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Politica
Il 4 marzo? Un voto contro Bruxelles. Perché non possiamo morire europei

A giudizio di politologi seri e di osservatori onesti le cui menti non risultano offuscate dalle ideologie e gli occhi appaiono non velati dalle passioni di parte o da interessi privatistici, ma anche della gente comune, il risultato netto, che si sottrae ad interpretazioni e capziosità, sortito dalla tornata elettorale politica del 4 marzo scorso, è quello che vede sotto accusa l’Unione Europea che, con i suoi riti, i suoi miti, si muove soltanto con le imposizioni, i veti, i divieti, le tasse, facendosi percepire dal cosiddetto uomo della strada, fredda, distante, a volte nemica, molto spesso matrigna. Tutto quanto rappresentato da Bruxelles viene accolto come avverso, contrapposto, nemico quasi; tutto meno che solidale, benevolente, fraterno.

E qui torna d’attualità il vizio di origine dell’adesione dell’Italia all’Europa, alla sua unione e alla moneta unica. Un’Europa che, bisogna affermarlo in modo chiaro, è totalmente agli antipodi di quella auspicata da De Gasperi, Schuman, Adenauer, Spaak e da una pattuglia di altri velleitari politici. Un’adesione imposta agli Italiani, senza alcuna sia pure informale richiesta di consenso, che ne potesse sancire, o meno, l’approvazione e il gradimento. 

E qui, in questo snodo, anche, la storia, vichianamente, si ripete. Nel colloquio  che intercorre tra il principe di Salina, don Fabrizio Corbera, siciliano, e l’inviato del Governo di Torino, Chevalley, chiaramente un piemontese, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo Gattopardo, durante il dialogo, fa dire al nobile palermitano: “In questi ultimi mesi - siamo nel 1860, n. d. s -,  da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci… adesso non voglio dire se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male…” (Edizione del 1969, pp. 230 – 231).  

Ecco, qui sta il nodo e, contestualmente, la disarticolazione della questione italiana e della sua partecipazione all’Unione Europea.  Ogni cosa è stata fatta senza consultare nessuno; tutto è avvenuto sulla pelle, alle spalle, contro gli interessi più vitali del popolo italiano, in particolare per quello che riguarda l’adozione della moneta unica, l’Euro, che ha impoverito, atterrandola, una intera comunità nazionale, in particolare la classe media. Senza che nessuno avvertisse la necessità di vagliare le conseguenze che si sarebbero verificate dopo una fredda, asettica operazione di vertice portata a conclusione da economisti e accademici d’accatto. Che mai si sono cimentati con la dura realtà dell’esistenza di ogni giorno e delle, spesse volte, insormontabili difficoltà quotidiane che debbono affrontare persone singole ed interi nuclei familiari per poter raggiungere la possibilità di coniugare il pranzo con la cena. E di assicurare un dignitoso avvenire alla propria famiglia, ai propri figli. L’assenso, secondo la Costituzione Italiana, fornito dalle sedicenti élites politiche nazionali all’organismo unitario europeo, con la sottoscrizione dei Trattati di Maastricht, venne descritto, come succede di consueto in questi casi, allorché si intende carpire la buona fede di qualcuno, qui, nel caso specifico, dell’intero popolo italiano, in termini miracolistici, come la classica panacea che avrebbe guarito per sempre le piaghe endemiche dello Stato italiano. Ma, il risveglio è stato immediato, la delusione cocente; ora sarà difficile liberarsi da questo capestro, da questa sostanziale condizione jugulatoria che è stata creata per ciascun cittadino, calpestato, umiliato nelle proprie sacrosante aspirazioni personali e collettive. 

Chi scrive si è sentito molto scettico sin dall’inizio circa i mirabolanti benefici che avrebbe arrecato l’Europa all’Italia ed al suo popolo, reso consapevole da svariati fattori-spie che innervavano con imperterrita gradualità cronologica i molteplici Accordi sottoscritti dagli esponenti dei Governi che si sono succeduti nel tempo a Palazzo Chigi. Già è stata colpevole la cessione di alcune componenti la sovranità del popolo italiano, la qualcosa è da ritenersi un gratuito masochismo; che nullifica tutte le lotte combattute, tutte le galere sopportate,  tutte le attività sovversive poste in essere dai patrioti di ogni plaga dello Stivale contro gli Asburgo e i loro accoliti, avverso i Borbone e il becerume paternalistico che ne informava la politica e l’amministrazione nella quotidiana attività di governo: “… negli anni di maggior bisogno – dice don Ciccio Tumeo, organista della Madre Chiesa di Donnafugata a don Fabrizio di Salina,  durante una battuta di caccia nelle brulle campagne siciliane – quando mia madre mandava una supplica a corte, le cinque onze di soccorso arrivavano sicure come la morte..”; regnavano, i Borbone, sempre sostenendosi sull’occhiuta presenza della polizia pienamente incarnata, al suo vertice, da Salvatore Maniscalco, losco figuro di sgherro di Stato: «“Vostra Eccellenza lo sa - dice il soprastante Pietro Russo a don Fabrizio Salina -; non se ne può più… scartoffie per ogni cosa, uno sbirro a ogni cantone; un galantuomo non è libero di badare ai fatti propri. Dopo,  invece, avremo la libertà, la sicurezza, tasse più leggere, la facilità, il commercio. Tutti staremo meglio…”» (pp. 40 – 41). 

Paradigmaticamente,  sembra di leggere le sfacciate parole, le spudorate promesse avanzate da parte di coloro che, e sono stati in tanti, scientemente, hanno rinserrato i cittadini e la Penisola intera nell’asfissiante gabbia conosciuta con il nome di Unione Europea.

È una beffa! Una beffa atroce! Si è combattuto, si è versato sangue, si è, impavidi, affrontata la morte da parte di tanti giovani per giungere oggigiorno alla negazione di tutto, di ogni legittima aspirazione alla libertà, all’autodeterminazione,  mentre in questi anni amari siamo costretti a subire i diktat di algidi funzionari, di gelidi burocrati; di gente lontana e sconosciuta, acquattata negli uffici di Palazzo Berlaymont da cui arrivano imposizioni e lettere di richiamo, e avvisi perentori d’infrazioni che nessuno comprende ma che tutti subiscono e debbono sopportare. 

È una beffa, anche, rimembrare con cadenza annuale la data del 17 marzo 1861 allorché venne ufficialmente proclamata la nascita istituzionale del Regno d’Italia, con capitale Torino, che, immediatamente, si rivelò molto fuorimano rispetto al resto della Penisola tanto che si dovette optare, in maniera provvisoria e quasi fraudolenta, in favore di Firenze parecchio più baricentrica soprattutto per le regioni meridionali.    Tutto per cosa? Tutto questo a pro di che? Cosa si è ottenuto se non continue umiliazioni; se non perenni esclusioni dalle decisioni che davvero contano per il futuro e la vita degli italiani. Anche la lingua, musicale e armoniosa, espressione immediata del crisma identitario della Nazione e riverbero fulmineo della suprema civiltà che l’Italia  ha saputo creare, è disprezzata con piena consapevolezza dalla cafona arroganza di chi sta a Bruxelles che non vuole comprendere la raffinatezza esperienziale che lungo i secoli ha plasmato la storia d’Italia e, ipso facto, quella dei popoli che con essa sono entrati in relazione.

D’altronde, cosa ci si poteva aspettare di diverso se non l’isterilimento e le funeste diatribe, da parte di gente  che ha pateticamente abraso il riferimento alle radici cristiane dal suo Documento essenziale che ne regola i momenti di vita e delle relazioni politico-sociali? Tutto questo, con la malleveria e il giulivo consenso di chi amministra la vita pubblica italiana.

Ora, qualcuno potrebbe obiettare come le riflessioni palesate in questo scritto siano dettate da una mentalità strapaesana; sono indotte da un’esasperata anomalia nazionalistica. Costui avrà certamente ragione; anzi, ha senz’altro ragione, non dico di no! Ma, un dato incontrovertibile è che non si vive più in una vera democrazia, nonostante siano formalmente rispettati i rituali di essa: gli Italiani  sono diventati tutti più poveri, sia finanziariamente che economicamente, soprattutto il ceto medio, che costituisce da sempre l’asse portante della società attuale.

L’Europa la si lasci, allora, dannunzianamente,  alla “favola bella” che ha illuso e, ancora oggi, illude più di qualcuno; la si lasci alle fascinose fanfaluche della mitologia classica, al patetico dio Giove perennemente fedifrago in un improbabile “olimpo” di dèi falsi e lascivi.

La realtà che soffoca tutti, anche quelli che non vogliono ammetterlo, è ben diversa; è, ahi noi, molto più concreta e dura di quanto si possa osare di credere. È un virtuale, iniquo cappio da cui cercare di poter fuggire. Quanto prima! Non si può, a queste condizioni, morire europei!

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unione europeaelezioni 4 marzo 2018uebruxelles





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