"Dopo Mafia Capitale non è cambiato nulla". Così le bande criminali si sono mangiate Roma
Oltre trecento i fascicoli aperti dall'antimafia in appena un anno, migliaia di indagati in odor di mafia: la fotografia della "Mala Roma" la scatta la relazione annuale sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.
Sono complessivamente 366 i procedimenti iscritti e attribuiti alla competenza della Procura distrettuale antimafia e antiterrorismo del distretto di Roma, nel periodo compreso tra il 1 luglio 2014 e il 30 giugno 2015. Dei 355 procedimenti iscritti, si legge nel documento, "321 a carico di soggetti noti, per un totale di 1729 indagati, e 45 a carico di ignoti. Dei 366 procedimenti, 20 hanno riguardato associazioni di stampo mafioso per un totale di 154 indagati, mentre 67 hanno riguardato le associazioni finalizzate al traffico di stupefacenti per un totale di 497 indagati". Inoltre, stando ancora ai dati inseriti nella relazione, nello medesimo periodo, "sono state richieste misure cautelari a carico di 619 persone ed il rinvio a giudizio o il giudizio immediato a carico di 396 imputati".
"Nel Lazio, e soprattutto a Roma, le organizzazioni mafiose non operano secondo le metodologie criminali che connotano le loro manifestazioni nei territori d’origine, dove il linguaggio delinquenziale ed il messaggio criminale passano necessariamente attraverso minacce, intimidazioni, richieste estorsive e atti di aggressione fisica". E' quanto affermato nella relazione annuale della Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo, in merito alle modalità con cui le mafie tradizionali operano sul territorio laziale e della capitale. Attestata "l'operatività di soggetti o gruppi che rappresentano le dirette proiezioni" sul territorio della regione "di tutte le organizzazioni mafiose tradizionali", nel Lazio "deve darsi conto della presenza di altre realtà criminali che pure si qualificano mafiose. In questo caso, "si tratta di sodalizi caratterizzati dall'allentamento dei legami con la consorteria di origine, al punto da avere acquisito una sostanziale autonomia dalla cosiddetta 'casa madre', che hanno dato luogo ad associazioni autonome. Inoltre, come ormai noto, si legge ancora tra le pagine della relazione, sono presenti nel Lazio "sodalizi mafiosi autoctoni".
La “migrazione degli interessi delle mafie verso Roma" - si sottolinea nel testo - è anche favorita dalla tipologia criminale del Lazio dove, dopo la “banda della Magliana”, nessuna aggregazione criminale ha mai assunto un atteggiamento egemone sulle altre, e dove la criminalità comune non appare fortemente radicata e strutturata. Infatti la malavita romana è tradizionalmente impegnata nelle attività di usura, gioco d’azzardo e commercio di stupefacenti, e non ha mai manifestato una specifica inclinazione alle attività di reinvestimento. Ciò comporta che le mafie non hanno alcuna necessità di contenderle i comparti economico-imprenditoriali. A Roma dunque, le organizzazioni mafiose tradizionali (soprattutto ‘ndrangheta e camorra) acquisiscono – tramite i loro “rappresentanti” - immobili, società ed esercizi commerciali nei quali impiegano ingenti risorse economiche provenienti da delitti, dotandosi così di fonti di reddito importanti e apparentemente lecite".
"Benché il gruppo" dei Casmonica "sia tra i più attivi e radicati tra quelli operanti sul territorio della capitale, ad oggi non vi sono procedimenti che abbiano dimostrato l’esistenza di un’unica organizzazione criminale a connotazione mafiosa e di tipo verticistico, riconducibile ad uno o più capi - si legge in un passo della relazione annuale stilata dalla Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorsimo, dedicato alla famiglia di nomadi -ormai stanziatasi a Roma già dagli anni 70- dei Casamonica. "La lettura dei dati giudiziari fin qui acquisiti -si legge ancora nel documento- fotografa l’esistenza di più gruppi criminali, a connotazione familiare, operanti in varie zone della capitale e del Lazio, dotati di una propria autonomia decisionale ed economica, e dediti soprattutto allo spaccio di stupefacenti, ma anche all’usura, alle estorsioni e alle truffe".
La forza di intimidazione della consorteria criminale capeggiata da Carmine Fasciani è ben testimoniata "dall'assenza di denunce e dal tenore delle dichiarazioni rese a seguito degli atti intimidatori posti in essere". E' quanto affermato nella relazione annuale compilata dalla Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo. Nel documento, a suffragio di tale tesi, viene citato un passo della sentenza con cui, lo scorso 30 gennaio, il tribunale di Roma ha riconosciuto la connotazione mafiosa del sodalizio guidato da Carmine Fasciani, condannato a 28 anni di reclusione. La mancanza di denunce nei confronti del clan, le testimonianze rese dalle vittime, scrive il tribunale “…attestano un generalizzato e diffuso clima di paura, che investe pesantemente e coinvolge la società civile, e denota come l’associazione del Fasciani avesse già realizzato un profondo inquinamento del territorio, assoggettandolo al suo dominio criminale e devastandolo nella sua legalità”.
Sodalizi mafiosi autoctoni come quello capeggiato da Carmine Fasciani, ad Ostia, mettono "in evidenza la capacità di tali sodalizi di utilizzare le metodologie ritenute più idonee e perseguire gli scopi ritenuti più remunerativi in relazione alle caratteristiche socio economiche del territorio". E' quanto affermato nella relazione annuale della Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrosimo in merito alle modalità con le quali gruppi criminali originari del Lazio e di Roma operano sul territorio. "In una città come Roma, una città di servizi e di attività terziarie - si legge nel documento - gli affari più lucrosi si fanno appunto attraverso l’acquisizione e il controllo di tali servizi e attività, e dunque attraverso l’infiltrazione sistematica sia nei settori economici e commerciali sia soprattutto negli appalti e affidamenti pubblici". Una tipologia di attività criminale che, se per quanto riguarda i Fasciani trova riscontro nelle vicende legate alla "gestione degli stabilimenti balneari sul litorale, nel caso dell'associazione Capeggiata da Massimo Carminati -ancora a processo nell'ambito dell'inchiesta Mafia Capitale- sarebbe rintracciabile nella "acquisizione di appalti e affidamenti in variegati settori, in favore delle società cooperative controllate dall'organizzazione".
"Solo per il procedimento 'mafia capitale' sono stati sequestrati beni per circa 360 milioni di euro". E' quanto affermato nella relazione annuale compilata dalla Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo. Nel documento, che prende in esame il periodo che va dal luglio 2014 al giugno 2015, viene sottolineato come, sia salito il valore dei patrimoni mafiosi sequestrati rispetto allo scorso anno, quando si era attestato intorno ai 180 milioni. "Tra i provvedimenti più importanti -si legge nel documento- oltre a quello appena citato, va ricordata la misura di prevenzione applicata nei confronti di Ernesto Diotallevi, storico esponente della “banda della Magliana”. Il decreto di confisca ha consentito di acquisire quote societarie, capitale sociale e intero patrimonio aziendale di 10 società di capitali; 46 unità immobiliari di rilevante valore, tra cui l’abitazione di famiglia in Piazza Fontana di Trevi, nonché una villa nell’isola di Cavallo in Corsica, oltre a depositi bancari e numerose opere d’arte per un valore complessivo di oltre 27 milioni di euro".
Fin da ora si può però trarre un’amara conclusione: l’ampia risonanza dell’inchiesta" Mafia Capitale "non ha inciso in modo significativo nel fondamentale settore degli appalti e degli affidamenti pubblici, e non ha costituito un deterrente per il ricorso alla corruzione. L'indagine - si legge nel documento ancora in relazione all'inchiesta Mafia Capitale - ha avuto il grande merito di focalizzare l'attenzione sulla situazione criminale della Capitale, che attraversa, tra l'altro, un periodo di particolare esposizione in vista dell'evento del Giubileo". Malgrado ciò, sottolinea il consigliere Diana De Martino -relatrice per il distretto di Roma- Le inchieste giudiziarie più recenti quali quella sull’Anas, ovvero la principale stazione appaltante del paese (che ha colpito il direttore aggiunto centrale, preposta al coordinamento degli affari amministrativi, la quale, unitamente ad alcuni funzionari, pretendeva tangenti per qualsiasi attività svolgesse), o sull’ospedale israelitico (in cui era prassi rappresentare nelle cartelle cliniche prestazioni non eseguite allo scopo di ottenere dalla Regione rimborsi superiori a quelli dovuti), hanno documentato, in termini di assoluta certezza ed ancora una volta, come la corruzione sia diffusa e radicata al punto da essere ormai “sistema” .
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