Elezioni 2022: strategie comunicative e tic dei leader in campagna elettorale

Meloni che per la prima volta parte da favorita, Berlusconi carico a pallettoni come negli anni '90, Letta impegnato nel difficile equilibrio con gli alleati...

Di Lorenzo Zacchetti
Enrico Letta, Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi e Carlo Calenda: ognuno fa campagna elettorale con il proprio stile personale 
Politica
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Elezioni politiche del 25 settembre: le scelte comunicative dei leader verso il voto

 

Verso il 25 settembre. La campagna elettorale è cominciata da poco, ma già sul piano comunicativo e strategico si notano alcuni posizionamenti decisamente interessanti. Tra stili personali, tattiche di propaganda e tic nervosi, vediamo come i principali leader stanno cercando di conquistare il voto degli italiani.

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giorgia Meloni
Per la prima volta nella sua carriera, sta interpretando il ruolo della “lepre” in fuga e non dell'inseguitrice, ma lo sta facendo bene. Chi parte (stra)favorito dai sondaggi deve puntare tutto sulla misura e badare in primo luogo ad evitare gli autogol: bisogna parlare poco, ma nel contempo presidiare il territorio (e ad esempio lei lo fa con la promessa di eliminare il Reddito di Cittadinanza), mandare messaggi rassicuranti ed evitare le polemiche inutili.

È riuscita con determinazione a farsi riconoscere come candidata Premier dai suoi alleati del centrodestra, quindi può affrontare con serenità anche gli avversari. Chi parla di lei come figura poco gradita all'estabilishment internazionale omette di ricordare che dal 2020 è Presidente dei Conservatori Europei e che è già stata Ministro di questo Paese (dal 2008 al 2011 nel Berlusconi IV, con delega alla Gioventù). Non si sono registrati sommovimenti popolari, in nessuno dei due casi. Comunque, dovrà munirsi di una pazienza degna di Giobbe, perché qui al 25 settembre è lecito attendersi qualsiasi tipo di provocazione. Per il momento i toni sono abbastanza rilassati sull'antico tema del ritorno al fascismo, che in questa campagna pare non attecchire granché. In sostituzione, è già arrivata la polemica sul presunto cambio di fede calcistica dalla Lazio alla Roma. E si sa che la cosa nella Capitale è particolarmente scabrosa, lo sarebbe stata anche al contrario.

 

 

Matteo Salvini
 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Matteo Salvini
La Lega non sta vivendo il momento migliore della sua storia, ma Salvini ne è consapevole e non si può dire che lo stia gestendo male. Se consideriamo che in politica vincere significa ottenere il massimo risultato possibile, alle condizioni date, allora dobbiamo concludere che i recenti giudizi nei suoi confronti sono stati un po' ingenerosi.

Certo, il sostegno al governo Draghi – e le contemporanee manifestazioni di dissenso – è costato parecchio in termini di consensi, ma la scelta di togliergli la fiducia per andare a elezioni è stata azzeccata, da un punto di vista tattico. Se Giorgia Meloni fosse rimasta da sola all'opposizione per altri sei mesi, avrebbe accumulato un vantaggio incolmabile, invece in questo modo Salvini può puntare a vincere le elezioni come seconda forza della coalizione e quindi tornare al Viminale con la strada spianata. Non a caso, i primi temi sollevati dalla Lega in campagna elettorale sono stati sicurezza e contrasto all'immigrazione, due cavalli di battaglia sui quali le critiche alla ministra Lamorgese non sono mai mancate.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Silvio Berlusconi
Adeguatamente motivato dalla possibilità di riscattare la delusione per il mancato approdo al Quirinale, che sogna da sempre, si è gettato in questa campagna elettorale con la sua solita dotazione bellica, fatta di forza economica, strapotere mediatico e, dulcis in fundo, entusiasmo e talento personale.

Quando si tratta di propaganda, Berlusconi ha ben pochi rivali. Lo si vede anche dagli efficaci slogan lanciati in questa campagna: pensioni minime a 1.000 euro per 13 mensilità, un milione di alberi da piantare (in più rispetto al Pnrr, lo ha chiarito Tajani in sua vece) e un trittico che richiama i cavalli di battaglia degli anni '90: “Meno tasse, meno burocrazia, meno processi”. Effetto vintage, anzi evergreen. Certo, oggi Berlusconi non è più il leader della coalizione, ma se la somma dei deputati di Forza Italia e Lega non fosse troppo inferiore a quelli di FdI, giocherebbe di nuovo un ruolo decisivo, potendo quindi ambire alla Presidenza del Senato (ruolo che smentisce di desiderare) se non addirittura al Quirinale. Chiudendo il cerchio.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Enrico Letta
Benché il Pd sia l'unico partito in grado di contendere a FdI il ruolo di forza più votata (almeno nei sondaggi), il suo problema sono le alleanze: i compagni di strada non hanno sufficiente consenso per poter contendere la vittoria al centrodestra. Bisognerebbe ampliarne il perimetro, ma il famoso “campo largo” è morto in fase di gestazione, per via della rottura con il M5S. Letta allora ha provato a ricostruirlo, usando la stessa pazienza certosina con la quale ha messo d'accordo le varie correnti del Pd e che, caso più unico che raro, durante la sua segreteria sono state particolarmente concilianti.

Molto più difficile è risultata l'interlocuzione con tipini come Carlo Calenda e Matteo Renzi, come peraltro c'era da aspettarsi. Nel rapporto con il centrodestra, Letta ha ben chiaro che attaccare Giorgia Meloni significa rafforzarla. Anche per questo ormai da tempo coltiva con la leader del campo avverso un rapporto di assoluto fair-play reciproco, che alcuni interpretano come un'apertura di credito in caso di (ennesimo) pareggio elettorale. Una sorta di preludio ad un altro governo di larghe intese, nel quale si potrebbero persino scorgere tracce di accordi rossoneri. Dopo il governo gialloverde e quello giallorosso tutto sembra possibile, ma non esageriamo.

 

Da sinistra: Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana), Eleonora Evi e Angelo Bonelli (Europa Verde)
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nicola Fratoianni & Angelo Bonelli
Ambientalismo di sinistra, se non ora quando? Dopo anni di allarmi colpevolmente lasciati cadere nel vuoto, le temperature torride e la grave siccità degli ultimi mesi spianano la strada alla “bicicletta” formata dall'unione di Sinistra Italiana ed Europa Verde. Qualcuno, peraltro, la chiama “il cocomero”, verde fuori e rosso dentro. 

I primi sondaggi hanno subito premiato la scelta non scontata di unire Fratoianni (unico oppositore di Draghi a sinistra) con il Pd (il partito più draghiano in assoluto), ma il rapporto decisamente burrascoso con Calenda ha rimescolato le carte in tavola. Curioso davvero che in questa prima parte di campagna si sia litigato più con Azione, che con quel centrodestra definito “pericoloso” dai leader del cartello. E dire che lo spazio per dare una forte rappresentanza politica alle istanze ambientali, come avviene da tempo nel resto d'Europa, ci sarebbe eccome.

 

Luigi Di Maio Impegno Civico
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi Di Maio (featuring Bruno Tabacci)
Per tutta la prima parte della campagna, ha continuato a riferirsi al Movimento Cinque Stelle come al “partito di Conte”. Una strategia fin troppo ovvia, mirata a scrollarsi di dosso l'accusa di aver tradito il suo vecchio partito e a ribaltare il marchio dell'incongruenza proprio sugli ex colleghi.

Con la creazione del gruppo parlamentare “Insieme per il futuro” aveva ampiamente svuotato il M5S, ma questo non poteva bastare per ambire ad essere ancora protagonista della scena politica. Con il varo di “Impegno Civico”, accanto a un ex democristiano Doc come Bruno Tabacci, O' ministro dà ragione a chi lo vede come erede della tradizione andreottiana. Da DC a IC: l'evoluzione della specie. Nelle sue prime dichiarazioni di intenti dichiara di volers fare di IC "un partito riformatore che pensa all'innovazione, ai giovani, al sociale, e non vuole parlare a chi vuole sfasciare tutto, a chi fonda la sua politica sul no. Quando ci sono delle priorità, si risponde con l'unità non con la divisione. Questo è l'unico modo per superare questa fase storica. La vittoria degli estremisti significa isolarci dall'Europa".

Sembra davvero un altro Di Maio, rispetto ai tempi della presunta abolizione della povertà e del flirt coi gilet gialli, ma nella vita si cresce. E anche in politica. Cosa che lui sta facendo senza dubbio: quando i termini dell'accordo Letta-Calenda parevano metterlo in un cul de sac, ne è uscito in quattro e quattr'otto grazie al "diritto di tribuna". E non fate battute sulle tribune degli stadi di cui era steward, perché oltre che stupide sono pure classiste.

 

 

Maria Stella Gelmini, Carlo Calenda e Mara Carfagna (Lapresse)
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Carlo Calenda
Senza mezzi termini, pretende da Letta che metta in un angolo l'alleanza già sancita (da tempo) con il duo Fratoianni-Bonelli, sebbene Azione vanti appena un punto percentuale in più nei sondaggi rispetto a Sinistra Italiana/Europa Verde. Prima ancora, aveva avanzato l'ipotesi di una doppia leadership del centrosinistra: Letta e, ovviamente, Calenda stesso. Alla fine, l'accordo sottoscritto sul Pd è un capolavoro di negoziazione efficace, pur avendo sulla carta scarsa forza contrattuale. Da studiare nelle università.

Piaccia o meno, Carletto è fatto così. Gli va riconosciuta la coerenza: con Fratoianni ce l'ha per non aver sostenuto l'agenda Draghi e perché contrario ai rigassificatori, mentre con il M5S ce l'ha da sempre, tant'è che uscì dal Pd per non avallare l'alleanza giallorossa. Bisogna essere seri, direbbe Maurizio Crozza, che fa un'imitazione davvero esilarante dell'ex candidato sindaco a Roma (finì terzo), al quale l'autostima non fa certo difetto e che esibisce con orgoglio la sua autocertificata competenza. A voler essere cattivi, però, gli si potrebbe contestare che anche lui è stato eletto col Pd e oggi ha arruolato le ex forziste Gelmini e Carfagna. D'altra parte, omnia mutantur, nihil interit. Vale soprattutto in politica: tutto cambia, niente muore

 

Matteo Renzi
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Matteo Renzi
Nel bene e nel male, Italia Viva è lui, come dimostra anche il recente cambio di simbolo. Il nome del partito si è fatto piccolo piccolo, sormontato da un'enorme R che, chissà per quale fantasia del grafico, viene presentata al contrario, come se fosse riflessa da uno specchio.


 

Anche questa volta, inevitabilmente, il voto si trasformerà in un referendum (absit iniuria verbis) sul senatore fiorentino, che, un po' come Calenda, metti veti a tutto spiano, da Di Maio a Fratoianni. E alla fine si ritrova sostanzialmente solo, un po' per scelta e un po' per necessità.

È la strada giusta? Saranno i numeri a dirlo: in uno scenario del genere, non sarà facile nemmeno rientrare in Parlamento, ma Renzi ha già dimostrato di poter essere molto influente anche con uno sparuto manipolo di deputati e senatori. Quindi, non prendetelo sottogamba, perché sarebbe un grave errore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppe Conte
L'ex Premier si trova di fronte a un bivio dal quale dipende il futuro politico sia suo che del Movimento Cinque Stelle. Al termine di un quadriennio davvero rocambolesco, quello che nel 2018 era il partito più votato dagli italiani ha perso la metà dei suoi deputati, tra espulsioni e fughe per vari motivi. Ed è solo l'inizio.

L'ultima emorragia è stata anche la più dolorosa, con big come Di Maio, Azzolina, Spadadora, D'Incà e Crippa che hanno dato via a una vera e propria diaspora. L'alleanza col Pd, a lungo coltivata, è tramontata per via della scelta che Conte ha compiuto sul governo Draghi, nel chiaro tentativo di ridare un'anima più barricadera al Movimento. Una sfida comunicativa complicata per l'avvocato del popolo, che dovrà – metaforicamente - togliersi cravatta e pochette per indossare giubbotto di pelle e foulard, un po' nello stile di Alessandro Di Battista.

Già, perché Dibba, Er Che Guevara de noantri, per il momento non torna, ma continua ad aleggiare nelle considerazioni sul futuro del M5S. E c'è chi lo vorrebbe candidare subito, anche in barba al regolamento (non è stato iscritto alla piattaforma negli ultimi sei mesi). A proposito di regole e ritorno alle origini, ha fatto bene Beppe Grillo a imporre il mantenimento del vincolo dei due mandati: così si sono persi alcuni pezzi grossi (Fico, Bonafede, Taverna e Crimi), ma in caso contrario sarebbe stato veramente difficile riconoscere nel M5S lo spirito delle origini.

 

 

 

 

 

Lapresse
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli outsider
C'è un discreto manipolo di forze politiche che non sono in Parlamento, ma che sperano di esserci dopo il 25 settembre. Tra i "cespugli", la forza più rilevante (secondo i sondaggi Swg) è Italexit, che varrebbe intorno al 3,2% (e quindi già oggi più di Italia Viva, al 2,8%). Gianluigi Paragone fa squadra con un altro (ex) giornalista: Pino Cabras e la sua  Alternativa.

Simile nel nome e nella scelta dell'accoppiata il cartello Alternativa per l'Italia, formato da Mario Adinolfi e dall'ex Casapound Simone Di Stefano con una chiara ispirazione al tedesco Alternative für Deutschland. Poi c'è Marco Cappato con la sua neonata lista Referendum & Democrazia, che invoca l'utilizzo dello Spid per vincere la sfida comune a tutti coloro che non sono già in Parlamento: raccogliere almeno 70.000 firme per potersi presentare alle elezioni.

Un compito non facile, soprattutto perché per la prima volta nella storia bisogna andarle a chiederle sotto gli ombrelloni, con l'elevato rischio di farsi mandare a quel paese.