De Corato sul Caso De Astis: “Campi rom da chiudere, a Milano serve un cambio di passo sulla sicurezza”

L’ex vicesindaco accusa il Comune di immobilismo dopo il caso De Astis e propone un ritorno al modello di sgomberi e controlli attuato dalla sua giunta. L'intervista

di Matteo Respinti
Riccardo De Corato
Milano

Ai microfoni di Affaritaliani.it Milano, Riccardo De Corato (FdI) commenta il caso dell’omicidio stradale di Cecilia De Astis, collegando il tema alla gestione dei campi rom e alla sicurezza urbana. L’ex vicesindaco critica duramente il sindaco Sala, accusandolo di inerzia, e propone di ripristinare il modello di sgomberi e controlli adottato dalla sua amministrazione, con più polizia locale, sgomberi rapidi e l’impiego dell’esercito nelle periferie.

De Corato sul Caso De Astis: “Campi rom da chiudere, a Milano serve un cambio di passo sulla sicurezza”

Nell’intervista ad Affaritaliani.it Milano, Riccardo De Corato (FdI) interviene sul caso dell’omicidio stradale di Cecilia De Astis e rilancia il tema dei campi rom a Milano. Attacca l’amministrazione comunale, accusandola di immobilismo e di non affrontare un problema che, a suo avviso, incide sulla sicurezza dei quartieri. “Serve un cambio di passo, i campi rom vanno chiusi con decisione e alternative concrete”, dichiara l’ex Vicesindaco di Milano.

Onorevole De Corato, il tragico omicidio stradale di Cecilia De Astis, investita da un’auto guidata da un ragazzo di soli 12 anni, ha scosso l’opinione pubblica. Il minore è stato individuato nel campo rom di Chiesa Rossa. Milano è una città insicura? E i campi rom, di cui lei da vicesindaco si è molto occupato, rappresentano un problema per la sicurezza?

Il problema dei campi rom a Milano non nasce oggi. Ricordo bene che nel 2008, con il governo Prodi, furono aperte le frontiere ai nomadi provenienti dall’Est Europa. Arrivarono circa 10.000 rom (rumeni, bulgari, bosniaci…) e si insediarono dove trovavano spazio, soprattutto nelle periferie, occupando aree e dando vita a campi abusivi. Noi, allora in giunta, ci trovammo davanti a un’emergenza e partimmo con sgomberi a raffica. Nel 2008 ne facemmo più di 170 in poche settimane e nel 2010 arrivammo a 531: praticamente due al giorno. Non erano operazioni di facciata: intervenivamo con le ruspe, abbattevamo baracche e capanne, rendevamo il terreno inutilizzabile per evitare nuovi insediamenti.

E oggi invece?

Oggi la situazione è completamente diversa. L’amministrazione assegna case popolari a famiglie rom con minori. E sappiamo che si tratta spesso di famiglie con dieci o quindici figli. Basta un minore per avere diritto a un alloggio comunale. In questo modo sono state tolte case a milanesi e italiani che pagano le tasse e aspettano da anni. La voce è arrivata anche nei Paesi di origine: “A Milano, se hai un bambino, ti danno la casa”. Così molti sono venuti qui proprio per questo.

Il sindaco Sala ha definito “vergognoso speculare” il collegamento tra questo episodio, la presenza dei campi rom e l’insicurezza in città. Rivendica la chiusura di 24 siti in 12 anni e sostiene che la competenza sugli sgomberi spetta alla Prefettura e quindi del Viminale. È davvero così?

No, non è così. Quando eravamo noi a Palazzo Marino, con il prefetto Ferrante (poi candidato del PD) concordammo che a entrare nei campi sarebbe stata la polizia locale, supportata da un blindato della Polizia di Stato. Era una scelta operativa precisa: il Comune aveva un ruolo diretto. Avevamo un nucleo di 50 vigili, che turnavano h24, dedicati solo agli sgomberi. Prima di intervenire usavamo droni per monitorare cosa c’era dietro le recinzioni, perché a volte trovavamo resistenza, cani aizzati, persone pronte ad affrontarci. Gli agenti erano equipaggiati per proteggersi. Sala dice di avere le mani legate, ma noi, con la stessa normativa, facevamo due sgomberi al giorno. In dodici anni, 24 siti chiusi sono pochissimi. Basta chiedere agli ex comandanti della polizia locale dell’epoca: i dati sono documentati.

Alcuni cittadini, di fronte all’ipotesi di sgomberi, potrebbero chiedersi: “Ma poi queste persone dove andranno? Non rischiamo di trovarcele in strada?”. Come risponde a questa preoccupazione?

Noi distinguevamo bene le situazioni. Chi aveva bambini veniva ospitato nei centri di accoglienza comunali, a volte gestiti dalla Caritas. Gli altri, se irregolari, venivano allontanati dalla città. L’obiettivo non era “spostare” il problema da un quartiere all’altro, ma eliminarlo. All’epoca non avevamo l’ondata migratoria che è arrivata dopo, quando Sala nel 2017 ha organizzato le marce pro-immigrazione. Oggi, invece, quei centri sono pieni di extracomunitari e il problema è peggiorato. Noi, all’epoca, avevamo i rom da gestire e lo facevamo con regole chiare.

Nel 2027 si terranno le elezioni amministrative. Ritiene che la sicurezza sarà il tema centrale della campagna elettorale?

Senza dubbio. I dati del Ministero dell’Interno, diffusi dal Sole 24 Ore, dicono che Milano è la città più pericolosa d’Italia. È vero che rispetto al 2022 i reati sono in calo, ma in valori assoluti restiamo davanti a Roma e Napoli. Nella città metropolitana vivono circa 500.000 stranieri regolari e almeno 100.000 clandestini. A Milano ci sono 150.000 islamici e 12 moschee abusive. È questo il contesto in cui succede che un ragazzino di 12 anni rubi un’auto e uccida una donna. Un fatto così non è mai avvenuto a Roma, che è tre volte più grande. Milano è ormai una città dove tutto può accadere.

Concretamente, in caso di nuova amministrazione di centrodestra, quali sarebbero le prime azioni da mettere in campo sulla sicurezza e, in particolare, sulla gestione dei campi rom?

Bisogna ripristinare il modello organizzativo che avevamo noi. La polizia locale era divisa in nuclei: uno per sgomberare i campi rom, uno per liberare le case popolari occupate entro 48 ore, uno per fermare chi imbrattava i muri, uno per controllare l’evasione sui mezzi pubblici. Di notte avevamo fino a 20 pattuglie; oggi ce ne sono 7, nella migliore delle ipotesi. Gli sgomberi delle case occupate abusivamente si facevano subito, entro due giorni, evitando così che il racket mandasse donne incinte e bambini per bloccare l’operazione. Avevamo comprato un servizio dattiloscopico per rilevare le impronte digitali: in questo modo, pur non potendo accedere al sistema informatico del Ministero dell’Interno, potevamo sapere subito chi fosse la persona fermata e, se irregolare, portarla al CPR di via Corelli per il rimpatrio. Dal CPR all’aeroporto c’è poco più di un chilometro: il trasferimento era immediato.

C'è altro che si potrebbe fare per la sicurezza della città?

Servirebbe potenziare a Milano l’operazione “Strade Sicure”. Nel 2009, dopo alcuni gravi fatti di cronaca, grazie al ministro dell’Interno, Roberto Maroni e al ministro della Difesa, Ignazio La Russa, arrivarono in città 436 militari, schierati nelle periferie e nelle zone sensibili. In meno di un anno i reati calarono del 40%. Era un modello che funzionava e che potrebbe essere ripreso, anche se oggi sarebbe più difficile avere lo stesso numero di uomini perché “Strade Sicure”, grazie all’esempio della nostra Milano, è attiva in molte altre città. Al sindaco dico: la sicurezza non si fa con gli slogan, ma con uomini, mezzi e decisioni rapide. Noi lo abbiamo dimostrato.

 

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