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Culture
Ceglie, il diario di bordo dell'architetto milanese Claudio Monnini

È iniziata l'esperienza nella nuova casa di Ceglie Messapica, siamo salpati. Abbiamo curato con passione ogni dettaglio, e non si può descrivere la sensazione di risvegliarsi ogni mattina sotto le volte di pietra, come in un castello, o in una chiesa romanica, e muoversi in questi spazi raccolti e confortevoli, dove non manca proprio niente, e in più si è ripagati da una profusione di bellezza, dalle scolpiture del cocciopesto, ai conci maestosi di pietra, al bianco della calce, al legno vissuto del bancone da pranzo, al ferro grezzo dei corrimano e della scala al tetto.

Tutto è così vero, e parla la lingua della materia viva, onesta, diretta. Incredibile andare a raccogliere, nella calura eccessiva di questa torrida estate, dove il termometro sfiora i 40 gradi, un refolo di aria fresca sull’altana che domina il paese dal mio tetto di coppi, guardando i merli del castello federiciano e il frontone della Chiesa Matrice.

Ogni sera Ceglie si accende di vita di luci e di musica, (stasera si esibisce Max Gazzé, nella piazza principale), ma poi rientriamo nella via tranquilla, veramente a un passo dalla movida, dove le donne sedute sui gradini di casa, accolgono i miei bambini con vezzi affettuosi. E di giorno, quando la città riposa sorniona, tutti scambiano un saluto, perché da queste parti ogni forestiero è sacro, per tradizione, per curiosità, perché l’umanità è qui ancora importante. “Ciao archité”, mi apostrofa chi mi conosce, e chi mi conosce solo di vista mi offre un sorriso e accenna un gesto con la mano.

Ho vicini di casa che parlano una lingua semplice, che piegano ogni giorno la schiena nei campi, e altri che sono forestieri, come me, spesso inglesi o francesi, che si mischiano con la gente del posto. E fermarsi a bere un bicchiere di vino dondolandosi in un’amaca nei vicoli imbiancati, accende nuove storie.

Oggi visiteremo le spiagge di un parco naturale, a pochi chilometri da qui, la Spiaggia delle conchiglie della riserva naturale di Torre Guaceto, dove le tartarughe marine depositano le loro uova. Ma non siamo in Costa Rica.

Incontro ogni giorno storie di persone che in un modo o nell’altro ridisegnano il proprio futuro, scommettendo sull’autenticità di questo posto, dove le risorse sono a chilometro zero e le idee internazionali.

L’altra sera mi fermo con la mia compagna e i 2 bambini in un angolo tranquillo, un’enoteca scavata nella pietra affacciata su un piccolo giardino, con 4 amache sospese a un gruppo di gelsi. Da Franco, recita l’insegna. Nella luce color lavanda del tardo pomeriggio, trascinati dall’entusiasmo dei piccoli per le amache appese ai rami, decidiamo di regalarci un po’ di relax e un bicchiere di vino fresco. Subito si presenta Emanuele, un giovane Hipster Brindisino venuto a fare “la stagione”. Ci capisce di vino, e ci propone 2 bicchieri di un bianco profumato di Castel del Monte. Ci capisce di persone, la sua parlata è accogliente, curiosa dell’uomo e del mondo; nonostante la giovane età sa come prendere i bambini, e compaiono subito olive, taralli, e fave essiccate alla paprika. Si capisce che qui la gente ha voglia di crescere, ma senza perdere nulla dell’autenticità di questo luogo, così stratificato, così diretto, così pieno di tradizioni. Anzi, questa autenticità vengono a cercarla dalle vicine città.

Ci siamo dondolati in mezz’ora di piacere, ipnotizzati dalla bellezza degli scorci dei vicoli imbiancati, coccolati dai sapori, incuriositi dalle opportunità che sembrano far capolino da dietro ogni muro, per farsi inseguire, e farsi cogliere. E infatti ne sono arrivate nei giorni a seguire…

Da cosa si capisce l’appartenenza a un luogo? Da una sensazione a pelle; dal fatto che quando ti avvicini alla sua aura, fatta di odori, di colori, di materiali, la luce sembra cambiare all’improvviso, come quando si varca la soglia di casa.

Pochi luoghi producono questo effetto; in genere quelli in cui siamo nati o cresciuti (nostro malgrado): città, quartieri, appartamenti; poi quelli che abbiamo scelto, o che abbiamo inseguito per studio o per lavoro.

Straordinariamente Ceglie mi fa questo effetto, dopo così poco tempo che la frequento; quando vi ritorno da un viaggio, anche breve, mi sento di tornare in un grembo famigliare.

L’accoglienza si manifesta in forme e in ambiti molto diversi, da queste parti è un coinvolgimento attivo; invitato da Antonietta, una vulcanica artista locale, ho partecipato per tre serate a una mostra di artisti in strada, nel centro storico.

Ma sentirsi a casa è anche respirare l’anima di un luogo, avvertire l’ispirazione, come è successo per le mie nuove opere, che ora si trovano esposte a Palazzo Camarda, un elegante dimora patrizia per dandy viaggiatori, e ho scoperto che i miei quadri sembrano fatti della stessa materia dei muri: colori, sfumature, texture.

Sono stato trascinato in serate improvvisate dai ragazzi di qui, e ho scoperto storie di emigrati che ritornano in ogni occasione, da tutta Italia, e dei loro amici di sempre, stanziali, e abbiamo bevuto fino al mattino. Ieri sera ero a un aperitivo con Francesco, un ciclista romano, che ha scoperto Ceglie da un post su Linkedin ed è venuto a trovarci pedalando.

Ho conosciuto Vinod Sookar, noto chef stellato mauriziano che, dopo una giornata ai fornelli, si beveva una meritata birra alsaziana alle 2 del mattino, in un locale della periferia in cui un turista non entrerebbe mai;

Ho assaggiato il mojito cegliese, la carne al fornello, i biscotti di pasta reale, nei posti che solo i locali sanno che è meglio.

Ho ascoltato concerti straordinari all’aperto: ieri sera si è esibito Piovani, e ho visto Piazza Plebiscito cambiarsi d’abito ogni sera, dal palco rock al gazebo ottocentesco per le bande civiche al palco classico, con annesse bancarelle di lupini noccioline e olive, il tutto in un tripudio di trine luminose, tantissima gente, pigiatissima, ma tutta incredibilmente rilassata nella baraonda più totale; mentre i miei figli si ricorrevano con decine di altri bimbi in una giostra scatenata intorno ai palchi.

E poi c’è la Ceglie tranquilla e affettiva della via dove abito: una famiglia allargata e allo stesso tempo una grande casa, dove i compleanni si festeggiano con tavolate imperiali in mezzo alla strada tra le case.

Imparare questa mancanza di fretta, questa assenza di ansia, immutabile nella ressa e nel raccoglimento, è come imparare la respirazione yoga. E a un milanese fa solo bene.

Tags:
claudio monniniceglie messapica





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