Il “diabetologo degli ultimi e degli emarginati”: la storia del professor Cimino e della comunità srilankese a Milano

Vincenzo Cimino è divenuto da anni il punto di riferimento per tanti emarginati che vivono nelle case popolari milanesi. E per questo ora è stato candidato all'Ambrogino: “Un riconoscimento per loro, non per me”. L'intervista.

di Enrico Liverani
Milano

Il “diabetologo degli ultimi e degli emarginati”: la storia del professor Cimino e della comunità srilankese a Milano

Noto a Milano come il “diabetologo delle case popolari”, Vincenzo Cimino ha instaurato negli anni un legame speciale con la comunità srilankese. Persone ai margini, spesso invisibili, ma che contribuiscono ogni giorno a mandare avanti con il loro lavoro la città. Ora la comunità srilankese ha ricambiato avviando il percorso che ha portato alla candidatura di Cimino per l'Ambrogino d'Oro. Intervistato da Affaritaliani.it Milano, il professore commenta: “La cosa importante di questo Ambrogino d’Oro non è quello che ho fatto io, ma è per chi l’ho fatto: per gli ultimi della società. E sapete perché sono diventato il loro riferimento a Milano? Perché non c'è nessun altro che si è voluto avvicinare a loro...” L'INTERVISTA

 

Dottor Cimino, nella lettera che la candida all’Ambrogino d’Oro viene sottolineato il suo impegno in aiuto delle “persone che troppo spesso si sentono ai margini”, così come il suo “rapporto speciale con la comunità srilankese di Milano”.

La cosa importante di questo Ambrogino d’Oro non è quello che ho fatto io, ma è per chi l’ho fatto: per gli ultimi della società. Perché chi vive all’interno di una casa popolare, di fatto, vive all’interno di un ghetto. Queste persone sono come le rose del deserto: possono passare senza che nessuno se ne accorga, quando, invece, di fatto sono impegnate all’interno della nostra società, sono impegnate all’interno di un tessuto sociale, perché sono lavoratori. Noi da una parte li vediamo integrati perché fanno i custodi dentro quasi tutti i palazzi del centro, fanno i domestici, quest’anno abbiamo avuto il primo magistrato in Italia di origine dello Sri Lanka (a Palermo, una ragazza). Ma dall’altra parte, forse, noi non ci stiamo accorgendo che ad un isolamento sociale abbiamo dato anche un isolamento culturale; li abbiamo messi nella loro comunità quando di fatto la comunità è tutta l’umanità.

Come è iniziato il suo lavoro nelle loro comunità?

Io faccio il diabetologo: so che il diabete in un paziente dello Sri Lanka a Milano è differente rispetto al diabete di un paziente dello Sri Lanka a Londra, come è differente rispetto ad un paziente calabrese piuttosto che ad un paziente veneto; è una questione di predisposizione genetica. E durante il Covid i pazienti più a rischio erano i pazienti col diabete: quando ci sono state le restrizioni noi non sapevamo niente di come curare il Covid e il diabete, avevamo i pazienti chiusi dentro casa e noi fuori che eravamo lì in attesa di qualcosa. Ma come potevo curare a distanza un qualcosa che non sapevo che cosa fosse? E quindi ho deciso di andare alle case popolari, di andare a vederli di persona, anche perché i pazienti che afferivano al Pio Albergo Trivulzio sono di via Meda, Baggio, Lorenteggio. E così mi sono trovato all’improvviso a scoprire cose che mai mi sarei immaginato perché dietro il portone di via Spaventa 1, ci sono città, non so quanti palazzi ci sono là dentro! Tutti che afferiscono a questo giardino: io pensavo che via Spaventa 1 fosse via Spaventa 1 e basta; invece non è così: non può immaginare quello che ho trovato là dentro, non se lo può immaginare.

Come è riuscito a conquistare la loro fiducia? A diventare un elemento di queste comunità?

Perché io mi sono spogliato di tutto, qualunque “stemmino” che potessi avere. Perché andavo lì, portavo l’acqua, portavo il melone, gli parlavo, gli facevo raccontare quello che succedeva da una parte o dall’altra. E piano piano mi sedevo alla loro tavola, piano piano ero io che mi alzavo e lavavo i piatti. Mi creda, questo non vuol dire perdere la dignità del medico, nella maniera più assoluta, perché mi ha consentito di conoscere un mondo nuovo. Loro dentro una casa stanno in tantissimi; loro dentro una casa hanno gli amici, i parenti che ospitano. Ma sono abbandonati a loro stessi, sotto il controllo di nessuno.  Queste persone sono anche in lotta tra di loro: ognuno si fa la guerra, la famosa guerra dei poveri, ma io sono riuscito a fargli capire qual è il senso della comunità. Un giorno, quando conobbi il primo paziente, Ranjith, lui venne, aveva questi fogli in mano - che erano i fogli dei suoi esami - e piano piano, siccome gli avevano parlato bene di me e che io ero disponibile, piano piano, mentre io trascrivevo gli esami, lui mi dice: “Dottore, dottore, posso portare un amico?”. E io gli dico: “Va bene, va bene lo puoi portare.” “E posso portare pure il figlio di un amico?” Nell’arco di una settimana mi avrà portato dieci srilankesi. Loro hanno un grande senso di cooperazione: un paziente dello Sri Lanka che non parla l’italiano viene accompagnato da pazienti che parlano meglio l’italiano e possono fare da interpreti.

Quando ha capito di star raggiungendo dei risultati con questi pazienti?

Io ho dovuto cominciare una nuova medicina e mi sono dovuto adattare a tantissime cose, ma un grande traguardo è stato quando le musulmane hanno preso fiducia di togliersi il velo dalla testa davanti a me per farsi visitare. La medicina interreligiosa è una cosa che non esiste, ma - di fatto - accomuna questi pazienti: quando loro fanno gruppo lo fanno anche in base alla religione.

E lei vede la “medicina interreligiosa” come un’emanazione del diritto universale alla salute?

Certo. Saremmo ipocriti a dire che non è vero che nel 2025 il colore della pelle è ancora un fattore discriminante. Ma i miei pazienti hanno tutte le terapie più innovative che possono esistere per un solo e semplice motivo: quelli dello Sri Lanka sono i pazienti più a rischio.

Lei vede degli sforzi dalla Milano della modernità, della Milano dell’integrazione per arrivare a relazionarsi con queste comunità?

No. E lo sa perché?

Perché?

Perché in tutti questi anni ad andare a via Spaventa ero io con qualche altro collega che mi accompagnava; diversamente non c’era nessuno. Allora, se ci fosse stata questa integrazione nel tessuto sociale, saremmo stati la metà di mille. Invece non è così, non c’era nessuno. Perché io sono diventato il loro riferimento per tutto? Perché io sono diventato il loro interlocutore? Perché altri non ce n’erano!

Quindi la soluzione più facile per risolvere questi problemi è andare lì di persona?

Se lei prende un pezzo di terra da edificare, ma lei questa terra non l’ha mai vista, non sa com’è il contesto di questa terra, come può fare un progetto su questa terra? Bisogna conoscere tutto. Quello delle case popolari, quello delle comunità è un micromondo e questo micromondo va rispettato, però non può essere lasciato isolato. Rispettato non vuol dire ghettizzato, ma vuol dire preoccuparsi di tutte queste cose, pensare prima di agire e poi agire.

Il sindaco Sala ha detto che quest’anno si sono viste molte candidature all’Ambrogino d’Oro che poco avevano a che vedere con la città di Milano e che preferirebbe vedere assegnata l’onorificenza piuttosto ad uno sconosciuto con dei meriti importanti verso la comunità: la sua candidatura rientra in questa categoria?

Certo che la mia candidatura rientra in questa categoria: se l’Ambrogino d’Oro è il premio della città di Milano e dei milanesi, il mio lo hanno chiesto i milanesi.

E’ da qui, quindi, che nasce il suo soprannome “il diabetologo delle case popolari”. Questa definizione la rende orgoglioso?

Orgogliosissimo! Perché io mi sono andato a sporcare le mani cosciente di quello che facevo. Io li sono andati a cercare. Ma se la comunità dello Sri Lanka non avesse chiesto l'Ambrogino d’Oro per me, avrei continuato a lavorare silenziosamente senza necessità di riconoscimento. Orpelli non me ne servono nella vita, io quello che dico è che in silenzio ho fatto qualcosa e questo qualcosa, per le persone per cui l’ho fatto, è stato straordinario. E con questa richiesta loro alzano la mano e dicono “Signori, ci siamo anche noi”. Questa è la particolarità: loro dicono “Esistiamo anche noi”.

In ultimo, quale può essere un consiglio da dare ad un giovane che desidera studiare medicina?

L’unica grande scienza che devono avere è la curiosità. Non fermarsi mai alle apparenze, non fermarsi mai all’ovvietà, ma andare sempre oltre.


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