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Roma
Famiglia, amore e odio: “Festa di Compleanno”, quinto racconto firmato Soares

“La Festa di Compleanno” è il quinto racconto tratto da “La piega del tempo” di Adriana Soares, fotografa, pittrice, poetessa e scrittrice di racconti per piccoli e per grandi e prossima romanziera (è in uscita per l'estate prossima il suo primo romanzo).

 

"La Festa di Compleanno" rappresenta la summa dell'affresco senza sconti dell'ambiente familiare, spesso ipocrita e opportunistico, i cui membri celebrano il compleanno della vecchia nonna quasi centenaria che li disprezza. L'autrice dipinge questo coacervo di sentimenti fasulli con tratti vividi da vera "comédie humaine" con una prosa lucida e efficace che mette a nudo le meschinità insite nell'animo umano.

LA FESTA DI COMPLEANNO

Tutta la famiglia stava arrivando un po’ alla volta. Quelli che arrivavano dall’Eur si erano vestiti di tutto punto, perché quella visita aveva una doppia finalità: una bella occasione di fare una gita al centro di Roma e quella di festeggiare il compleanno della “madre di tutti.”

La nuora dell’Eur era vestita di blu e bianco. Scelse un vestito molto elegante e sobrio che aveva dentro l’armadio. Per ovvi motivi suo marito si era ben visto dal venire: non voleva vedere i suoi fratelli. Ciononostante, mandò sua moglie per evitare che tutti i lacci della famiglia si spezzassero del tutto.

Così, la moglie aveva scelto il suo vestito migliore per mostrare che non avevano bisogno di loro; e si fece accompagnare dai due figli: un maschio e una femmina, tutt’e due vestiti a festa. Teresa, la figlia single con cui la festeggiata viveva da anni, da quando era diventata vedova, aveva sistemato le sedie lungo le pareti, come se avesse voluto lasciare spazio al centro della stanza per i balli. Era più un augurio che una cosa fattibile nella realtà.

La nuora della festeggiata, dopo i saluti doverosi e i complimenti fatti con un sorriso tirato e poco convinto, si sedette pian piano su di una delle sedie all’angolo della stanza e vicino alla porta, come se avesse scelto un luogo strategico per essere pronta a fuggire all’indiana appena fosse stato possibile.

Si sedette lì, dritta come un fuso con le gambe unite e i piedi incrociati e le mani l’una sull’altra appoggiate sul grembo, come richiedeva il bon ton e con l’espressione severa con la bocca a culo di gallina, dicendo a Teresa a mezza bocca: “Sono venuta solamente perché dovevo.” Lo disse come se avesse ricevuto un torto per esser stata invitata. I poveri figli, non sapendo come atteggiarsi, per sicurezza rimanevano in piedi come due stoccafissi accanto alla loro madre. Rimasero così a lungo in quella posizione che sembravano più due statuine di porcellana che due gemelli sani di sette anni.

Poi arrivò la nuora di Monte Mario, con i tre figli e la silenziosa baby sitter peruviana. Il marito li avrebbe raggiunti dopo. La nuora di Monte Mario, dopo aver salutato tutti, si sedette nella fila di sedie al lato opposto, facendo finta di darsi da fare col bambino nella carrozzina, per evitare di dover conversare con la cognata dell’Eur. Con un pretesto mandò la baby sitter in cucina dietro a Teresa, unica figlia femmina di quattro fratelli, per dare una mano alla domestica che sudava in cucina, non abituata a tutta quella gente e soprattutto a quel carico di lavoro. Infatti, durante l’anno, non veniva mai nessuno a trovarle. Quella era l’unica occasione dell’anno in cui erano soliti riunirsi tutti.

Si affrettavano a ultimare i preparativi, infornando e sfornando pizzette, crocchette, tramezzini, formaggi e miele, mignon e crostate alla frutta. La festeggiata era seduta a capo tavola con l’aria più perplessa che felice per i suoi novantanove anni. Teresa, la padrona di casa, aveva apparecchiato la tavola il giorno prima, si era preoccupata di collocare sul tavolo e sui tavolini sparsi per casa dei tovaglioli di carta e dei bicchieri di plastica, considerando i numerosi parenti e invitati.

Aveva sparso per tutta casa, palloncini con la scritta: ”Happy birthday!” Al centro del tavolo della festeggiata, aveva disposto l’enorme torta bianca e rosa in glassa.

Lavorava dal giorno prima in modo da non ridursi all’ultimo. Aveva provveduto a rinchiudere i gatti nella zona notte, onde evitare che facessero lo slalom tra i piatti, i bicchieri e i tovaglioli. Aveva vestito la festeggiata subito dopo il pranzo, per avvantaggiarsi.

Le aveva fatto indossare il suo vestito preferito di pizzo bianco, sembrava più una sposa che una signora che festeggiava i suoi novantanove anni.

Le aveva legato i suoi lunghi capelli candidi in un grande chignon, che la madre era solita farsi da sola anni addietro, dopo averle fatto le onde che amava tanto ad incorniciarle il volto.

Le agganciò la sua spilla di smeraldi e perle nere e la sua collana di perle grigie. Infine, le spruzzò un po’ di violetta di Parma per nascondere l’odore di stantio.

Poi, la aiutò a sedersi a tavola.

La povera signora fu fatta sedere davanti al tavolo vuoto per due ore, intenta, in attesa nel salotto silenzioso.

Ogni tanto si destava e sistemava i tovaglioli vicino a se, o si muoveva in risposta al rumore della strada per il passaggio di qualche macchina.

O cercava di allontanare con la mano, le mosche che svolazzavano vicino alla torta e a se.

Fino alle quattro, non entrarono le nuore dell’Eur e di Monte Mario.

Quando la nuora di Monte Mario realizzò che non avrebbe sopportato neanche un minuto in più, il fatto di restare seduta davanti alla cognata dell’Eur, che memore delle grandi offese subite, non vedeva il motivo di dover salutare o trattare la nuora di Monte Mario.

Finalmente, entrò Francesco con la sua famiglia. Si scambiarono un bacio finto e lesti saluti.

Pian, piano, la stanza iniziò a riempirsi di gente rumorosa che giustificava il proprio ritardo per il traffico o per il fatto di aver dovuto fare otto rampe di scale per raggiungere il quarto e ultimo piano, per via dell’ascensore guasto.

Purtroppo, l’amministratore era fuggito con la cassa e così i condomini stavano condividendo un momento di transizione sofferta.

La stanza si riempiva, mentre i bambini correvano su e giù, insofferenti e incuriositi dai tanti cimeli e statuine di cristallo raffiguranti animali, facendo scoppiare ogni tanto dei palloncini.

I muscoli del volto della festeggiata non interpretavano più il suo stato d’animo e così nessuno riusciva più a capire se era felice, annoiata o stesse semplicemente reagendo alle sollecitazioni caotiche dell’ambiente.

Effettivamente era contenta, almeno per il momento.

Seduta a capo tavola, si ergeva una donna alta, austera a tratti, un po’ grassoccia e dalla pelle ambrata.

Guardava dritto negli occhi gli invitati, almeno all’inizio.

Ora si trovava lì a capotavola, col suo scheletro immenso e appesantito dal grasso, dalla pelle floscia e forse, dalla sua coscienza.

Era più simile a una lumaca senza guscio che a una persona.

Eccola lì, sola, in una stanza piena di gente.

Il suo unico pensiero sembrava il dover sistemare i tovaglioli artigliati con la punta delle dita svuotate, ossute, quasi trasparenti e rattrappite.

Ogni tanto, si puliva la saliva agli angoli della bocca con un fazzoletto di pizzo ingiallito.

“Novantanove anni, caspita!” disse Francesco, il maggiore dei cinque figli, ora che Nino era morto.

“Novantanove anni!”

“Novantanove anni!” Continuava a ripetere sfregandosi le mani.

In quel momento ci fu un silenzio strano, perché tutti si misero a fissare la festeggiata con un’aria quasi solenne e ufficiale, smaccatamente finta. Alcuni invitati abbassarono il capo in segno di rispetto o quasi, come se la situazione fosse già un ricordo. Ogni anno che veniva superato dalla festeggiata, sembrava una tappa vissuta da tutta la famiglia.

“Sissignore!” Alcuni affermavano timidamente.

“Novantanove anni! È un fiore!” Gridò con aria divertita e nervosa, Emanuele, il socio di Francesco. Mentre tutti ridevano, tranne sua moglie.

L’anziana non si manifestava. Restava lì, immobile, con lo sguardo vacuo.

Alcuni non le avevano portato alcun regalo, altri invece, profumi, saponette, fiori, bottiglie di vino riciclate, una spilla di strass rossi e blu elettrico. Nulla che Teresa potesse utilizzare per sé e nulla che la festeggiata potesse utilizzare o apprezzare.

La padrona di casa guardava i regali con un sorriso amaro.

“Novantanove anni!” Continuava a ripetere meccanicamente Emanuele guardando sua moglie, con aria quasi di sfida, ma non se ne capiva il motivo, mentre lei continuava a ignorarlo con aria critica.

L’anziana continuava a non manifestarsi, dietro a quello sguardo spento e lattiginoso per la cataratta.

Il suo unico pensiero era quello di sistemare i tovaglioli piegati, spargendoli per il tavolo con la punta delle dita magre e raggrinzite, e, con l’altra mano, asciugare la saliva che le colava dai bordi della bocca col suo fazzoletto di pizzo ingiallito. Dunque, a causa del mancato interesse della vecchia, un po’ tutti con aria sconsolata fecero spallucce con espressione delusa e si spostarono intorno al tavolo con i panini, le bibite e le pizzette, facendo finta di essere affamati, decidendo di festeggiare da soli. Portarono il vino e Teresa era seccata perché nessuna delle cognate si degnavano di aiutarla. Portava i panini e le prime crocchette calde, fumanti, fritte, che emanavano un profumo di olio grondante.

L’unica manifestazione di vita della festeggiata fu in quel momento, provocata dal passaggio delle crocchette calde e grondanti olio, ma che lei non poteva mangiare.

Il tavolo era davvero sporco, le madri erano nervose e infastidite dal gran baccano che combinavano i figli degli altri, nel frattempo che le nonne sedute comodamente sulle sedie, continuavano a chiacchierare tra loro. L’unica cosa intonsa era l’immensa torta multistrati bianca e rosa in mezzo al tavolo.

Si ergeva come una fortezza in mezzo ai bicchieri di plastica rovesciati, rotti, mezzi pieni, con le impronte di rossetto rosso, tovaglioli ridoti a palline unte di grasso e di pomodoro delle pizzette. Quindi, decisero di spegnere la luce del corridoio per accendere la candela della torta, una candela bianca con i due numeri scritti su di un bigliettino rosa.

L’età scritta pareva più un avvertimento che una dolce occasione. Teresa rilevava con triste constatazione che nessuno dei fratelli aveva avuto l’accortezza di chiedere di condividere con lei le spese per la festa. Piuttosto, cercavano di evitarla, col timore di dover toccare quest’argomento. Teresa sgobbava come una schiava servendo tutti, con i piedi ormai gonfi incastrati in un decolté nero, mentre le quattro nuore restavano incollate sui loro troni. La povera donna con aria critica, continuava ad andare avanti e dietro con le sue gambe stanche e col cuore pieno di rancore e in rivolta.

Accesero la candela. E Francesco, il capo famiglia, iniziò a cantare con così tanta veemenza che sembrava più una minaccia che un canto di festa, obbligando anche i più timidi a seguirlo in quell’impresa. Così, tutti, come dei soldatini, seguirono il loro capo fila. Chi in italiano chi in inglese.

Poi, quelli che cantavano in inglese si corressero in italiano e quelli in italiano in inglese, una gran baraonda!

- “Ciò che conta è il pensiero!” Constatò qualcuno.

Altri facevano finta di cantare e si limitavano ad aprire e chiudere la bocca.

Durante la canzone, la festeggiata, restava lì, in silenzio, col volto illuminato dalla luce calda e dorata della candela, sembrava una bambola di plastica.

Così, al soffio della candela, un pronipote monello, gliela spense con tutta l’aria che aveva in corpo e, nel farlo, spruzzò saliva da tutte le parti, e, con l’aria soddisfatta per la sua impresa, si allontanò saltellando agitando le braccia in cerchi concentrici e canticchiando:

“Tanti auguri a te e la torta a me!”

Tutti all’unisono battevano le mani come se fossero allo stadio e la donna di servizio si teneva pronta, in punta di piedi, aspettando un segno da Teresa per riaccendere la luce del corridoio e nella sala.

“Viva mamma!”

“Viva nonna!”

“Viva signora Maria!” gridò la portinaia che apparve all’improvviso dal nulla.

“Auguri!” Esclamarono in coro le nuore con aria poco convinta. Qualche bambino batteva le mani seguendo il baccano generale!

La festeggiata restava lì, in silenzio, immobile, a fissare la torta spenta, fissava e ammirava la glassa candida con dei fronzoli rosa non ben identificati.

“Taglia la torta nonna!” Strillavano i nipoti più grandi.

In quel momento, un barlume di vita scintillò nei suoi occhi spenti e, con aria tra il minaccioso e l’intrigante, afferrò il coltello impugnandolo senza esitazione come un’assassina e fissandolo con precisione millimetrica, si protese in avanti a peso morto tagliando la torta in un solo colpo.

E con un’aria soddisfatta e quasi arcigna disse:

- “Ecco fatto!” Sorprendendo tutti!

Teresa si adoperava a servire le fette di torta sotto lo sguardo attento dei bambini incollati ed appostati intorno al tavolo, che aspettavano saltellando la loro fetta di dolce. Erano lì, con gli occhi all’altezza del tavolo, mentre fissavano dal basso la grande torta che li sovrastava. La festeggiata, con due bocconi ingurgitò la sua fetta di torta sotto gli sguardi attoniti di una bambina col suo vestitino di pizzo rosa e con le trecce infiocchettate. Si poteva dire che la festa era finita.

A capo tavola, la tovaglia macchiata di coca cola, di succhi di frutta, unta di olio delle crocchette e di salsa di pomodori delle pizzette e delle ditate della festeggiata, che non trovando i tovaglioli dopo essersi tanto presa cura di loro, si era arrangiata pulendosi le dita imbrattate di crema e di glassa. Un po’ per lo zucchero del dolce, un po’ per la caffeina della coca cola, iniziava così ad agitarsi e a tirarsi su, tremolante, sulle braccia svuotate della carne e di freschezza, e, come un vampiro che si tira su dalla sua cassa, si mise in piedi iniziando a gridare, chiamando il suo nipote preferito.

La sua testa si muoveva di volontà propria, dicendo di no come se volesse reagire alle troppe volte che aveva detto di sì. Teresa, con un balzo da gazzella, le impose di risedersi.

_ “Riccardo! Dov’è Riccardo?” Chiese con ansia e con una certa apprensione.

Riccardo era uno dei figli di Antonio, il figlio maggiore morto da poco, portato via da uno stupido incidente domestico. Era in doccia e cantava, e, all’improvviso, smise di cantare finché non lo trovarono riverso, col getto d’acqua calda in testa, nudo e pulito.

Era un bambino vispo con quell’espressione furbesca di chi ha capito tutto dalla vita, tant’è che sorprendeva tutti con i suoi discorsi profondi e si divertiva a condividere la sua grande conoscenza, nonostante l’età, sugli animali, sulla natura, sull’ambiente e sul cosmo. Da quando aveva imparato a leggere, sfogliava enciclopedie su diversi argomenti e poi, grazie al tablet e al computer, aveva arricchito sempre di più il suo ampio sapere. Riccardo era davvero un bambino speciale e la nonna l’aveva capito. La festeggiata si domandava dove fosse Riccardo, mentre si guardava intorno con aria tra il nauseato, l’annoiato ed il deluso. Davanti a quella moltitudine di gente, tra figli, nipoti, si domandava come mai avesse generato tutte quelle persone inutili.

Era un ammasso di spalle cadenti, senza muscolatura, molli e senza spina dorsale.

Erano come dei grossi lumaconi che scivolavano intorno a lei. Dei grossi avvoltoi, con le ali spiegate, pronti ad avventarsi sulla carogna morente. Ma lei, con la sua tipica espressione severa, aggrottando le sopracciglia, passava in rassegna gli invitati uno a uno,come se stesse facendo l’appello.

Si ripeteva a bassa voce, com’era stato possibile aver messo al mondo quella moltitudine di gente fiacca, senza spina dorsale, senza interessi, obiettivi e amor proprio.

Con pungente rancore, il suo grido silenzioso echeggiava furioso dentro il suo grembo vuoto e sterile. Perché il fatto di aver partorito, non implicava avere il senso materno.

“Com’è stato possibile?” Gridava in silenzio.

“Guarda che esseri inutili”

Per lei erano frutti infelici e difettosi.

Sembravano dei topi che si agitavano senza un motivo, senza volontà e personalità, mossi dall’abitudine.

“Dov’è Riccardo?!” continuava a gridare come un’ossessa.

Ed eccolo spuntare da dietro la vetrata liberty, Riccardo, con lo sguardo annoiato che le si avvicinava, proprio perché doveva. Avrebbe preferito stare di là a sbirciare le vecchie fotografie riposte nei cassetti.

“Ecco il mio splendido nipote, la carne del mio cuore, figlio di Antonio, vedrete: farà grandi cose!”

Eccolo comparire, con quel suo musetto felino, virile e spettinato, immerso tra i suoi grossi boccoli neri come i suoi occhi profondi e sinceri, nell’incoscienza dei suoi sette anni.

Sembrava non darle ascolto, non vedeva l’ora di andare di là, tra le foto, per poi tornare a casa e saltare sulla sua bicicletta. La festeggiata si guardava intorno con aria nauseata e, all’improvviso, con rabbia crescente, sputò per terra!

“Mamma!” Urlò disperata Teresa, senza aver il coraggio di incrociare lo sguardo degli altri per la vergogna, come se fosse stata lei a sputare per terra!

“Mamma, ma che fai?! È la prima volta che fa una cosa del genere!”

Continuava a ripetere la poverina a voce alta e piena di imbarazzo e di vergogna. Sembrava che si ripetesse:

“Al terzo canto del gallo, rinnegherai tua madre!”

Notò l’aria impietosita di tutti, perché, in effetti, quando s’invecchia, si regredisce all’età infantile. Così, Teresa, prendendo coraggio, ammise finalmente a se stessa che era da un po’ di tempo che la madre aveva iniziato a sputare per terra. Si asciugò il sudore e le lacrime col dorso della mano aperta e sparì in bagno, in cerca forse di un calmante per la madre, per se o per entrambe. Tutti guardavano la festeggiata in silenzio e con pietà.

Lei li vedeva come una pletora di ratti che si muovevano all’unisono, senza personalità e carattere. Tutti con quegli occhi fissi e sporchi, erano i suoi ragazzi di cinquant’anni e più.

- “Cavolo, che razza di mogli hanno scelto questi idioti! Guarda i loro figli? Anche loro sono dei molli.”

- “Guarda, quelle lì: vanitose, con quelle gambe a tronco, tubolari, con quelle mani viscide e molli come lumache dalla pelle fina, di quelle che non hanno mai visto un panno da lavare o un piatto da insaponare.

Donnette che non sono né mogli né madri, più preoccupate a farsi la piega ai capelli e a iniettarsi il botulino in faccia. Tutto inutile.

Tanto il tempo, la vecchiaia, arriverà e non potranno farci nulla per rimediare.”

La rabbia la soffocava e le tuonava dentro.

Avrebbe potuto essere tante cose, ritrarre il mondo o raccontarlo, che importa.

Ed ora, con i suoi novantanove anni, si rendeva conto che era troppo tardi e, così, sputò per terra una seconda volta.

“Portatemi una bottiglia di vino!” Tuonò.

Calò un silenzio innaturale in sala.

“Nonnina, ti fa male dai!?” La supplicava dall’altra parte della stanza una delle nipoti.

“Nonnina un accidente!” Esplose con rabbia acida la festeggiata.

“Che il diavolo vi porti via, ammasso di donnette, cornute vagabonde opportuniste! Datemi un maledetto bicchiere di vino.” Tuonò ancora.

Teresa non sapeva cosa fare, guardava tutti con gli occhi spalancati, era una situazione paradossale.

La poverina si consolava con i suoi primi panini in mano e la bocca piena. Quando era sotto pressione mangiava, quando era triste, mangiava, mangiava e mangiava ancora.

Eccola lì, presa in castagna, non per il vino che avrebbe dovuto servire alla madre indemoniata, ma perché sarebbe stata smascherata la sua bulimia nervosa.

Ma tutti erano diventati sordi, muti e ciechi con le crocchette ormai fredde e unte tra le dita.

Guardavano impassibili, le guardavano attraverso.

Si rassegnò a riempire il bicchiere di plastica col vino e, gocciolante, lo porse alla vecchia che lo trangugiò in una volta senza respirare!

Ecco riemergere l’alcolizzata di un tempo.

Seduta con lo sguardo fisso, silenzioso, vuoto e spento.

Teresa si sentì catapultata anni prima, quando era poco più che una bambina.

Sentiva quella sensazione di vuoto, di tristezza, di inadeguatezza, quel senso di paura e di impotenza. Queste sensazioni ogni tanto sarebbero riemerse negli anni. Una sorta di seconda pelle che scivolava sotto traccia subdolamente. Non c’era modo di scrollarsi di dosso quello schifo di sensazione. Insicura, non si sentiva amata o desiderata.

Suo padre non c’era mai, viaggiava a causa del suo lavoro. Era stata cresciuta dalle tate straniere. Sua madre, donna mondanissima, dormiva fino a tardi, e di pomeriggio per esser bella e fresca come una rosa per quando usciva la sera.

Il giorno dopo, si aggirava in vestaglia con i giornali consegnati dal portiere, sotto il braccio.

Non le interessavano le notizie o gli articoli di attualità o economici, ma ciò che le interessava erano solo e unicamente le pagine mondane. Quando trovava il suo nome, spesso in verità, s’illuminava come una lucciola e poi si spegneva, purtroppo. Da ragazza, Teresa era contenta di andare a scuola. Lì si sentiva tranquilla, ma quel senso di serenità veniva meno man mano che la quinta ora giungeva al termine e che sarebbe dovuta tornare a casa.

Tornava a piedi per ritardare l’arrivo a casa.

Durante il tragitto pregava. Pregava di trovare quelle maledette serrande delle finestre alzate, segno che era la giornata giusta, altrimenti, sarebbe dovuta sgattaiolare in camera sua senza farsi sentire, senza esistere.

“Zia… zia… zia Teresa!” Riccardo la ridestò da quel brutto sogno.

Lei senza sentirlo ne vederlo, girò su se stessa riempiendosi le mani di pizzette e crocchette fritte, unte e bisunte, e infilò quel che le era possibile dentro le sue fauci bramose di sollievo e di consolazione.

Mandando giù tutto in un sol boccone e con un colpo secco al petto le ingoiò, aiutata da un bicchiere di coca cola.

“Nessuno mi ha mai regalato quella cosa che Caterina ha tra le mani!” Gridò la vecchia.

”Cosa mamma!?” Teresa con la bocca piena e col bicchiere di vino allungato con l’acqua in mano.

“Ma sei tonta? Quella specie di coso…

“Ah… l’Ipad!? Ma cosa ci devi fare?

“ Mi serve per comunicare, visto che nessuno mi vede o mi ascolta più!

Non siete buoni neanche a fare i regali!”

Ruggì la vecchia, prima di cadere nel suo stato catatonico. Tutti si guardavano attoniti, sorridendo scioccamente, come se un cane avesse fatto la pipì in salotto. Poi, come niente fosse, ripresero a parlare e a ridere. La nuora dell’Eur, approfittò del primo momento di distrazione generale, per andarsene via all’indiana, ma i figli si erano mischiati con i nemici da veri traditori.

Non avrebbe potuto far altro che aspettare e nel mentre si guardava intorno, analizzando e criticando i vestiti delle altre donne.

Non si capacitava di come potevano essere così prive di gusto e di personalità.

“Che orrore!” Pensò.

Reclusa sulla sua sedia, analizzava i vestiti, senza un vero taglio, cuciti male e dai tessuti in poliestere. Si vedeva che erano stati pescati dal fondo di qualche bancarella.

Esaminava da lontano il buffet fatto in economia.

Non si era servita di nulla e rimaneva lì rigida come le statuine egiziane, con la bocca a culo di gallina, e con lo sguardo da gatto bagnato.

Continuava ad affermare a se stessa che la festa era finita; ma dei suoi figli traditori, alcuna traccia!

Alcuni invitati ormai senza sapere cosa fare, si guardavano intorno aspettando un segno per battere in ritirata. Si guardavano intorno con l’aria interrogativa e con un sorrisetto indeciso e lo stomaco pieno di ogni portata presentata. I bambini, ormai completamente senza controllo, uscivano e rientravano dal terrazzo in salotto, dal salotto in terrazzo, portando dentro casa, terra e foglie secche dell’autunno appena finito. Sudati fradici e unti di grasso, macchiati di coca cola e succhi indefiniti, correvano spostando le sedie e grattando il pavimento senza tappeto.

I bambini senza ormai più alcun freno inibitorio, iniziarono a litigare. La nuora di Monte Mario, fissava il vuoto con lo sguardo assente con un’espressione di tedio o di dolore.

Chissà cosa nascondeva il suo cuore, chissà quale segreto portava con se, mentre giocherellava col telefono, e nel mentre, sospirava pian piano sperando di non farsi notare. Poi, sconsolata, si rimetteva a guardare nel vuoto. Finiva per fissare quell’immensa tartaruga impagliata con gli intarsi d’argento, piena di fiori secchi e profumati. Si domandava come mai riuscissero a tenersi una cosa del genere in casa.

Ma la vecchia, amante delle opere di Gabriele D’annunzio, non poteva non avere una tartaruga simile a quella del sommo poeta e si divertiva un mondo a raccontare la storia della sua tartaruga morta per una congestione di fiori.

Doveva avere lo stesso esemplare e tra una risata e l’altra raccontava che anche la sua tartaruga era morta d’indigestione di fiori sul terrazzo e questo era un monito per i suoi rari commensali, spingendoli a frenare l’appetito.

Lei raccontava ai figli e ai nipoti ed i nipoti a loro volta avrebbero raccontato agli amici di passaggio.

L’unica storia familiare tramandata. Finalmente, accesero le luci, segnando la fine del crepuscolo, anche se, si cercava di sfruttare gli ultimi raggi caldi del sole, ormai timido visto che era dicembre. Entrava dalle finestre, alleggerendo il carico di stress di quel pomeriggio così impegnativo.

“Devo andare!” Disse una delle nuore, mettendosi in piedi mentre si sistemava la gonna irrigidita dalla sedia.

Ed appresso a lei, vari invitati sollevati, che non aspettavano altro.

La notte era ormai quasi giunta, mentre alcuni invitati si smaterializzavano, mentre i numerosi nipoti, venivano obbligati a baciare la nonna. E tutti, proprio tutti, lo fecero con una velocità supersonica, come se liberassero il bacio per aria nella speranza che atterrasse nel posto giusto, per non dover ripetere l’operazione. Molti si accomiatavano con parole vuote e di convenienza. La luce della stanza era più gialla e più decisa. Gli adulti sembravano più vecchi e annoiati, mentre i bambini erano sempre più incontrollabili e isterici. La festeggiata immersa nei suoi pensieri si domandava se la torta avrebbe sostituito la cena. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare ciò che lei pensava.

S’illudevano che, nel suo profondo, era inanimata come loro la vedevano.

Tutti a voce bassa la salutavano ancora una volta dalla porta, chiaramente con senso di costrizione e con rancore. Cercavano di imprimersi in testa l’ultima immagine della festeggiata, ciò che era, lì seduta a capotavola, immonda e imbrattata di ogni cosa, con le sue mani appoggiate a pugno chiuso sul tavolo e col suo silenzio come ultima parola. La nuora dell’Eur la fissava con terrore. Quel pugno chiuso e severo sul tavolo lasciava intendere alla nuora infelice che alla fine bisogna seguire il proprio cuore, perché la vita è corta, corta, è davvero corta... In realtà era il suo cuore che cercava di lamentarsi, ma, come si sa, la verità viene a galla e in fin dei conti bisogna respingerla, tacendola anche a noi stessi.

Si chiude lo sportello per non spalancare il portone della propria anima.

Sarebbe stato un disastro, una mandria di buoi imbizzarriti!

“Ecco… chiudiamolo!” Pensò la donna infelice.

Ciò malgrado, la vecchiaia la spaventava, perché era la fine di tutto, di se stessa, della propria speranza di felicità.

“Non tutti hanno la fortuna di riunirsi intorno al tavolo di una madre con i suoi nipoti.” Disse Francesco.

Ma ormai erano rimasti in quattro gatti intenti ad andarsene.Voleva fare un discorso, ma la frase non gli veniva proprio e sudava abbondantemente, sudava cercando nei meandri di quella testa vuota una frase d’impatto per chiudere la serata, ma non gli veniva proprio, fino a quando, eccolo lì, uscirgli dalla bocca, sorprendendolo!”

“Al prossimo anno mamma!” Disse orgoglioso tra lo sconcerto e l’imbarazzo generale.

- “Male che vada festeggeremmo la torta con un lumino acceso!” Disse divertito Emanuele, il socio di Francesco, pensando di fare una battuta divertente. Ma l’imbarazzo fu totale.

“Tié!” esclamò la vecchia ridestandosi dal suo stato catatonico e facendo le corna con le due mani tremolanti!

Da lontano le nuore, mandavano baci augurando ogni bene alla vecchia. Lei, nonostante gli auguri, continuava con la sua espressione arcigna.

“Mamma, l’anno prossimo, verremo tutti eh?!” Gridarono in coro i suoi tre figli perché Carlo non si era degnato di venire.

“Non sono mica sorda!” Tuonò la vecchia con aria arcigna e rude.

Pian piano la stanza si svuotava e Teresa accompagnava tutti all’ingresso verso l’uscita. I bambini erano tutti felici e le nuore arrabbiate per esser state tradite dai loro mocciosi. Le scale a scendere dei quattro piani, dalle otto rampe di scale dissestate, erano quasi al buio, per via delle luci tremolanti e mancanti tra un piano e l’altro.

Così, tra risatine e strilli, scendevano i primi invitati lentamente, le voci si allontanavano e si avvicinava sempre di più quel silenzio tanto bramato e odiato della sua quotidianità, pensava Teresa.

Una volta all’aria fresca e fuori dal portone del vecchio palazzo, si accorsero che era notte!

“Ciao! Alla prossima! Ci dobbiamo vedere più spesso!” Dicevano rapidamente alcuni invitati.

Altri cercavano di guardarsi negli occhi mentre si salutavano cordialmente senza risentimento. Altri abbottonavano i cappotti dei bambini elettrici, mentre guardavano il cielo, sperando che non piovesse.

Altri ancora, non riuscivano a trovare il modo di salutare per non sembrare maleducati.

“Al prossimo anno!” Ripeté Francesco dalla porta verso sua madre seduta a capotavola, illuminata dalla luce gialla del salotto in stile liberty, vecchio e impolverato.

Lei restava lì immobile, come un animale impagliato, con aria ieratica e arcigna.

Era come un pezzo di mobilia.

Francesco, continuava ad agitare la mano nervosamente, ormai non era più un saluto ma un tic nervoso e compulsivo, tanto che tremava tutto, anche i pochi capelli radi e grigi sulla testa, svolazzavano, svelando uno squallido riporto.

- “Francesco si è ingrassato troppo!” Hanno pensato in molti.

Avrebbe dovuto fare attenzione al cuore, per non fare la stessa fine del fratello.

- “All’anno prossimo!” Gridò un’altra voce dal fondo delle scale.

In realtà, non si credeva possibile che la vecchia avesse superato un altro anno, a causa dei suoi nervi.

- “Certo, festeggiare i cento anni sarebbe un bel traguardo!” Pensava malinconica e sognante, la nuora invisibile, quella che non era ne buona ne cattiva. Era passabile. Se c’era non ti pesava, se non c’era non ti mancava.

Diversamente, alcuni avevano dei pensieri alti e profondi e immaginavano col cuore commosso a cosa stesse mai pensando la festeggiata. Chissà se faceva i conti con se stessa. Mentre tutto ciò accadeva, la festeggiata, al quarto piano, al di là di tutte le considerazioni e delle parole pompose ma vuote, continuava a stare seduta a capotavola, eretta, definitiva, sembrava più alta di se stessa. Con aria intenta e all’erta.

“Non sarà mica che non si ceni questa sera?!” Meditava tra sé e sé.

Questo era il suo unico pensiero.

La morte no.

Quella era un mistero!

Vacanze finite, le letture no: “Le mie scarpe”, quarto racconto firmato Soares

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