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La tradizionale arte del "riuso" in cucina (di Antonio V Gelormini)

Pane raffermo, qualche oliva e un po’ di formaggio. Per intere generazioni di contadini è stato il pasto regale, tra fatica e sudore, nell’inesauribile dedizione alla liturgica e quotidiana dichiarazione d’amore per la propria terra. Talvolta accompagnati dal carattere forte e dolce di una cipolla. Non sempre ravvivati dalla genuinità di un acceso e corposo bicchiere di vino. Si ringraziava Domine Iddio per la garanzia dell’essenziale e, con quel poco che si riusciva ad avere in casa, la creatività in cucina non conosceva confini. Piatti, ricette e menu nascevano dall’improvvisazione fattasi virtù. Capaci di resistere alla sfida del tempo e all’attacco della modernità.

Pane tradizione
 

Capolavori che vivono ora una sorta di Rinascimento, anche in assenza dell’autentico e straordinario presupposto che tutto muoveva: la fame. Oggi non si ha più fame. Almeno in questa parte di mondo che consuma l’80% di risorse esistenti, pur rappresentando solo il 20% della popolazione mondiale. Laddove non si produce più in funzione dei fabbisogni, ma si corre per consumare e svuotare i magazzini. Si corre perché non si ha tempo di assecondare i cicli della natura. Si corre perché rapiti da un’assurda e vorticosa produzione di desiderio, indispensabile al sostegno di una domanda che si perde nel superfluo.

Dopo aver perso la cognizione delle stagioni, il gusto dei sapori e la familiarità col proprio territorio, si dimostra vincente e apprezzabile la decisione dell’Accademia Italiana della Cucina di dedicare su proposta del Centro Studi “Franco Marenghi”, il tema degli “Itinerari di Cultura Gastronomica 2016” alla  LA CUCINA DEL RIUSO - perché: Contro lo spreco, la tradizione familiare propone gli avanzi con gusto e fantasia.

Scelta che esalta e accompagna l’invito insistente della chiocciola di Slow Food, a riappropriarsi della lentezza, quale stimolo al recupero di una dignità smarrita. La dignità della terra e dei suoi processi biologici spontanei. La dignità di un’agricoltura che ci possa ridare il piacere lento e intenso dell’assaporare. La dignità della qualità per la salvaguardia del benessere comune, nonché di quello strettamente personale.

1956 Cattedrale Troia
 

Avrei voluto corredare questa piccola relazione con una serie di foto piuttosto suggestive, ma i tempi sono ristretti e, provando a resistere alla spinta che ci costringe ancora una volta  “a correre”, ve ne mostro soltanto una: la foto Cattedrale di Troia con l’unità di misura della ‘pagnotta’ o ‘panetta’ da 5 Kg., nella pietra incava a lato del portale bronzeo sulla sua facciata principale.

Pane Troia
 

Ovviamente la testimonianza più caleidoscopica della “filosofia necessaria” del RIUSO IN CUCINA resta quella del pane. Il pane misurato nella forma lasciataci “nei secoli dei secoli” sulla facciata della Cattedrale troiana, che doveva resistere e “tenere” almeno una settimana, non di quello ricco di micro-tossine, che già un paio di giorni dopo l’acquisto cambia i colori della mollica nelle varianti di un arcobaleno alquanto allarmante.

Pane alla birra 1
 

La mollica rafferma di quel pane - arricchita di volta in volta da aglio, prezzemolo, capperi, acciughe, formaggio - era indispensabile per i ripieni dei peperoni, dei carciofi, e ancora di seppie, cozze e calamari. O per farne polpette da annegare nel sugo di pomodoro o friggere come croquette. E quando dopo una settimana quel pane tendeva ad indurirsi: era buono per inzupparlo nel caffellatte a colazione, per essere bagnato e riproposto in irresistibili fette di ‘pane e pomodoro’, o spezzato nelle varianti territoriali dell’acquasale e nella preparazione del piatto principe della tradizione contadina: il ‘pancotto’ spesso “maritato” con gli avanzi nobili delle verdure scelte e con quelli più grassi del lardo o degli insaccati, dato che non sempre si disponeva in famiglia di olio extravergine d’oliva; sempre accompagnati - però - da foglie di lauro e spicchi di aglio.

Laboratori di pasta fresca
 

E che dire della pasta e del ragù, che volutamente si preparavano a pranzo ad abundantiam, per poterla riscaldare la sera a cena e talvolta buona anche il giorno dopo. O delle stesse briciole di pane che, prim’ancora che nei claustri o nei cenobi ne venisse raccomandata la raccolta - per farne un tortino/frittata con uova, prezzemolo e formaggio - da sempre venivano “sparse al vento” dalle nostre nonne, per la gioia di rondini e uccelli, che animavano cieli e balconi dei nostri paesi.

E ancora dei ‘frunn’ - gli scarti - delle verdure, buoni per arricchire il brodo vegetale o da regalare a chi aveva animali da cortile - spesso in casa - che di solito poi ricambiava con uova a Pasqua o con quale piccola forma di caciotta a Natale. Del caffè nelle piante o da riusare nella preparazione di dolci e crostate, insieme alla granella dei biscotti raccolta dai vasi o dal fondo delle scatole che li custodivano. O delle scorze di formaggio per insaporire le minestre di legumi.

mele cotogne
 
Mariano ortaggi
 

E poi le teste dei pesci e dei crostacei per la preparazione di profumati brodetti. Fino alla quint’essenza della fantasia meridiana, nell’adattamento alle ristrettezze quotidiane della vita: quella che in Puglia, e non solo, “immagina” e crea un piatto come gli spaghetti al ‘pesce fujuto’.

La tradizione, quindi, che si perpetua assumendo un alto valore antropologico. Per cui, cucina del riuso significa anche recupero delle abilità che le massaie avevano in ambito rurale: mamme o donne di casa, che sapevano come mettere a tavola - con poco - schiere di figlioli, aumentando il volume di ciò che portavano sulla mensa, e arricchendoli con quanto la campagna metteva a disposizione, stagione per stagione.

E’ di questi giorni l’approvazione unanime e a tempo di record della legge che offre sgravi fiscali ai ristoranti, negozi alimentari, supermercati o mense aziendali che donano gli alimenti invenduti.

E’ il filo, nemmeno troppo sottile, cardato, tessuto, ritorto e intrecciato, che si fa trama di tradizioni, usi e consuetudini tra territori adiacenti e metafora quotidiana del gioco di sponda tra mare ed entroterra. Un canovaccio senza tempo, di antica sapienza contadina, capace di raccontare e rivitalizzare l’impronta identitaria di aree e comunità di questa parte d’Italia, che salda il Subappennino Dauno e il Promontorio del Gargano, alla Murgia barese alla Valle d’Itria e alla penisola del Salento.

FOTO contrada cimbra della lessinia veronese e vacche al pascolo (zona produzione formaggio Monte Veronese DOP)
 

E’ il filo che si dipana lungo il labirinto tracciato da migrazioni d’ogni sorta: da quelle delle greggi, che dalle altitudini dell’Abruzzo e del Molise scendevano nelle più miti pianure del Tavoliere pugliese, a quelle podoliche e stanziali delle mandrie murgiane o a quelle meno evidenti delle colonie marine, che ravvivano le correnti pescose delle coste pugliesi, fino a quelle della manodopera nomade di donne e uomini, che sciamano tra vigneti, oliveti e campi di pomodori, angurie e carciofi.

La nervatura di un sistema territoriale a vocazione agricola, che col suo patrimonio di tradizioni, di storia, di prodotti e di relativi sapori, ripropone oggi un’originale offerta turistica a forte contenuto ambientale ed eno-gastronomico, nonché ricca di opportunità didattiche, per appassionati della natura, viaggiatori, camminatori, cicloamatori e soprattutto per famiglie, anche se non più molto ricche di ragazzi e bambini.

sapori in collina
 

Lungo queste direttrici continua a svilupparsi una vera e propria “civiltà della transumanza”. Una realtà socio-economico-rurale che ha favorito insediamenti umani, ha inciso nell’assetto complessivo del territorio, ha disegnato nuovi modelli del panorama rusticano, avviando relazioni interregionali e contaminazioni culturali fortemente influenzate dai periodici movimenti migratori.

In questo senso il “turismo del sapore”, realtà consolidata a livello nazionale ed europeo, diventa lievito, siero, sale e companatico dei turismi possibili e trova una nuova e, forse, più consona declinazione nelle cosiddette “Terre dei tratturi”, nei “Cammini e itinerari devozionali “ nei “Percorsi del sapore” e nella suggestione delle proposte del “Turismo esperienziale”.

fattoria della mandorla mandorle di toritto
 

In questo dedalo di ‘sentieri’ le moderne ‘stazioni di posta’ mostrano insegne talvolta poco evidenti, altre volte decisamente più conosciute, come il Piano Paradiso e Villa Jamele di Peppe Zullo ad Orsara di Puglia (Fg), la Masseria Storica Pilapalucci immersa tra i mandorli di Toritto (Ba) o i vigneti di Gianfranco Fino tra Sava e Manduria nel Salento ionico. Il loro richiamo fatto di storia, di buongusto, di profumi, nonché di genuinità e qualità del prodotto e del servizio, diventa irresistibile appena se ne entra nel raggio d’azione territoriale.

Mangiar sano in una terra come la Puglia, solcata da ogni sorta di tratturi e attraversata da lunghe e cicliche transumanze, baciata dal sole e da una luce senza eguali, protesa verso un mare denso di sale, di storia e di civiltà, significa mangiare Mediterraneo. Un regime alimentare adottato ormai come modello diffuso. Una filosofia “cafona” con l’idea del cibo come cultura. Perché dietro l’alimentazione contadina c’è tutta la storia di una comunità locale, regionale o nazionale. Perché la cucina di un territorio, con tutte le sue variopinte declinazioni, è pietra angolare della sua più intima identità.

peppe zullo cesto verdure
 

Non più nostalgia, quindi, ma affermazione di identità. In un'ottica di diffusione dell'uso collettivo delle cose, dallo scambio del tempo allo sharing diversamente declinato, la cucina del riuso può essere inserita nella corrente di quel nuovo atteggiamento “eco-sostenibile”, chiamato anche “Sistema decrescita”.

Tutte le specialità da riuso, comprese quelle che la fantasia creativa degli chef - moderni “oracoli del Km. 0” - ci fanno scoprire quotidianamente, insieme alle fatidiche eccellenze di questi territori, che rendono la cucina di Puglia ”unica”, sono gli attori protagonisti e i cantori di una ineguagliabile recita a soggetto. Che qui in Puglia va in scena ogni qualvolta ci si siede a tavola, e ci si appresta a celebrare il più antico dei riti quotidiani.

Volerne salvaguardare il suggestivo valore simbolico e l’intrinseco concentrato di gusto e di espressività, è voler bene a questa terra. Voler bene a se stessi e testimoniare l’amore smisurato per chiunque voglia onorare la nostra tavola, sedendo con noi per condividere tale incommensurabile ricchezza di sapori poveri.

(gelormini@gmail.com)

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