Garlasco come il Grande Fratello della cronaca nera, così i social media hanno trasformato gli omicidi in show business

"Non è follia, ma pura genialità 😂" - quando la morte diventa meme

Di Gabriele Parpiglia
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Garlasco, così i social media hanno trasformato gli omicidi in show business. L'algoritmo dell'orrore

"Non è follia, ma pura genialità". Leggiamo questo commento su X e il sangue si gela. Stiamo parlando dei dettagli forensi di un omicidio. Di una persona morta. Di famiglie distrutte. E qualcuno ci ride sopra con le emoji, ma, nonostante ciò, eccoci qui: #Garlasco che spopola con 6.356 post (nel momento in cui scriviamo), un canale YouTube tutto dedicato al caso che ha già raccolto 926 iscritti, video che si moltiplicano come funghi.

Ma quando è successo che la tragedia è diventata intrattenimento da consumare sul divano? Apriamo YouTube. Digitiamo "Garlasco". Ci compare "Garlasco Channel": 21 video, tutti con titoli che sembrano usciti da Netflix. "Delitto di Garlasco: Un audio che cambia tutto - Parte 1", "Parte 2", "Parte 3"...

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Ma cosa significa? Una serie televisiva? E poi leggiamo la descrizione del canale: "Dedicato a uno dei casi di cronaca nera più complessi e controversi d'Italia". Dedicato. Come se fosse un fan club. Come se stessimo parlando di una squadra di calcio, non di una persona ammazzata. La cosa che risulta più inquietante? Che dietro tutto questo circo c'è gente che ci campa: ogni visualizzazione è un centesimo, ogni click una monetina che tintinna. Il sistema YouTube paga per i video, e più gente guarda, più si guadagna. Quindi cosa si fa? Si tira fuori il caso più cruento, lo si sminuzza in dieci puntate, ci si mettono titoli acchiappa-click e si aspetta che i soldi arrivino. Bello, no? Il sangue che si trasforma in euro.

Poi leggiamo i commenti e viene da piangere. Gente che sentenzia come se fosse il procuratore capo: "Mi sembra chiaro che è stata la Stefania, ma nessuna prova che era sulla scena del delitto". Chiaro secondo quale criterio? Ma chi autorizza queste persone a dire chi è colpevole? Hanno fatto i magistrati? Hanno visto le prove? Hanno studiato il fascicolo? No, hanno guardato tre video su YouTube e ora sono diventati Sherlock Holmes.

"Che schifo! Solo questo mi viene di dire. Uno schifo vergognoso!" scrive un altro utente. E qui almeno siamo d’accordo, ma per motivi diversi. Lo schifo è proprio questo: che tutti si sentono autorizzati a emettere sentenze definitive dal divano di casa. Ma la perla è quest'altra: "Ma credo che a Garlasco la gente sente e vede anche quello che non c'è".

Davvero? E questa persona da dove scrive, dalla centrale di polizia? Ha fatto sopralluoghi? No, ha letto quattro informazioni online e ora è diventata un'esperta di dinamiche locali.

E arriviamo al punto più basso di questa deriva digitale. I meme: i meme su un omicidio (che ci rifiutiamo di pubblicare per decenza). "Garlasco si aggiunge un’altra perla alla Capra Collection 😂". Con tanto di emoji che ride. Perché evidentemente ridere su un delitto è diventato normale. Poi continua: "Quindi, per economizzare, si usa una garza per tutti i corpi da esaminare. Non è follia, ma pura genialità 😂".

Ma ci rendiamo conto di cosa stiamo leggendo? Qualcuno sta facendo battute su come si esaminano i cadaveri. Su protocolli forensi, su una tragedia che ha spezzato delle vite. E ci ride sopra. Con le emoji.

Siamo arrivati al punto che una persona morta ammazzata è materiale per lo show comico su X. Abbiamo raggiunto il fondo dell'umanità, ma purtroppo non finisce qui. Ora anche gli influencer si buttano nella mischia. Video con grafiche accattivanti, luci da studio, titoli altisonanti. Prendono esperti, ex generali, chiunque possa dire qualcosa che suoni autorevole, e ne fanno contenuto. Non è informazione, è spettacolo. È il Grande Fratello della cronaca nera, dove invece dei vippetti abbiamo testimoni, periti, familiari delle vittime. E la gente guarda. Condivide. Commenta. Come se stesse seguendo l'ultima stagione di una serie che le piace. Solo che qui non ci sono attori, ci sono persone vere che stanno soffrendo davvero.

Non è la prima volta che succede. Ricordiamo Cogne? Gruppi Facebook, innocentisti contro colpevolisti, come se fosse Juve-Inter. Perugia? Un circo mediatico internazionale. E Yara? Migliaia di post, video, teorie complottiste. Ogni caso ha seguito lo stesso schema, ogni volta più gente che si butta nella mischia per dire la sua. Cosa è successo a questo paese? Quando abbiamo iniziato a trattare gli omicidi come se fossero quiz televisivi da risolvere dal salotto di casa? Quando è diventato normale consumare cronaca nera come se fosse una serie TV? Perché questo è quello che è successo: si è sviluppata una cultura che tratta il true crime come intrattenimento.

Solo che qui non c'è fiction, ci sono famiglie vere che piangono i loro morti mentre altri fanno i detective da tastiera. E la cosa più grave? Che tutto questo rumore rischia di influenzare i processi reali, perché quando migliaia di persone si convincono che il colpevole è qualcuno basandosi su video online, si crea una pressione che può condizionare tutto; i testimoni possono leggere i commenti online, l'opinione pubblica si forma su basi completamente sbagliate e poi pretende giustizia sulla base di quello che ha visto sui social: è il processo mediatico parallelo, dove la sentenza popolare arriva prima di quella vera.

Risultato? Sfiducia nella giustizia quando la realtà non combacia con quello che si era visto sui social. Cosa possiamo fare? Intanto smettere di guardare questi contenuti, perché finché ci sarà gente che clicca, ci saranno persone che fanno questi contenuti.

YouTube potrebbe smettere di monetizzare i video su tragedie recenti. X potrebbe mettere dei warning sui post che parlano di casi giudiziari. TikTok potrebbe non spingere contenuti che sfruttano la morte per fare visualizzazioni. Ma soprattutto dovremmo smetterla noi: smettere di condividere, di commentare, di trasformare ogni tragedia nel nostro passatempo preferito. Dovremmo ricordarci che dietro ogni hashtag c'è una persona morta e una famiglia che soffre.

Il caso Garlasco sui social non è solo cronaca che va storta, è lo specchio di quello che siamo diventati: una società che ha trasformato la morte in intrattenimento e il dolore in business e ogni volta che clicchiamo su uno di quei video, ogni volta che condividiamo un meme su un omicidio, ogni volta che ridiamo con le emoji su una tragedia, stiamo uccidendo un pezzo della nostra umanità.

Il caso Garlasco ci sta mostrando chi siamo e la domanda è: ci piace quello che vediamo? O è ancora tempo per spegnere il telefono e ricordare che le persone morte meritavano di vivere, non di diventare il nostro spettacolo del sabato sera? I processi li fanno i magistrati. Il rispetto per i morti dovremmo garantirlo noi. Se ne siamo ancora capaci.

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