoi rifiutarti di andare al lavoro per paura del Coronavirus? La risposta

Maria Teresa Santaguida per Affaritaliani.it Milano

Il tuo capo ti obbliga ad andare al lavoro? Puoi rifiutarti? Che cosa ti succederebbe? Queste le risposte ai quesiti più comuni in questo momento

A cosa si riferiscono i “comprovati impegni lavorativi” per i quali è possibile spostarsi da casa? E’ possibile rifiutarsi di andare a lavorare se si ritiene che sia in pericolo la propria salute? Sarebbe giustificato un licenziamento? A tutte queste domande Affaritaliani.it Milano prova a rispondere interrogando due giuslavoristi milanesi: Luca de Vecchi avvocato nello studio internazionale Baker McKenzie e Valerio De Stefano, ricercatore e professore di diritto del Lavoro all’Università di Leuven, in Belgio.

Nell'ambito dell'emergenza, per i dubbi interpretativi e attuativi a livello globale, i principali studi legali del mondo stanno organizzando task force di supporto ai quesiti dei propri clienti. Nel team globale di Baker c’è proprio de Vecchi, che spiega: “Il contesto normativo cambia continuamente. Alle aziende che ne hanno fatto richiesta inviamo con frequenza quasi quotidiana una newsletter di aggiornamento con le risposte alle principali domande”.

Primo punto la tutela della salute del lavoratore, quali obblighi e quali problemi in questa situazione di emergenza?

De Stefano: “Il Decreto della presidenza del Consiglio dei ministri è una legge eccezionale, in un momento inedito della storia d’Italia, dalla sua nascita come democrazia ad oggi: una normativa speciale che si affianca a quelle generali già in vigore, come nel caso delle norme di diritto del lavoro. Non ci sono precedenti, quindi riadattare a questa situazione un sistema già normato scatena interrogativi da parte di tutti gli interessati. Come sempre, quando si tratta di leggi, l’esigenza è quella di bilanciare gli interessi: da un lato la tutela della salute, in questo caso dei lavoratori, dall’altro gli interessi dell’impresa”.

Una precisazione: per l’imprenditore l’obbligo di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” esiste già, ed è previsto all’articolo 2087 del codice civile. 

Da questo discende “l’obbligo di prevenzione”, ovvero quello “di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge, ma anche tutte le altre che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoratore”, recita ancora la norma.

Con il Coronavirus anche lo spostamento verso il luogo di lavoro potrebbe diventare una minaccia per la salute, anche se ad oggi le limitazioni introdotte non vietano gli spostamenti per “comprovati motivi di lavoro”. Qual è il range dei “comprovati motivi”?

De Stefano: “Non si può dire che qualsiasi necessità del datore di lavoro valga come ‘comprovata esigenza’ e quindi rientri nel decreto. E anche quando la comprovata esigenza sia scritta in un’autocertificazione non vuol dire che l’autorità amministrativa debba accettarla tout-court. L’eccezionalità del momento e le leggi che lo fotografano non consentono di andare avanti con l’ordinaria amministrazione. Siamo di fronte a limitazioni pesanti della libertà delle persone, dunque anche le comprovate esigenze dell’impresa non possono essere lette in modo troppo ampio”.

Quali sono i consigli per chi deve spostarsi per lavoro?

de Vecchi: “Per le categorie che non possono adottare lo smart working per esigenze effettive, come in tutti i lavori di tipo ‘pratico’, quando i lavoratori si spostano (sia per recarsi sul posto, sia per svolgere la propria attività) dovranno mostrare in caso di controlli una certificazione per giustificare lo spostamento. E’ meglio se questa sia rilasciata dall'azienda".

Ma che cosa succede se il mio datore di lavoro non prevede lo smart working e mi obbliga a recarmi sul posto? Posso rifiutare?

de Vecchi: “Il datore di lavoro deve garantire condizioni di sicurezza che, in locali affollati, difficilmente possono essere tutelate in questa situazione. Abbiamo quindi raccomandato alle imprese di adottare in tutti i casi possibili modalità di collegamento da remoto per lo svolgimento di riunioni e fruire del lavoro agile semplificato.

Se non è possibile operare da remoto, i datori di lavoro possono promuovere con i dipendenti periodi di ferie e permessi retribuiti. Una volta finite anche queste modalità si potrà ricorrere alla cassa integrazione e alla cassa in deroga su cui il Governo sta lavorando e promette ulteriori novità (e fondi) nei prossimi giorni. In ultima analisi si possono concordare periodi di aspettativa non retribuita. Il lavoratore sulla carta non può rifiutarsi di recarsi al lavoro, salvo che non ci sia un espresso divieto dell'autorità o un rischio effettivo per la propria sicurezza”. 

De Stefano: “C’è una vasta giurisprudenza che dice che il datore di lavoro può disporre unilateralmente le ferie, ma nella prassi mosse di questo tipo andrebbero concordate con il lavoratore ed eventualmente con i sindacati . La raccomandazione è rivolgersi comunque ad un’organizzazione sindacale, anche se non c’è un referente interno all’azienda e anche se si è lavoratori atipici o non iscritti. Non è necessario accettare imposizioni unilaterali senza garanzie. Il datore di lavoro ha l’obbligo di mettere i suoi dipendenti nelle condizioni migliori per la sua salute psicofisica”.

Che cosa avviene in tutte quelle realtà dove non è possibile applicare il lavoro agile, come la manifattura?

De Stefano: “Anche in questo caso è necessario adottare soluzioni di buon senso. Se le produzioni non possono essere fermate, sempre in accordo tra le parti, si può pensare ad esempio a lavorare su turni, per evitare grandi assembramenti di persone all’interno delle fabbriche. I problemi maggiori nascono purtroppo, non tanto nella rete delle grandi imprese, ma in quelle delle piccole imprese che faticano a prendere misure idonee”. 

Che cosa succede se lavoratore e datore di lavoro arrivano allo scontro?

De Stefano: “Se il lavoratore ritiene che il datore di lavoro stia mettendo a rischio la sua salute senza un grave motivo che imponga la presenza in ufficio può in ultima istanza rifiutarsi di obbedire. In ogni caso, prima di agire è sempre bene che si tuteli presso un sindacato. Qualora incorresse in sanzioni disciplinari irrogate per la mancata osservazione degli ordini può impugnarle, se ritenute irragionevoli.

Va tenuto presente che un no da parte dell’imprenditore all’adottare soluzioni di lavoro agile non è in linea con il decreto adottato dalla Presidenza del Consiglio in questa situazione di emergenza”.

Proviamo ad allungare lo sguardo. Che cosa succede se si viene licenziati per motivi economici dettati dalla crisi conseguente al blocco delle attività per l’epidemia?

De Stefano: “In questo caso ci si riferisce al giustificato motivo oggettivo di licenziamento, cioè al licenziamento per motivi economici”. Questa però deve essere l’extrema ratio a cui ricorrere da parte di un’impresa che subisca una contrazione della sua attività tale da impattare direttamente sulla posizione del lavoratore. Prima ancora bisogna adottare tutte le misure possibili come alternativa al licenziamento e per la salvaguardia del posto di lavoro  incluso il demansionamento e il trasferimento; in seconda battuta si può passare per la cassa integrazione, agli accordi di solidarietà. In caso ultimo, se si arriva al licenziamento è possibile l’impugnazione davanti ad un Tribunale del lavoro. Infine: se si tratta di più lavoratori, per le imprese più grandi, si entra nella normativa sui licenziamenti collettivi: qui anche si dovrebbe fare il possibile per evitare i licenziamenti, ricorrendo ad esempio alla cassa integrazione o agli accordi di solidarietà”








A2A