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Economia
Startup e innovazione, perché l'Italia resta ultima

Di Eduardo Cagnazzi

Le startup innovative potrebbero essere una risorsa significativa per il Sistema Paese. L’Italia è però partita in ritardo, solo dal 2012 con il decreto 2.0 sulla crescita ed oggi non è ancora capace di creare innovazione. Con la conseguenza che da una parte continua ad essere terreno di emigrazione di cervelli, dall’altra regala conoscenza scientifica ad altri, salvo ad importare prodotti tecnologici. Per invertire la rotta occorrerebbe una robusta politica dell’innovazione fondata su uno sforzo congiunto tra pubblico e privato con l’obiettivo di riconoscere a queste realtà imprenditoriali lo status di agenti di innovazioni .

Ma questa politica ancora non c’è. Con la conseguenza che il tasso di natalità delle startup è al di sotto del livello di altri Paesi europei, ma è migliorabile. Soprattutto se saranno sostenute con strumenti finanziari e programmi nuovi ed efficaci, se ci sarà un più stretto legame con le grandi aziende e se risulterà meno farraginoso l’iter delle procedure. Dall’iscrizione nel registro delle startup a quello delle imprese occorrono infatti sei-sette mesi con grande dispendio di risorse finanziarie proprie.  E’ questa la palla al piede delle startup, secondo la Fondazione Ricerca e Imprenditorialità che ha riunito a Napoli il gotha dell’economia italiana, della scienza e della ricerca universitaria. A tutt’oggi le startup operanti nel Paese sono circa 5.500, localizzate soprattutto in Lombardia (1.183, il 21,8% del totale), Emilia Romagna (625, l’11,5%), Veneto (417), Lazio (548) ed il Piemonte (306) per un valore della produzione pari a circa 328 milioni di euro. Con 343 startup, la Campania è prima nel Mezzogiorno, in coda alla classifica si trovano Basilicata con 41 startup, Molise 20 e Valle d’Aosta 13. “C’è l’esigenza di mettere in moto iniziative e programmi con adeguate risorse per fare emergere quella tipologia di spin-off/startup innovative della ricerca che più e meglio di altre possono contribuire all’innovazione tecnologica, a farla progredire e diffondere”, rileva ad Affaritaliani.it il presidente del Consiglio di Gestione della Fonzione R&I, Riccardo Varaldo. “E’ questo il tipo di imprese innovative che possono anche entrare meglio in sintonia con le esigenze di innovazione proprie delle grandi imprese e della filiera delle pmi di loro riferimento. E si può in questo modo anche dare concretezza e valore al cosiddetto trasferimento tecnologico da parte dei centri di ricerca, facendoli evolvere da una logica di supply-push ad una di demand-pull, con un più deciso e costruttivo orientamento al mercato”. Vanno però rimossi e lacci e lacciuoli legati ai tempi di incubazione e ancora di più, secondo la Fondazione, e a quelli di decollo e di affermazione sul mercato. Un handicap che comporta il rischio di una lunga permanenza delle stesse startup in uno stato di imprese in fieri, che rischia di far esaurire le risorse e le energie, senza aver prodotto risultati concreti in senso economico. “La conseguenza -sottolinea Varaldo- è che l’Italia è perdente sotto due profili. Da un lato, non sa creare innovazione in modo evoluto con le imprese costrette ad accontentarsi di fare innovazioni incrementali, utili a conservare i business esistenti ma non a farli progredire ed espandere con decisione. Il secondo danno è che il Belpaese, oltre ad essere terreno di fuga di cervelli, regala conoscenza scientifica, un tipico bene pubblico, ad altri. Tranne poi a dover imporre prodotti tecnologici finiti, realizzati anche grazie alle inefficienze del Sistema Paese”. Di qui l’idea di creare il network dell’Italian Innovation Hub in un’ottica e una dimensione nazionale, “superando così il rischio tipicamente italiano di voglie autorefenziali che fanno del localismo una bandiera  con le ben note conseguenza anche in termini di dispersione di risorse in interventi a carattere assistenzialistico”.

 

 

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