L’Etiopia vuole il porto eritreo di Assab: una miccia pronta a esplodere

La strategia del premier Abiy Ahmed per ottenere una base navale nel Mar Rosso rischia di destabilizzare il Corno d’Africa.

di Marilena Dolce

Eritrea, il porto di Massawa 

Esteri

L’Etiopia vuole il porto eritreo di Assab: una miccia pronta a esplodere

Dal 2023 l’Etiopia ha innescato una questione geopolitica pericolosa per l’intero Corno d’Africa: la richiesta di avere un territorio, appartenente ad un paese vicino, per stabilirvi una base navale.

Il premier Abiy ha persino minacciato possibili azioni militari qualora i negoziati in merito fallissero, sostenendo che “150 milioni di persone, numero previsto per il 2030, non possono stare in una prigione geografica”.

Un punto di vista non condiviso dai paesi confinanti disposti a permettere all’Etiopia l’utilizzo dei loro porti per scopi commerciali, ma fermamente contrari a cedere porzioni del proprio territorio.

Interessante, in questo contesto, l’analisi di Debesai Tesfu, studioso eritreo, che ne evidenzia le criticità, analizzando alcuni articoli pubblicati dalla ricercatrice etiopica Blen Mamo Diriba, affiliata all’Istituto per gli Affari Esteri. I temi da lei trattati sono principalmente tre. Il primo è la negazione da parte dell’Etiopia del dato geografico riguardante l’Eritrea, ovvero la presenza di una lunga linea costiera, con relativi accessi al mare. Segue la convinzione secondo cui l’Etiopia avrebbe un “interesse strategico” all’accesso marittimo. Infine, la proposta perché si arrivi a un “trattato con l’Eritrea” che, sotto supervisione internazionale, regoli l’uso dei suoi porti.

Per il premier Abiy Ahmed la conquista di un porto e l’accesso alla costa sul Mar Rosso sono imprescindibilmente legati alla supremazia dell’Etiopia. Ritiene che il paese più grande e popoloso del Corno d’Africa debba possedere un porto, a tutti i costi.

La ricercatrice etiopica si spinge oltre, ipotizzando la possibilità che l’Etiopia si “riprenda” Assab. La tensione è palpabile già nel titolo di uno dei suoi articoli: “potrebbe Assab diventare la Crimea d’Africa?”.
Nell’articolo, poi rimosso dal web, Blen Mamo Diriba legittima, o quanto meno contempla, una riannessione unilaterale di Assab da parte dell’Etiopia, sull’esempio dell’occupazione russa della Crimea nel 2014. Il punto centrale del paragone è il passaggio dal piano commerciale a quello della sovranità territoriale. Non più trattati o diritto marittimo, ma conquista militare.

Espressioni come “autonomia eritrea” o “sovranità eritrea” ricorrono spesso nei suoi scritti.
Per comprenderne appieno il significato occorre fare un passo indietro.

Negli anni Cinquanta l’Eritrea perse ogni forma di autonomia, prima con la federazione imposta dalle Nazioni Unite, poi con l’annessione forzata da parte di Hailè Selassiè. Per riconquistare l’autonomia necessaria a costruire il proprio Stato, l’Eritrea ha dovuto combattere trent’anni, (1961-1991), prima contro l’imperatore, poi contro la giunta militare del Derg di Menghistu Haile Mariam. Il 24 maggio 1991 è infine diventata uno stato sovrano, con un territorio delimitato da confini coloniali, che comprendono i porti di Assab e Massawa.

Blen Mamo Diriba affronta anche la questione dell’accesso al mare proponendo un possibile “trattato bilaterale con l’Eritrea”, fondato sui principi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS). Cita una clausola per cui l’Etiopia potrebbe avere i porti, senza tuttavia intaccare la sovranità eritrea, grazie a una cosiddetta “interfaccia marittima”.

Ma di cosa si tratta, esattamente? Innanzitutto, va ricordato che l’Eritrea non ha mai negato l’accesso ai suoi porti per attività commerciali e che esistono da tempo zone di libero scambio a Massawa e Assab.

Cosa implicherebbe dunque questa “interfaccia marittima”? L’ obiettivo è creare una base navale e militare. Secondo Abiy, infatti, senza una marina, l’Etiopia perderebbe prestigio. Ma difficilmente quest’argomentazione troverebbe spazio nel diritto internazionale.

Restano molti interrogativi. Come potrebbe Addis Abeba “ottenere una rotta marittima indipendente”, non avendo sbocchi sul mare, senza violare la sovranità degli Stati vicini? E ancora, come potrebbe esercitare la propria autonomia marittima poiché è uno stato con confini geografici solo terrestri? Se il Mar Rosso è un bene comune marittimo, cosa implicherebbe rispettare l’autonomia eritrea? Che il controllo dei porti diventerebbe etiopico?

Infine, la domanda più inquietante: il Mar Rosso potrebbe scatenare una nuova guerra?

Finora abbiamo seguito la critica eritrea alle pretese etiopiche, che confondono l’accesso al mare con il possesso territoriale. Nessuna legge internazionale può obbligare un paese costiero a cedere la propria sovranità per accontentare un vicino senza sbocco sul mare.

Chi sostiene un diritto etiopico al mare richiama spesso Ras Alula, il generale che ai primi del Novecento, durante l’occupazione italiana dell’Eritrea, definì “il Mar Rosso, frontiera naturale dell’Etiopia”. Ma già allora non era così. Il riferimento storico corretto rimanda al Trattato di Uccialli, firmato il 2 maggio 1889 dal conte Pietro Antonelli e da Menelik. Dopo la sconfitta italiana di Adua il trattato diventa nullo e, con la pace di Addis Abeba, Menelik riconosce l’Eritrea come entità statale, definita dai confini coloniali italiani, dal fiume Mareb fino ad Assab, sulla cui baia, già nel 1879, era stata issata la bandiera della compagnia navale Rubattino. 

Paradossalmente, è proprio quest’eredità coloniale a dimostrare che l’Etiopia non ha mai avuto sovranità sui porti eritrei.

Trent’anni fa, afferma Abiy, l’Etiopia, con una popolazione di 47 milioni di persone, possedeva due porti. Ma, dopo la guerra contro l’Eritrea (1998-2000), visti i rapporti sempre più tesi, non è rimasta altra scelta che utilizzare il porto di Gibuti, rimpiangendo Assab.

Tuttavia, come già ricordato, i porti eritrei sono stati etiopici solo nel periodo dell’annessione.

Gli Accordi di Algeri (2002) invece, successivi al conflitto, non hanno modificato i confini marittimi eritrei.

In questi due anni i paesi vicini all’Etiopia hanno preso nettamente le distanze dalle sue mire espansionistiche. La Somalia ha dichiarato che “le questioni territoriali non sono soggette a negoziazioni”. Analoga la posizione di Gibuti che ha ribadito che “in quanto paese sovrano non può vedere messa in discussione la sua integrità territoriale”. Più cauta, ma comunque chiara, la reazione ufficiale dell’Eritrea che ha definito “eccessivi” i discorsi, reali e presunti, sull’acqua, sull’accesso al mare e altri temi affini.

Ma l’Etiopia reggerebbe un nuovo conflitto? 

La guerra interna tra governo e Tplf (Tigray People’s Liberation Front), combattuta nella regione del Tigray, ha provocato 600 mila morti e milioni di sfollati. Anche se formalmente conclusa, con l’accordo di Pretoria (2022), ha lasciato spazio a un altro scontro durissimo, tuttora in corso, nella regione Amhara.

Sembra ormai molto lontano quel 2018 in cui l’insediamento del nuovo premier, Abiy Ahmed, lasciava sperare in una stagione di pace e sviluppo, sia in Etiopia che nell’intero Corno d’Africa.

Oggi la crescita economica dell’Etiopia ha perso slancio e l’inflazione supera il 30 per cento.

Molti dei progetti in corso, per esempio quelli urbanistici nella capitale, sembrano solo di facciata. Per la gente comune la vita quotidiana è sempre più difficile. Il potere d’acquisto della classe media è eroso al punto che persino il Premier consiglia di mangiare pane e banane.

Secondo diversi analisti Abiy punta al Mar Rosso per risvegliare un orgoglio nazionale sopito. Una pericolosa via d’uscita dalla peggiore crisi imboccata dal paese, che rischia di travolgerlo.

In questo contesto di instabilità interna e tensioni regionali, la battaglia per l’accesso al Mar Rosso rischia davvero di diventare una miccia pronta ad esplodere.

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