La dipendenza disperata (di M. Pennuzzi)

Questa volta c'è scappato il morto. Una povera dottoressa caduta nell'adempimento del suo dovere di medico psichiatra, (uso questa terminologia - forse un po' retorica - per descrivere quanto accaduto, ma necessaria per sottolineare una verità quasi ignorata).
Essere un operatore socio sanitario, esporsi nel proprio lavoro ad un pubblico fragile e disperato, indifeso ma violento, maltrattato ma proprio per questo disposto a compiere i più grandi soprusi: è un mestiere difficile e pericoloso e si può perdere la vita nel compierlo, come può accadere ad un operatore delle forze dell'ordine o ad un vigile del fuoco.
Anche nel settore sociale e sanitario spesso occorre coraggio e vi sono le vittime del dovere. Ho trascorso alcuni anni nel servizio sociale di una città dolente come Taranto , certo non ero l'operatore ma il politico, ma non ho potuto fare a meno di vedere e di toccare quotidianamente questa realtà.
Una violenza, spesso inaudita, sempre irrazionale, che si scatena contro tutto e tutti e di cui fa le spese chi è lì per lavorare, non per fare la guerra, chi per altro ha scelto un lavoro di cura di assistenza e di aiuto agli altri.
Così ho visto poveretti, uomini disperati, perché tossici in astinenza, o perché privi di qualsiasi speranza per sé e o per i propri figli acquistare liquidi infiammabili e minacciare di dare fuoco a se a agli atri, picchiare assistenti sociali, compiere atti di autolesionismo e infilare la testa in una vetrina rompendola, arrampicarsi su impervi balconi minacciando di buttarsi giù.
Minacciare con coltelli gli operatori, picchiare i vigili urbani, sfondare i portoni, attendere sotto casa funzionari ed amministratori della città per richiedere, minacciosamente, un aiuto che pure seguendo le regole della legalità e della giustizia non gli sarebbe negato.
Ma quello che è accaduto - mi si dirà - è un caso psichiatrico, imprevedibile. Forse, ma questa è solo una parte della verità, l'altra faccia della medaglia è che la cultura della violenza sta crescendo in maniera esponenziale in quella che definiamo una società civile.

Il Paese si impoverisce, aumentano gli emarginati, gli alcolisti, i drogati i senza cultura e mestiere, mentre scende la spesa sociale ed i servizi. In molti casi chi soffre è abbandonato a se stesso.
Scende la consapevolezza che ciascuno ha dei diritti di uomo e di cittadino, e cresce l'attesa che anziché un diritto si possa ottenere una raccomandazione, e se non si è in grado di averla, la si può carpire con la forza e con la prepotenza.
Man mano che la crisi si fa più grave l'asticella si innalza, per ottenere qualcosa occorre essere più raccomandati o più forti. Non stiamo facendo abbastanza per contrastare questa deriva, intanto perché - come giustamente sottolineava il sindaco Emiliano - i servizi alla persona hanno sempre meno mezzi e sempre meno operatori e sono pertanto sempre meno efficaci.
Un servizio socio sanitario che abbia i mezzi per seguire più assiduamente i propri assistiti, in molti casi è in grado di mettere in atto strategie che prevengano l'insorgere di episodi di violenza, ma l'altro aspetto è che le istituzioni, spesso, non innalzano un’adeguata barriera di protezione contro la violenza.
Mi esprimo meglio, per non creare equivoci. Non immagino una violenza di Stato da contrapporre a quella dei disperati, ma pretendo una maggiore prontezza anche delle forze dell'ordine, negli interventi di salvaguardia, che spesso sono tardivi o rivelano un atteggiamento di eccessiva tolleranza rispetto al violento, al contrario occorre svolgere un’azione culturale e dimostrativa, che mostri come gli atti sconsiderati non producano effetti di ottenimento di presunti diritti ma, al contrario, li facciano perdere.
Ed infine, una occorre una maggiore vigilanza, un assistente sociale o uno psichiatra per svolgere adeguatamente il proprio lavoro, dovranno necessariamente trovarsi da soli con i loro assistiti, ma gli adeguati presidi non potranno che ridurre e scoraggiare l'insorgere di episodi di disperazione e violenza.