Quali sono e di cosa parlano i romanzi in finale al Premio Strega Europeo 2025
Il 18 maggio al Salone Internazionale del Libro di Torino si scoprirà il vincitore. Qui ve li raccontiamo
Premio Strega Europeo 2025, quali sono e di cosa parlano i romanzi finalisti
Il Premio Strega Europeo, giunto alla sua dodicesima edizione, rappresenta un omaggio alla ricchezza culturale del continente europeo e ai suoi legami storici e letterari con l’Italia. Istituito nel 2014 in concomitanza con il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea, il premio è promosso dalla Fondazione Bellonci e si propone di celebrare le voci più significative della narrativa europea contemporanea, tradotte in italiano.
La cerimonia di premiazione avrà luogo domenica 18 maggio alle ore 18.30 presso il Circolo dei Lettori a Torino e sarà condotta da Eva Giovannini. L’evento si inserisce in una fruttuosa collaborazione con il Salone Internazionale del Libro di Torino, che ospiterà le presentazioni di ciascuno dei cinque titoli in concorso, offrendo al pubblico l’opportunità di conoscere da vicino autori, opere e traduttori.
I cinque libri selezionati per l’edizione di quest’anno sono:
1) La scoperta dell’Olanda di Jan Brokken (Iperborea), tradotto da Claudia Cozzi, già insignito del Gouden Ganzenveer. L’incontro si terrà giovedì 15 maggio alle 15.45 nella Sala Azzurra, con Alessandro Zaccuri.
2) Theodoros di Mircea Cărtărescu (Il Saggiatore), tradotto da Bruno Mazzoni, vincitore del Dublin Literary Award, sarà presentato domenica 18 maggio alle 11.45 nella Sala Bianca, insieme a Maurizio Crosetti.
3) La metà della vita di Terézia Mora (Gramma Feltrinelli), traduzione di Daria Biagi, insignito del Georg Büchner Preis, se ne parlerà sabato 17 maggio alle 12.45 nella Sala Internazionale con Helena Janeczek.
4) Il giorno dell’ape di Paul Murray (Einaudi), nella versione italiana curata da Tommaso Pincio, già vincitore dell’Irish Book Award, sarà protagonista sabato 17 maggio alle 17.00 nella Sala Azzurra con Sandro Veronesi.
5) L’ultima sirena di Iida Turpeinen (Neri Pozza), tradotto da Nicola Rainò e premiato con l’Helsingin Sanomat Literature Prize, verrà presentato venerdì 16 maggio alle ore 16.00 nella Sala Internazionale con Dente.
La giuria del premio è composta da venticinque scrittrici e scrittori italiani, tutti vincitori o finalisti del Premio Strega, tra cui figurano nomi noti della letteratura nazionale come Marco Amerighi, Silvia Avallone, Donatella Di Pietrantonio, Paolo Giordano, Melania G. Mazzucco, Antonio Scurati, Domenico Starnone e Sandro Veronesi. Il Premio Strega Europeo si conferma così un importante spazio di incontro e confronto fra culture, lingue e sensibilità narrative, sottolineando il ruolo cruciale della traduzione e della letteratura nel dialogo fra i popoli del continente.
1) La scoperta dell’Olanda di Jan Brokken (Iperborea)
Con La scoperta dell’Olanda Jan Brokken torna a esplorare le pieghe dimenticate della storia europea, questa volta volgendo lo sguardo verso il proprio Paese natale. Con l’eleganza che gli è consueta e l’arte sottile dell’aneddoto come strumento conoscitivo, lo scrittore olandese ricompone, come in un mosaico, il ritratto lirico di un microcosmo sospeso fra luce e acqua, tradizione e cosmopolitismo: il villaggio costiero di Volendam.
Nucleo pulsante del libro è l’Hotel Spaander, sorto nel 1881 su iniziativa di Leendert Spaander, figura visionaria che trasformò una semplice locanda in rifugio per spiriti inquieti e talenti artistici. Situato tra le nebbie e i riflessi marini dello Zuiderzee, il piccolo albergo attirò, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, più di 1.500 artisti provenienti da ogni angolo d’Europa: da Pissarro a Signac, da Kandinskij a Renoir, passando per voci meno note ma non meno affascinanti come Marianne Stokes o Gari Melchers. Un crogiolo libero e accogliente, dove donne escluse dai cenacoli parigini trovarono ascolto e pari dignità, ben prima che le rivendicazioni femminili si facessero discorso pubblico.
Tuttavia, i veri protagonisti del libro sono elementi impalpabili: la luce olandese, diffusa e cangiante, che secondo Brokken “non è mai grigia o azzurra, ma un’inesauribile tavolozza di sfumature”, e l’acqua, onnipresente, che forma e deforma paesaggi e destini. Il mare del Sud – ora prosciugato dalla grande diga dell’Afsluitdijk – offriva allora scorci irripetibili: lavandaie immerse fino alla vita, pescherecci tra le nebbie, reti stese al sole, visi scavati dalla salsedine. L’arte nasceva in simbiosi con la natura: “Qui – ricorda Brokken – la realtà sembrava predisporsi da sé in forma di quadro”.
Con uno stile fluido e avvolgente, che accosta narrazione, saggio e memoir, Brokken ci guida in un affascinante pellegrinaggio nella storia culturale europea pre-Ue, laddove le differenze non separavano ma arricchivano. Il suo racconto è stratificato, mobile, come il paesaggio che descrive. Attraverso le parole, Brokken dipinge una “geografia della memoria” in cui ogni nome – di artista, di piatto tipico, di via o canale – diventa punto di accesso a una vicenda più ampia.
Oltre a celebrare un capitolo dimenticato dell’arte moderna, La scoperta dell’Olanda si fa riflessione sottile sulla tolleranza, sullo spirito comunitario e sull’ospitalità. “Questo libro – ha dichiarato l’autore in un’intervista all’ANSA – è un elogio della convivenza possibile. I pescatori di Volendam, semplici e spesso analfabeti, accolsero gli stranieri con apertura e rispetto: una lezione per il nostro presente smarrito”. L’hotel divenne così non solo un atelier collettivo, ma un laboratorio di Europa ante litteram, dove il dialogo era prassi quotidiana e l’arte un ponte tra culture.
Brokken, classe 1949, è autore di una prolifica produzione che spazia dal reportage al romanzo biografico. Dopo il successo internazionale di Anime baltiche, Il giardino dei cosacchi e La suite di Giava - quest’ultimo incentrato sul passato coloniale olandese –, con La scoperta dell’Olanda affronta per la prima volta una storia profondamente radicata nella terra natale. Come lui stesso osserva: “Forse solo chi ha vissuto a lungo altrove è in grado di cogliere le sfumature della propria patria”. Il risultato è un’opera in cui la narrazione del sé si intreccia alla grande storia dell’arte e della civiltà.
Le Monde lo definisce “uno dei più grandi scrittori olandesi viventi”; il pubblico italiano, attraverso le edizioni Iperborea, ha potuto apprezzarne negli anni la prosa nitida e il rigore documentaristico. La scoperta dell’Olanda è stata accolta con favore tanto dalla critica quanto dai lettori, per la sua capacità di evocare atmosfere perdute e restituire umanità a luoghi ormai turistici. “Tutti questi artisti – ha dichiarato Brokken a MicroMega – fecero l’Europa prima che esistesse l’Unione Europea”.
La scoperta dell’Olanda è molto più di un libro su Volendam. È un’ode alla libertà creativa, una celebrazione della diversità come valore, un esercizio di memoria contro l’omologazione del presente. Lo consiglio a chi ama i racconti che svelano ciò che è nascosto, a chi cerca nella letteratura un varco per comprendere il passato e illuminare il presente. Un libro prezioso, raffinato, che incanta e fa riflettere.
2) Theodoros di Mircea Cărtărescu (Il Saggiatore)
In Theodoros Mircea Cărtărescu compone un affresco vertiginoso della brama umana di potere, un’epopea che attraversa secoli e geografie, storia e mito, ragione e follia. Pubblicato in Italia da Il Saggiatore nella traduzione di Bruno Mazzoni, il romanzo si impone come un’opera monumentale, in cui ogni pagina sembra interrogare la vertigine del desiderio umano: governare o perire. Non un semplice romanzo storico, ma una costruzione letteraria che dissolve i confini fra realtà e visione, scrittura e rivelazione.
La parabola di Theodoros – nato come Tudor, servo adolescente in Valacchia, divenuto pirata, comandante e infine incoronato Tewodros II, imperatore d’Etiopia – si snoda lungo tremila anni di narrazione. Un’esistenza che incarna ogni metamorfosi possibile: da garzone a condottiero, da ribelle a sovrano, da uomo a leggenda. La sua vita è narrata da una voce ultraterrena, quella dei sette Arcangeli che, nel giorno del Giudizio, compilano il resoconto dell’anima del protagonista. Tale stratagemma narrativo – onnisciente ma coinvolto, divino ma fallibile – conferisce al testo una tensione metafisica, un’eco biblica.
Theodoros incarna l’ambizione assoluta, quella “voglia metafisica di potere” che lo spinge a sfidare Dio stesso. Il suo cammino lo conduce dai Carpazi innevati alle isole greche, dai deserti etiopi alle corti europee, in un susseguirsi di conquiste, perdite, ascesa e rovina. Come dice l’autore: "Theodoros è un archetipo. Incarna tutti i tiranni del mondo. È uscito al momento giusto, in un’epoca popolata di Theodoros reali" (L’Espresso).
Tra i momenti più folgoranti vi è la morte della giovane Stamatina, compagna amata e contraltare etico del protagonista, che spezza ogni residua tenerezza in lui. Ma è nell’epilogo – il suicidio di Theodoros con una pistola d’oro donatagli dalla regina Vittoria – che si condensa la tragedia del personaggio: l’impossibilità di conciliare l’olio santo e il sangue, il sacro e il profano, la salvezza e la dannazione.
«Hai fatto ciò che è male agli occhi del Signore… Per tutta la vita hai cercato di conciliare l’olio santo e il sangue», scrivono gli Arcangeli. È un giudizio definitivo ma non senza pietà, un epitaffio per chi ha osato troppo.
A rendere Theodoros un’opera irripetibile è la sua struttura torrenziale. Diviso in tre libri e lungo oltre 700 pagine, il romanzo non obbedisce a una logica cronologica, ma a un tempo circolare e simbolico, dove coesistono la storia di Menelik e quella di John Lennon, i miti biblici e le navi a vapore, l’Arca dell’Alleanza e i dagherrotipi. Come spiega Cărtărescu in un’intervista: "Non volevo un romanzo filosofico o totalizzante, ma un accumulo di narrazioni, una Bibbia postmoderna" (Bookcity Milano).
A proposito della narrazione celeste, dichiara: "Sono sempre stato attratto dai testi che si muovono tra terra, paradiso e inferno. Per questo ho affidato la voce narrante agli Arcangeli" (sempre L’Espresso). Il risultato è un racconto che vibra su più livelli, in cui ogni evento storico si specchia in un destino eterno, e ogni gesto individuale si riverbera nell’ordine cosmico.
La lingua di Cărtărescu è una corrente impetuosa, densa di immagini, suoni, riferimenti sacri e profani. Il suo stile è musicale, liturgico, infuocato. Come afferma lo stesso autore a Music & Literature: "Scrivere è per me come respirare. Non è una professione, è un atto di fede. Io non riscrivo: ogni pagina mi viene rivelata mentre scrivo, come se togliessi la vernice da un testo già esistente". In questa confessione si cela la chiave della sua poetica: la scrittura come epifania.
In Theodoros si intrecciano ossessione per il potere, spiritualità, mito, eresia e destino. Il protagonista insegue una visione, un sogno imperiale che affonda le radici nel Kebra Nagast, il testo sacro etiope. In esso trova la genealogia mitica che lo legittima: il figlio della regina di Saba e del re Salomone. Ma la sua ricerca dell’Arca dell’Alleanza è anche un pellegrinaggio interiore, un tentativo di dare senso alla propria esistenza divorante.
"Non c’è differenza tra magia e tecnologia – afferma Cărtărescu intervistato da L’Espresso - Anche la poesia è tecnologia avanzata, che ci connette all’invisibile». Ed è proprio questo che il romanzo propone: un universo dove la meccanica quantistica convive con le profezie bibliche e dove il male si rivela specchio deformante del nostro io.
Cărtărescu, nato a Bucarest nel 1956, è unanimemente considerato il massimo scrittore romeno vivente e una delle voci più importanti della letteratura europea. Autore della trilogia Abbacinante e del celebrato Solenoide, ha ricevuto numerosi premi internazionali, tra cui il Prix Formentor, il Los Angeles Times Book Prize e il Mondello Internazionale. In Theodoros, rispetto alle sue precedenti opere più introspettive, l’autore si apre alla dimensione epica, restando però fedele al suo stile visionario e filosofico.
Consiglio Theodoros a chi desidera smarrirsi in un labirinto letterario, a chi non teme la vertigine del linguaggio, a chi cerca nella narrativa un’esperienza assoluta. È un romanzo che interroga l’abisso umano, che trasfigura la storia in simbolo, che canta la gloria e la disfatta dell’ambizione. Un libro che non si legge, ma si attraversa: come un deserto sacro, come un tempio in rovina, come un sogno che non ha fine.
3) La metà della vita di Terézia Mora (Gramma Feltrinelli)
Con La metà della vita, Terézia Mora consegna alla letteratura europea un’opera di straordinaria intensità emotiva, nella quale il vissuto individuale si fonde inestricabilmente con le fratture della Storia. Romanzo perturbante e profondo, pubblicato in Italia da Gramma/Feltrinelli nella traduzione limpida di Daria Biagi, si impone come uno dei più rilevanti ritratti femminili della narrativa contemporanea, avvolgendo il lettore in un flusso narrativo che oscilla tra vulnerabilità e lucidità, ossessione e rinascita.
Nata nel 1971 a Sopron, in Ungheria, Terézia Mora vive a Berlino dal 1990. Traduttrice dal magiaro – in particolare delle opere di Péter Esterházy – e scrittrice pluripremiata, tra i suoi riconoscimenti spiccano il Deutscher Buchpreis e, nel 2018, il prestigioso Georg Büchner Preis. Mora è nota per la sua prosa cesellata e per la capacità di dar voce a personaggi marginali: rifugiati, disoccupati, individui in bilico tra lingue, identità e appartenenze. In La metà della vita, per la prima volta, pone al centro della narrazione una donna, la memorabile Muna Appelius.
Muna ha diciotto anni e vive a Jüris, una cittadina della DDR che sta per dissolversi nel magma della Storia. Cresciuta accanto a una madre attrice e alcolizzata, segnata dalla morte precoce del padre, Muna coltiva il sogno di scrivere. Il suo primo amore è Magnus, un enigmatico fotografo dagli occhi glaciali e l’indole sfuggente. Dopo una notte trascorsa insieme, l’uomo scompare, lasciandola preda di un’ossessione che l’accompagnerà lungo tutto il romanzo. Anni dopo, lo incontra di nuovo e si inabissa in un rapporto tossico e manipolatorio, che diviene gabbia affettiva, prigione dell’anima.
Attorno a loro ruotano figure evanescenti: amanti distratti, intellettuali superficiali, compagni passeggeri. Nessuno, però, riesce a incrinare il magnetismo doloroso che lega Muna a Magnus. Lei cambia città, attraversa Berlino, Vienna, Londra, muta pelle, ma non riesce a sciogliere il nodo dell’autoannientamento affettivo.
La scrittura di Mora è penetrante, precisa, affilata come un bisturi; ogni frase è scolpita con rigore, evitando la facile retorica. L’io narrante di Muna si alterna a lettere mai inviate, dialoghi mutilati, pensieri censurati: una polifonia intima che rende tangibile la progressiva perdita di sé. Il romanzo è scandito in sequenze temporali che tracciano un arco esistenziale ampio, corrispondente alla metà simbolica della vita: una discesa e un riscatto.
Il tono, a tratti sarcastico, nasconde una malinconia profonda. La narrazione non cede mai al patetismo: è l’osservazione implacabile di una spirale autodistruttiva che, attraverso la parola, trova un’imprevista possibilità di riscatto. La prosa di Mora, definita “una bestia inquietante” da Die Zeit, è luminosa nella sua crudezza.
Nel cuore del romanzo vi è il conflitto tra dipendenza affettiva e desiderio d’autonomia. L’amore qui non redime, ma corrode. Muna è l’emblema di un femminile che sopravvive ai ruoli imposti, ai ricatti emotivi, alle false promesse di salvezza. La DDR non è sfondo nostalgico, bensì simbolo di una generazione spiazzata dalla libertà improvvisa, costretta a reinventarsi tra rovine fisiche e morali.
Magnus, incarnazione di un maschile anaffettivo e disinteressato, diviene il fulcro intorno al quale ruota l’interrogativo centrale: ci innamoriamo di chi abbiamo di fronte o della nostra idea di lui? Questo dubbio dilania Muna per anni, fino a trasformarla in autrice della propria narrazione. Scrivere, alla fine, è l’unico gesto liberatorio.
La metà della vita ha suscitato ammirazione unanime in Germania. La Süddeutsche Zeitung ha definito Muna “una figura familiare e perturbante”, mentre Buchkultur ha salutato il romanzo come “doloroso e necessario”. SWR2 ha elogiato la capacità dell’autrice di descrivere “l’isolamento con onestà spietata”, senza didascalismi.
In una conversazione con Die Zeit, Mora ha dichiarato: “Scrivere è una lotta continua con ciò che è dicibile. Ma è anche il nostro compito: non confezionare trame, ma affrontare la complessità”. Questo principio guida la sua opera: niente è edulcorato, tutto è verosimile e quindi universale.
Intervistata da Vanity Fair Italia, Mora ha raccontato che la caduta del Muro fu vissuta da lei “non come liberazione assoluta, ma come smarrimento”. Muna, ha aggiunto, “rappresenta chi si aggrappa a un amore sbagliato mentre tutto intorno cambia”. E ancora: “Anche i grandi eventi non risolvono i drammi privati. Se sei infelice, lo resti anche dopo una rivoluzione”.
Consiglio questo romanzo a chi cerca una storia sincera e disturbante, che interroga i sentimenti senza inganni. La metà della vita è un capolavoro di introspezione, che racconta l’amore non come salvezza, ma come sfida al proprio annientamento. È un libro che non consola, ma accompagna, e quando si chiude l’ultima pagina resta una voce: quella di Muna, fragile e incrollabile, che continua a domandare: chi siamo, davvero, quando perdiamo noi stessi per qualcuno?
4) Il giorno dell’ape di Paul Murray (Einaudi)
Con Il giorno dell’ape Paul Murray firma una delle opere narrative più ardite e raffinate del nuovo millennio, un romanzo-fiume che si insinua nelle crepe della famiglia contemporanea per rivelarne, con chirurgica pietà, le fratture più intime. Giunto in Italia con il prestigioso sigillo di Einaudi e già osannato nel mondo anglosassone – finalista al Booker Prize, vincitore dell’Irish Book Award e del Nero Book Award –, questo libro non è solo un’opera di fiction, ma una riflessione corrosiva sul presente, capace di unire la malinconia della disillusione alla grazia dell’umorismo.
Nato a Dublino nel 1975, Murray ha frequentato il Trinity College e conseguito un master in scrittura creativa presso l’University of East Anglia. La sua notorietà esplose con Skippy muore (2010), un romanzo adolescenziale dalle tinte gotiche, e si consolidò con The Mark and the Void (2015), satira acuminata del capitalismo finanziario. In Il giorno dell’ape – titolo originario The Bee Sting – la sua penna raggiunge una maturità espressiva sorprendente, fondendo realismo psicologico e suggestioni mitologiche, ironia mordace e tenerezza empatica.
Ambientato in un villaggio irlandese apparentemente tranquillo, il romanzo racconta la progressiva implosione della famiglia Barnes. Dickie, patriarca silenzioso e inetto, fugge dall’inevitabile fallimento della sua concessionaria automobilistica costruendo un bunker; la moglie Imelda, ex Miss Irlanda, cerca conforto nella vendita compulsiva dei propri beni su eBay; la figlia Cass, adolescente brillante, si rifugia nella poesia e in relazioni distruttive, mentre PJ, il fratellino dodicenne, coltiva fantasie di fuga.
Ognuno vive il naufragio a suo modo, in solitudine. Il romanzo si dipana attraverso prospettive alternate, ognuna cucita su misura, che restituiscono un coro familiare polifonico: voci distinte e vere, tra crisi economiche, lutti mai elaborati, identità in frantumi e silenzi pesanti come condanne.
Murray adotta una lingua che sa essere caustica e lirica, franca e controllata, alternando registri in modo vertiginoso. Ci sono flussi di coscienza degni di Joyce, intermezzi grotteschi, riflessioni filosofiche sulla poesia e la morte, e persino squarci di folklore – come la cupa presenza dei Sidhe, entità mitiche del paesaggio irlandese, che incarnano la persistenza del passato nel presente.
Come afferma l’autore in un’intervista a The Guardian, "l’Irlanda è un luogo dove si è imparato a non affrontare il dolore direttamente, ma a raccontarlo attraverso storie". Il giorno dell’ape è la più grande di queste storie, una narrazione tentacolare che rivela quanto l’infelicità familiare sia sempre specifica, ma universalmente condivisibile.
Al centro del romanzo si stagliano le ossessioni che attraversano tutta la produzione di Murray: la rovina economica come trauma collettivo, l’ambiente come spettro silente, la memoria come fardello. La poesia emerge in qualità di controcanto salvifico: Cass, dopo un percorso doloroso, pubblica un componimento che rappresenta un atto di resistenza simbolica. Come dice Murray: "Scrivere una poesia è come lanciare un sassolino contro un missile nucleare, ma può dare senso alla vita, anche solo per un istante".
E se Skippy muore mostrava adolescenti in fuga da un sistema educativo soffocante, qui si avverte un salto di densità e consapevolezza: Il giorno dell’ape si rivolge al mondo intero, lo interroga, lo sfida, lo racconta con compassione tagliente.
Acclamato da critici e colleghi illustri – Bret Easton Ellis lo ha definito “il romanzo più bello dell’anno”, mentre The Times l’ha paragonato a Le correzioni di Franzen – Il giorno dell’ape ha conquistato anche la critica italiana. Sandro Veronesi lo ha salutato come "uno dei più importanti romanzi di questo secolo", mentre Stefania Vitulli ha celebrato la sua architettura perfetta, il suo equilibrio tra dramma e ironia.
Come ricorda Murray stesso: "Ho riversato tutta la mia tristezza nel libro, e poi sono andato a farmi un panino. Scrivere mi ha permesso di guardare il buio e tornare alla luce". Le sue parole, semplici e disarmanti, racchiudono l’essenza di quest’opera: un libro che affronta l’abisso per riaffermare la bellezza irriducibile della vulnerabilità umana.
Consiglierei Il giorno dell’ape a chi cerca una lettura che scuota e consoli, che faccia ridere e pensare, che parli con sincerità dell’essere vivi in tempi complicati. È un romanzo che, con grazia sovversiva, ci ricorda che anche nel dolore più opaco esiste una scintilla di luce, e che, come le api del titolo, siamo creature fragili ma capaci di difenderci, fino all’estremo sacrificio, pur di proteggere ciò che amiamo.
5) L’ultima sirena di Iida Turpeinen (Neri Pozza)
Opera prima della scrittrice finlandese Iida Turpeinen, L’ultima sirena si staglia con luminosa originalità nel panorama letterario europeo, accostando rigore scientifico e sensibilità narrativa con una maestria che lascia stupiti. Pubblicato in Italia da Neri Pozza nella pregevole traduzione di Nicola Rainò, il romanzo si impone come una riflessione intensa e avvolgente sul fragile legame tra l’umanità e l’ambiente che la ospita, attraverso il racconto di una creatura scomparsa: la ritina di Steller, un essere reale ma ormai quasi mitologico.
Nata nel 1987 e residente a Helsinki, Iida Turpeinen possiede una formazione in letterature comparate e si distingue per l’interesse verso l’intersezione tra scienza naturale e narrazione letteraria. L’ultima sirena è il suo esordio narrativo, ma già un caso internazionale: vincitore dell’Helsingin Sanomat Literature Prize, ha ottenuto l’attenzione di pubblico e critica, venendo tradotto in ventisette lingue e selezionato per premi di rilievo come il Finlandia Prize e il Torch-bearer Award. Non una semplice opera prima, dunque, ma un manifesto di una nuova forma di racconto, che intreccia biologia, ecologia, filosofia e antropologia con la grazia di una favola colta.
Il racconto si snoda lungo un arco temporale di tre secoli, muovendo dal 1741, anno della spedizione russa nel Mare di Bering guidata dal danese Vitus Bering e accompagnata dal naturalista tedesco Georg Wilhelm Steller. Naufragati su un’isola sperduta del Pacifico settentrionale, i pochi superstiti si salvano nutrendosi di un enigmatico e gigantesco sirenide erbivoro: l’Hydrodamalis gigas, che sarà ribattezzato “ritina di Steller”. Da questa scoperta prende avvio un racconto che si dirama attraverso epoche e paesaggi – dalla Siberia all’Alaska, fino al Golfo di Finlandia – e che coinvolge figure molto diverse: collezionisti ossessivi, scienziati inquieti, ecologisti ardenti, donne dimenticate dalla storia della scienza.
Il romanzo attraversa altri due momenti cruciali: nel 1859 il governatore Furuhjelm della Compagnia russo-americana, nel tentativo di arricchire le proprie collezioni zoologiche, si mette sulle tracce della leggendaria creatura ormai creduta estinta; nel 1950 il tassidermista finlandese John Grönvall tenta di ricomporre lo scheletro di una ritina per il Museo di Storia Naturale di Helsinki. È proprio attraverso queste vite intrecciate, segnate dalla meraviglia, dall’avidità e dal desiderio di conoscenza, che il romanzo costruisce una polifonia di sguardi sull’umano e sul vivente.
L’elemento geografico è molto più di uno sfondo: è una presenza viva, attiva, mutante. Dalle isole disabitate della Kamčatka alla costa rocciosa del Mare di Bering, dai laboratori museali immersi nella neve scandinava al Pacifico infestato da ricci di mare, ogni ambiente contribuisce a definire il destino dei protagonisti, umani e animali. Turpeinen mostra un acuto senso ecologico, rievocando le modificazioni dell’ecosistema in seguito all’introduzione dell’uomo, e in particolare alla sua insaziabile tendenza predatoria.
Come ha dichiarato in un’intervista, “scrivere significa cercare un equilibrio tra stupore e responsabilità”: ed è precisamente questo che traspare dalle sue pagine, che si muovono tra incanto e consapevolezza, senza mai indulgere nel moralismo.
La prosa di Turpeinen è sobria ma immaginifica, priva di dialoghi convenzionali, e costruita su paragrafi densi, che somigliano a capitoli di un trattato poetico. Ne emerge un andamento epico, quasi liturgico, dove ogni parola è cesellata con cura. In un passaggio memorabile, si legge: «Sotto la superficie balenano ombre di trenta piedi di lunghezza. Che bestie incredibili, magnifiche! Contano cinquanta dorsi, e i rematori diventano inquieti... Una sirena saluta la barca con occhi miopi e dolci».
O ancora, nel lirico affresco dell’evoluzione: «I pesci imparano a usare le pinne, avanzando sul fondale a passi alternati, gli arti diventano muscolosi, i polsi si rafforzano. Alla fine hanno tutto ciò che serve per la vita sopra la superficie, e il pesce è pronto a spingersi sulla terraferma».
La stampa finlandese ha celebrato unanimemente il debutto di Turpeinen: il Suomen Kuvalehti ne ha lodato “l’incredibile armonia fra conoscenza e immaginazione”, mentre l’Helsingin Sanomat ha scritto che il romanzo “toglie il fiato”. Il successo si è esteso rapidamente oltre i confini nordici, trasformando L’ultima sirena in uno degli esordi più acclamati alla Fiera di Francoforte.
Consiglierei L’ultima sirena a chiunque senta il bisogno di un racconto che, senza rinunciare alla bellezza della parola, interroghi il nostro ruolo nel mondo. È un’opera che insegna senza didascalismi, commuove senza sentimentalismi, affascina con rigore. Un libro che unisce il potere della letteratura alla profondità della scienza, mostrando che anche un animale perduto può parlarci ancora, se siamo capaci di ascoltare.