Tasse in Italia e super ricchi, altro che maxi stipendio: per i Paperoni è meglio investire in immobili. Ecco perché
In Italia chi lavora e guadagna tanto paga fino alla metà del reddito in tasse, mentre chi vive di rendite o patrimoni gode di regole fiscali più leggere
Irpef al 43%: perché il lavoro dipendente è più penalizzato delle rendite
Tassare i ricchi, o tassare meglio? La domanda è vecchia e forse monotona, ma se guardiamo al sistema italiano, la risposta sembra già scritta: chi lavora da dipendente e ha un reddito alto è spremuto fino all’osso, chi possiede patrimoni o rendite ha regole più morbide.
Prendiamo un esempio. Un lavoratore dipendente con 100mila euro lordi annui finisce sotto la scure dell’Irpef. Con l’attuale struttura delle aliquote, sopra i 50mila euro scatta quella massima del 43%, cui si aggiungono addizionali locali e contributi. Risultato: dal lordo iniziale restano in tasca circa 55mila euro netti. In altre parole, quasi la metà del reddito se ne va in tasse e oneri vari.
Ora, immaginiamo uno scenario diverso. Chi non ha un reddito da lavoro così alto, ma possiede più immobili. Un appartamento affittato a canone libero rende 18mila euro l’anno. Con la cedolare secca al 21%, il proprietario ne trattiene circa 14mila netti. Cinque appartamenti equivalgono a circa 70mila euro netti l’anno, con un’aliquota effettiva molto più bassa di chi lavora a stipendio fisso. Se gli immobili restano vuoti, il costo si limita all’IMU, comunque marginale rispetto al peso dell’Irpef.
Lo stesso discorso vale per le rendite finanziarie. In Italia i guadagni da capitale sono tassati al 26%, mentre i titoli di Stato addirittura al 12,5%. In ogni caso, meno del 43% che colpisce i redditi da lavoro oltre i 50mila euro. È qui che forse si nota la distorsione più evidente: più il reddito è legato a rendite o asset, meno paga in proporzione rispetto a chi lo produce con il lavoro.
Il problema, naturalmente, non riguarda solo l’Italia. Da anni economisti come Thomas Piketty e Gabriel Zucman puntano il dito contro quest'asimmetria. Zucman ha proposto addirittura una patrimoniale universale, una tassa minima del 2% sui patrimoni superiori a 100 milioni di euro, con un meccanismo simile alla Global minimum tax delle imprese. L’idea è semplice: se un miliardario non versa almeno quella quota, qualunque Paese in cui opera può trattenerla.
Non sorprende che chi questa ricchezza la possiede reagisca con ostilità. In Francia, per esempio, Bernard Arnault, patron di Lvmh e uno degli uomini più ricchi del mondo, ha definito la proposta "letale" per l’economia. Zucman gli ha replicato accusandolo di usare la stessa retorica di Trump o Musk: difendere i privilegi dei super-ricchi presentandoli come "creatori di ricchezza indispensabili".
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Forse la proposta più realistica, più che inventarsi nuove patrimoniali globali che non passeranno mai, sarebbe banalmente riallineare le aliquote: un dividendo non può essere tassato meno di uno stipendio. Per ora, però, il dibattito è ancora aperto.