PugliaItalia
27 gennaio 2025 - La memoria è la valigia dei ricordi
La liberazione dei sopravvissuti ai lager nazisti, ottant'anni fa, è un monito per chi, ancora oggi, crede nella superiorità di una razza e persegue l'intolleranza religiosa.

di Franco Deramo
Provo una strana, dolorosa sensazione. Il 27 gennaio, Memoria della Shoah, non è più il giorno della memoria, ma un giorno da relegare nella dimensione del ricordo.
Circondati come siamo da guerre assurde (Russia-Ucraina, Israele-Hamas-Palestina), è come se sia subentrato un senso di assuefazione; l’assenza di una sincera e concreta attenzione alla difesa dei diritti universali dei popoli, delle nazioni e, ancor prima, degli uomini stessi in quanto tali. Quelle stragi, quell’assurda, ripetuta, persino “abusata” distruzione di vite umane in diretta tv, sembra non farci più vibrare di sdegno.

C’è una differenza abissale fra ricordo e memoria. I ricordi li porto in valigia, la memoria resta viva nella mia anima. La shoah non possiamo richiuderla in una valigia. E’ quella stessa valigia: un insieme di vite, di storie, di volti, di sofferenze, di segni come testimonia la sterminata e spaventosa serie di foto dei campi di concentramento da far scorrere sotto gli occhi una volta l’anno.
Una “valigia” oggi, più che mai, esposta al rischio di “furto” da parte di quanti, con altrettanta lucida follia dei carnefici nazisti, si rifiutano di guardare la cruda, feroce, devastante realtà della shoah sino a negarla.
Lo sterminio degli ebrei, ideato e messo in atto dal führer del nazismo, è stato un’inaudita, terrificante, inenarrabile sequela di tragedie, di violenze, crudeltà perpetrate contro un popolo, una razza ritenuta inferiore, nel tentativo di annientarla. Uno sterminio a cui l’Italia concorse con la sciagurata alleanza ai tedeschi e le leggi razziali promulgate dal capo del fascismo. Un destino di morte che abbracciò milioni di uomini in tanti paesi del vecchio continente. Crimini la cui memoria deve restare viva nella memoria collettiva.

Ma come consegnare ai giovani la memoria di quell’immane tragedia? Quali sono gli ideali per cui, con cui combattere il razzismo? La presunzione di appartenere ad una genìa superiore? Ma il razzismo è finito con la shoah? L’Europa ha dovuto pagare un prezzo altissimo a quella follia omicida. Ma ancora oggi, a parti ribaltate, è l’esercito di Israele che cerca di annientare il popolo palestinese, in nome di una presunta superiorità morale e politica a dettare le regole del gioco in uno scacchiere geografico e politico così complesso e importante. Sia pure con la “giustificazione”, agli occhi del mondo, del gravissimo attacco terrorista subìto da Hamas.
Bisogna esserci stato ad Auschwitz e Birkenau, città simbolo, città emblema della ferocia nazista. Camere a gas spacciate per docce, in cui trovarono la morte centinaia di migliaia di ebrei anziani e malati. Trasportati nei lager dalle loro città, dai loro paesi, stivati in carri bestiame. Forni crematori per eliminare i cadaveri. Spoglie umane accatastate in fosse comuni: 1.100.000 le vittime dei due lager.
I sopravvissuti, alloggiati in baracche, stretti gli uni accanto agli altri per riscaldarsi, dovevano lavorare nelle fabbriche di munizioni. In quelle baracche, c’era vento e freddo dappertutto, di notte e di giorno, nell’inverno feroce e implacabile di quelle latitudini. Una tragedia nella tragedia. Non basta descriverle, bisogna starci dentro a quelle baracche per capire.
Visitare quei campi d’inverno, con la neve ghiacciata sotto le scarpe, ti toglie il fiato. Auschwitz e Birkenau sono buchi neri conficcati nella coscienza, nella mente. “La mia colpa mi è sempre d’innanzi!”, recita il Salmo 50. Quella colpa che il tempo cerca di cancellare, ma che è sempre pronta ad intervenire, ad accadere, a rivivere nella memoria.
Quel ricordo è un vibrare, un sussulto del cuore che non accetta, che rifiuta un simile, inaudito scempio. Su quel binario ferroviario che muore nel campo di Auschwitz non può morire pure la nostra sensibilità travolta dall’indifferenza. Dobbiamo accettare come un dono l’incontro, le testimonianze dei pochi superstiti che ancora oggi ci accompagnano nel mesto peregrinare tra i viali e le grigie baracche dei lager.

Una visita che, come “memoria viva”, mostra intatto uno di quei vagoni della morte, sul cui predellino, ricoperto di neve, poggiare con cura, come carezza, una rosa rossa per quanti lì hanno vissuto l’ultimo giorno di vita. Una visita in cui è possibile ancora “ascoltare”, nella struggente malinconia di queste uggiose giornate di gennaio, la muta preghiera personale dei deportati, a volte alternata da una sottile preghiera collettiva al Dio della vita.
Papa Francesco qualche anno fa, nella meditazione mattutina, ha detto: “Pensiamo a Auschwitz e ad altri campi di concentramento: loro dovevano pregare per questo dittatore che voleva la razza pura e ammazzava senza scrupolo, e pregare perché Dio li benedicesse, a tutti questi! E tanti lo hanno fatto”.
La forza della preghiera! Tante le ragioni, le motivazioni per fare e tenere viva la memoria. Una foto può documentare un passato, un ricordo, qualcosa di già visto. La memoria fissa nell’umanità un’idea, genera cultura, conoscenza, alimenta riflessione. La memoria fa sì che la storia narrata attraverso quell’idea non si ripeta. Oggi, sentiamoci tutti impegnati a dire e a vivere un solo motto: mai più!