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La morte di Alessio Viola: voce critica di Bari e della Puglia
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Amarezza e nostalgia si sono impadroniti oggi della mente e del cuore. Il mio amico troiano, Alessio Viola, ha deciso di tornare al Padre nel giorno del Solstizio d'Inverno.

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Lo sguardo critico sulla città e sulle dinamiche quotidiane della vita ne faceva un opinion leader - oltre che uno scrittore e un editorialista di prim'ordine - l'amore e la rabbia lo accumunavano ad un altro collega-amico, scomparso poco tempo fa, Enrico Fierro, col quale producemmo - con Alessio tra gli ospiti eccellenti - un ampio video-sevizio sulla realtà controversa del capoluogo pugliese, per 'Il Fatto Quotidiano' (Il link al video: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/27/italia-doc-su-loft-puglia-lottavo-video-reportage-sulle-regioni-italiane-il-viaggio-dalla-mala-del-garganico-al-teatro-di-tamburi/5750479/

L'impronta coriacea della sua scrittura - apprezzata, cercata e condivisa dai lettori con rispetto e ammirazione - saldava le radici nella passione per il rugby. La nobiltà dello sforzo e dell'impegno atletico nella più popolare delle discipline sportive.

Dopo la pubblicazione di "Ghiaccio" per la Casa Editrice Palomar, Gianfranco Cosma chiese a lui e a me di scrivere insieme "IL TACCUINO DI TROIA", ma Alessio era già proiettato su altri versanti e, alla fine, mi esortò ad andare avanti da solo: così nacque "EPISCOPIVS TROIANVS".

La tristezza, come la neve - cantava Battisti - cade e ci travolge senza fare rumore. Voglio ricordarlo con una delle più belle storie da lui scritte e raccontate, quando ricordava il mestiere del padre a Troia (Fg): il sarto.

Hasta la vida siempre, Alessio. Finché avremo forza continueremo a tenerti vivo nella mente, nei cuori e nella narrazione!

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MIO PADRE *

L’estate in cui morì il mestiere del sarto

Forse sarebbe cambiato tutto, il Maltese non sarebbe mai nato, se le svolte decisive della vita, di cui pure ricordavo di avere avuto coscienza, fossero state affrontate come meritavano. Da mio padre, prima. E da me, dopo.

Magari andarsene in America, come sembrava dovesse accadere, un’estate di tanti anni prima. L’estate in cui morì il mestiere del sarto. Che bel titolo sarebbe per un romanzo.

Sarà stata l’estate del ’61, o quella del ’60, le Olimpiadi di Roma. Sì, forse proprio quella. Berruti e Abebe Bikila si contendevano il primo posto nei sogni dei ragazzini, che vedevano la tivù in bianco e nero per un’ora al giorno, a casa del vicino, il padre di quello più fortunato del gruppo. Un sarto di paese non poteva ancora permettersi un televisore, ma bastavano quelli dei pochi fortunati.

Il Festival di Sanremo, un’adunata rumorosa e affollata. I film trasmessi la mattina per la Fiera del Levante, puntinosi e sfocati, ma con un sapore di esotico irresistibile: i primi geni dell’elettronica moderna, studenti dell’industriale, orientavano antenne di fortuna verso Bari, e lo stabilizzatore - un cubo di ghisa pesantissimo - dava con il suo interruttore d’acciaio il via libera ai sogni mattutini in bianco e nero.

I sarti erano una categoria rispettata, in paese. Gli unici mestieri erano quelli della campagna. Ci viveva il 90% della gente. La sera, quando i bambini finivano stremati i giochi all’aperto - combattimenti selvaggi, guerre a pietrate, gare di tiro con l’arco, massacri di uccelli e lucertole -, il ritorno a casa, sudati e sporchi da fare pena, era accompagnato dal rumore dei carri, dallo scalpellare degli zoccoli degli animali sulla strada, dall’odore di erba tagliata, di camomilla, di fieno e paglia che riempiva le strade e le narici, e delimitava il pensiero e i sogni. Il ritorno a casa era anche il ritorno alla dignità del rango sociale.

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Un sarto non è un contadino, e dunque lavaggio, cambio di pantaloncini, merenda con pane e marmellata. A quell’ora, al vespro, solo i contadini si sedevano a tavola per la cena, unico pasto della giornata. Gli altri, i pochi privilegiati, cenavano come si fa in città, alle otto, più o meno. Dopo, il sarto riprendeva a lavorare. Tagliare, imbastire, allestire le prove degli abiti. Che erano due, anche tre, a seconda della difficoltà dell’abito e della conformazione del cliente.

Al bambino toccavano alcuni compiti leggeri. «Spastire» le imbastiture di cotone bianco, che segnavano la prima traccia di confezione dell’abito. Un neologismo stupendo, inventato non si sa da quale sarto, per dire di quando si toglievano i punti grossi e si passava alla cucitura a macchina, che seguiva quella a mano, accurata e lieve.

Una Singer che era stata fiammante, subito dopo la guerra, teneva testa da par suo all’abilità delle mani del sarto, ne accompagnava i gesti, faceva con il suo ritmico ticchettare da colonna sonora a giornate di lavoro che iniziavano, puntualmente, alle cinque di ogni mattino, per concludersi nel cuore della notte. Era l’ultimo rumore che sentivo prima di addormentarmi. Le voci di mia madre, di mio padre, che piano accompagnavano la Singer nel suo meccanico stendere i punti di un nuovo vestito. Alla fine dell’impresa, mia madre si accollava la pena di confezionare le asole, una ad una, con un filo di seta in tono con il colore dell’abito.La confezione di quei vestiti accompagnava il trascorrere

delle stagioni, segnava le tappe di vita e di morte del paese. Dai mini smoking delle prime comunioni al primo abito a vent’anni. Dai vestiti per la festa a quello per il matrimonio. E poi, l’estenuante pratica del «rivoltare», il recupero parsimonioso di un bene, gli abiti, che a pochi anni dalla fine della guerra era prezioso quanto la carne in scatola e le gallette degli americani, che ancora costituivano grande parte della dieta alimentare di quel paese.

Si recuperava la parte interna del cappotto o della giacca, veniva inserita una fodera nuova, e in famiglia il più piccolo indossava un abito praticamente nuovo. Pura ingegneria sartoriale. Anche i morti ricevevano le cure del sarto. Accadeva quando moriva qualcuno all’improvviso, e non c’era stato il tempo di preparare il corredo funebre che tutti, prima o poi, commissionavano in vista dello scontato epilogo della loro storia. Abiti preparati in due ore, messi insieme con punti larghi, da far indossare da sopra, senza la possibilità di farli scorrere come si fa normalmente.

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Un sudario scuro, austero, confezionato a mano. In estate, per la festa patronale, un tripudio di abiti blu e marrone, pesanti e impegnativi. Certo, il fatto che la festa fosse in pieno luglio non aiutava, ma i bifolchi si ostinavano a non ascoltare i consigli del sarto: un abito di lino, o di cotone, chiaro, sarebbe perfetto. Niente, abito scuro, e di lana. Una festa è una festa, e va rispettata. Il mio compito era quello della consegna a domicilio di quegli abiti.

Accuratamente stirati, piegati con amore e coperti con un telo leggero, li portavo orgoglioso a casa del cliente, senza dimenticare gli «spezzoni», avanzi di stoffa o di fodera, che sarebbero tornati utili per tutte le riparazioni che nel corso del tempo avrebbero tenuto in vita quell’abito. Una mancia sostanziosa, intorno alle cento lire, compensava la consegna, e garantiva cinema pomeridiano e gelati per il sabato e la domenica, che tutti ignoravano fossero il «week end».

C’era una sorta di sintonia, un rapporto di complementare imprenditorialità con un paio di commercianti che vendevano tessuti. In genere, il cliente sceglieva duetre campioni, li portava dal sarto, tornava dal negoziante, comprava la quantità di stoffa consigliata, la riportava, e partiva l’operazione vestito. Era una sorta di impresa di rete, un piccolo giro di economia integrata, che funzionava a meraviglia, produceva reddito, e soddisfazione petroniana nei contadini in piazza con il vestito nuovo.

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Quell’estate, quella, calda come le estati che portano sulla collina il soffio di un tavoliere fornace all’aria aperta, quelle in cui, a sera, bruciano a perdita d’occhio i campi appena mietuti, e la mattina l’odore aspro e buono delle «ristocce» si diffonde per i vicoli del paese, quell’estate fottutamente calda e olimpica spezzò il ritmo immutabile del vestirsi, e tanto altro ancora. Il commerciante, guadagnandosi un odio eterno e viscerale, rifece la vetrina del negozio. Sparirono i tagli di stoffa, i rotoli colorati che drappeggiavano manichini muti e compiacenti, le sinuose pieghe del taffettà per le signore, gli spigati che sapevano di campagna inglese, i cotoni leggeri che avrebbero coperto le spalle delle ragazze che andavano per la vendemmia, le pesanti volute di lana che sarebbero diventati cappotti invincibili nella sfida con il freddo subappenninico.

Di colpo, i manichini furono rivestiti di abiti «confezionati». Orrendi vestiti grigio fumo in terital, cappotti degni di un politburo sovietico in pesante lana sintetica, giacche dai risvolti inquietantemente lucidi e lisci, maglioni che strappavano il cuore delle madri che si vedevano espropriate del loro diritto secolare a rivestire i consanguinei col lavoro di inverni lunghi e produttivi. Entrare, scegliere, pagare e indossare. Tutto in pochi minuti, al massimo un’ora, necessaria a un consulto familiare che riuniva nel negozio mogli padri e figli. Poi a casa, senza prove e senza attese, il progresso compiva l’ennesimo miracolo.

I pochi sarti avevano cercato di resistere. Si erano industriati a velocizzare il lavoro, avevano anche tentato di integrare l’attività con qualche accessorio pronto, camicie, biancheria. Niente da fare. Si ritrovarono come i cocchieri disoccupati dopo l’avvento del vapore, come i maniscalchi inutili nell’epoca delle auto, come i produttori di cercapersone all’irrompere dei telefonini. Emigrare era la sola via d’uscita consentita loro. Milano, Torino, Germania, Svizzera.

Avevo perso, negli ultimi anni, quasi tutta la mia prima classe elementare. Ad ogni primo ottobre, qualcuno mancava all’appello. Il cuore si stringeva, ma noi no, non saremmo emigrati. Quando fummo costretti a farlo, andammo a sud, nella grande città di mare dove forse ancora qualcuno aveva voglia di farsi confezionare un abito dalle mani lisce, curate, premurose, di un sarto gentile.

(da "Closin' Time - Notti al Maltese" di Alessio Viola - Laterza Edz.)

Anche il Sindaco di Bari, Antonio Decaro - tra i tanti messaggi di cordoglio succedutisi dopo la triste notizia, - ha voluto far sentire la sua vicinanza: "Ciao Alessio. Questa mattina hai scritto la tua ultima pagina lasciandoci, come sempre, tanti motivi per riflettere. Non siamo mai stati compagni politici, anzi: ci siamo scontrati spesso, sulle pagine dei giornali e faccia a faccia. Non mi hai mai risparmiato critiche, a cui ho sempre voluto rispondere, perché la tua opinione non è mai stata fine a se stessa o autoriferita. Abbiamo discusso della città, della politica, della nostra idea di governo".

"Ci siamo incontrati diverse volte negli ultimi anni. Ci siamo anche abbracciati, perché ci volevamo bene. Ingenuamente ho pensato la malattia ti avrebbe reso più indulgente nei nostri confronti ma niente da fare, severo fino alla fine! Meglio cosi, perché oggi posso dire che a Bari mancherà una voce critica, acuta e ironica, capace di cogliere le ombre più oscure di questa città, anche quelle che a volte si celano dietro il potere. A Bari mancherà la tua intelligenza, Alessio. E a me mancheranno le tue critiche da uomo libero".

“La scomparsa di Alessio Viola mi addolora molto. Scrittore e giornalista appassionato e leale, Alessio ha sempre cercato di utilizzare la scrittura come grimaldello dei tempi, sempre capace di ascoltare, di scardinare, di denunciare e al contempo di costruire".

Anche il presidente Michele Emiliano ha volito confortare i famigliari e ricordare la figura di Alessio Viola: "Mi unisco al dolore di quanti lo hanno conosciuto e apprezzato. Alla famiglia, ai colleghi, ai suoi cari, giunga il mio sincero cordoglio unito a quello dell’intera comunità pugliese”.

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Non ce l'ha fatta ad aspettare la vigilia di Natale per assaggiare il Nero di Troia - di cui era estimatore attento nelle svariate declinazioni - prodotto anche in suo onore. Motivo in più per ricordarlo con affetto nei brindisi augurali di questi giorni.  Un abbraccio fortissimo, Alessio!

(gelormini@gmail.com)

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