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Esteri
A Doha si discute, a Gaza si muore. Oltre 40.000 vittime, è un massacro

Polio in Gaza

Questa non è una guerra, è un massacro che ha il volto dello sterminio di massa

Mentre a Doha è in corso l’ennesima puntata dei colloqui per un cessate il fuoco, definiti “promettenti” dagli Stati Uniti, a Gaza l’esercito israeliano nelle ultime 24 ore ha effettuato oltre 40 incursioni, massacrando decine di civili, aggiungendo un nuovo record a quelli rastrellati in questi 10 mesi di guerra: ieri il bilancio delle vittime ha superato i 40.000 palestinesi, mentre il numero dei feriti è salito a 92.400 persone. Numeri ai quali vanno aggiunti gli oltre 10.000 dispersi, per un totale di oltre 142.400 persone, stima per difetto, metà dei quali sono donne e bambini, una buona parte dei quali di età compresa fra i zero e dieci anni. Una carneficina che registra anche il più alto tasso di mortalità giornaliero di civili. Basandosi sui dati a disposizione, l’Oxfam ha calcolato che “il numero medio di morti al giorno a Gaza è significativamente più alto di qualsiasi recente grande conflitto armato, tra cui Siria (96,5), Sudan (51,6), Iraq (50,8), Ucraina (43,9) Afghanistan (23,8) e Yemen (15,8). Si stima che siano in media 130 i palestinesi uccisi ogni giorno, e almeno 308 quelli che vengono feriti.

Gaza è il più grande campo di concentramento a cielo aperto sulla faccia della terra. E lo è da decenni, non dal 7 ottobre. Recintata, sorvegliata 24 ore su 24, sottoposta ad una “amministrazione controllata” che dal 2005 decide arbitrariamente cosa e chi può entrare, e cosa o chi può uscire. Soggetta da decenni a ripetuti bombardamenti che hanno causato migliaia di morti, feriti e distruzione. Un campo di detenzione a “piede libero”, un condensato di limiti che i palestinesi avevano nel tempo trasformato in possibilità, in un interessante laboratorio di resistenza creativa. Un incubatore di cultura e tradizioni, colonne portanti dell’intero popolo gazawo. Compresa la coltivazione della terra che, a Gaza come in Cisgiordania, è uno strumento identitario di affermazione e forza. Anche il wadi Gaza, la più grande zona umida del territorio, esperimento unico nel suo genere, è stato distrutto e con lui l’intero ecosistema che ne dipendeva. Campi coltivati e serre sono stati bombardati; due terzi del bestiame è stato ucciso dalle bombe o sono stati abbattuti. L’aria e i terreni sono pieni di sostanze tossiche, tra cui almeno 800mila tonnellate di amianto, per smaltire i quali non basteranno decadi.

Se ne parla poco, ma oltre al genocidio, al culturicidio, allo scolasticidio, termine coniato da Karma Nabulsi durante l’operazione israeliana nella Striscia di Gaza del 2008-2009, e che fa riferimento alla “distruzione sistematica del settore dell’istruzione palestinese nel contesto del progetto israeliano decennale di colonizzazione e occupazione”, e che in questi mesi ha visto la distruzione intenzionale “del patrimonio culturale – archivi, biblioteche, musei – l’uccisione o la detenzione di educatori, studenti e professori, la chiusura o la demolizione degli edifici scolastici e l’uso delle strutture come basi militari”, l’enormità della devastazione di Gaza comprende anche il territorio. Nella Striscia è in corso una catastrofe ambientale impossibile da valutare, che cammina di pari passo a quella umanitaria, ed è fra le più gravi si siano registrate nell’ultimo mezzo secolo: in termini temporali e spaziali, non ha paragoni nella storia, sotto ogni punto di vista. Nulla più dell’ostinata, e insensata, determinazione con la quale Israele bombarda Gaza dimostra le reali intenzioni dello stato ebraico nei confronti dei palestinesi. Per dirla con le parole di un gruppo di esperti dell’organizzazione Scholars against the war on Palestine, “Siamo passati da un focus sulla distruzione sistematica, all’annientamento totale”.

Oggi, dopo dieci mesi di bombardamenti, vaste aree di Gaza sono in completa rovina. Oltre 1 milione e novecentomila palestinesi tentano di sopravvivere in mezzo a un paralizzante blocco di cibo, acqua potabile e medicine. Israele è apertamente accusato di genocidio presso la Corte internazionale di giustizia, la stessa che gli aveva ordinato di interrompere “immediatamente” le sue operazioni militari nella città meridionale di Rafah, dove più di 1 milione di palestinesi avevano cercato rifugio dalla guerra prima dell'invasione del 6 maggio. In quell’occasione gli Stati Uniti minimizzarono l’assalto di Rafah, affermando che avrebbero spinto per un accordo di cessate il fuoco e sostenendo che l’operazione sarebbe stata “limitata”. Solo nel primo giorno vennero uccisi decine di palestinesi, mentre a circa 100.000 residenti nelle parti orientali della città venne ordinato di evacuare. L’ONU, la UE e numerosi gruppi umanitari misero in guardia da una “catastrofe” qualora l’operazione militare si fosse intensificata. Oggi siamo ben oltre la catastrofe, Rafah è stata invasa massicciamente e altrettanto massicciamente bombardata, il cessate il fuoco è una chimera, il bilancio dei morti ha superato il numero di 40.000 palestinesi, e Israele non lo ha ancora fermato nessuno. Tanto meno gli americani, che continuano a rifornirlo di armi, parlando di pace.

E in Cisgiordania le cose non vanno meglio. Nella sentenza non vincolante emessa dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja lo scorso luglio, si legge che “Gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e il regime ad essi associato, sono stati creati e mantenuti in violazione della legge internazionale. Lo Stato di Israele ha l’obbligo di porre fine alla sua presenza illegale nei Territori palestinesi occupati il più rapidamente possibile, di cessare immediatamente tutte le nuove attività di insediamento, di evacuare tutti i coloni e di risarcire i danni arrecati. Le Nazioni Unite e i singoli Stati devono considerarsi obbligati a non riconoscere gli insediamenti e a negare loro supporto”. Qualche mese prima della sentenza, il 13 febbraio, migliaia di nazionalisti religiosi si sono radunati a Gerusalemme per partecipare a una conferenza per la colonizzazione ebraica di Gaza: una manifestazione a cui, secondo la radio dei coloni Canale 7, hanno presenziato 12 ministri - fra cui i ministri del Likud Miki Zohar, Haim Katz e May Golan - e ben 15 dei 120 deputati. La sintesi di quell’incontro è offerta da uno degli oratori: ''Gaza far parte della Terra d'Israele. Laddove l'aratro ebraico scava il suo solco, là passa il nostro confine''. E così è stato. Da allora Israele ha espropriato e annesso vaste porzioni di territorio palestinese in Cisgiordania, che includono 12,7 chilometri quadrati vicini al confine con la Giordania, il più grande esproprio di terra degli ultimi tre decenni, e che porterà alla costruzione di nuove colonie illegali.

Il 2024 è l’anno record anche degli espropri ai danni dei palestinesi. Ieri il governo di Netanyahu ha approvato un nuovo insediamento, questa volta nell’area di Battir e Makhrour, fra Betlemme e Hebron, dichiarata patrimonio mondiale dell'Unesco, ricca di vegetazione e ulivi, “il cestino di verdure di Gerusalemme”. Negli accordi di Oslo era designata come «zona di conservazione» tutelata. Israele avrebbe dovuto restituirla subito all’Autorità Nazionale Palestinese ma col pretesto che i palestinesi vi avrebbero costruito delle case il passaggio non è mai avvenuto. Per i governi israeliani “le costruzioni palestinesi danneggiano la natura, quelle dei coloni no”. Il portavoce del dipartimento di stato americano Vedant Patel ha criticato l'approvazione del progetto di costruzione. "Ognuno di questi nuovi insediamenti ostacola lo sviluppo dell'economia e della libertà di movimento per i palestinesi, e rende la soluzione a due Stati meno fattibile". E poi ha aggiunto: "Riteniamo che ciò sia in contraddizione con il diritto internazionale e ovviamente ci opponiamo all'espansione degli insediamenti in Cisgiordania". Ovvietà di prammatica.

E se dal 7 ottobre Gaza è diventata la nuova Amalek e i gazawi i nuovi Amaleciti, archetipo di ogni nemico degli israeliti, la Cisgiordania si è invece trasformata nel nuovo Far West degli ebrei ultraortodossi i quali, certi dell’impunità che godono grazie a ministri come Ben-Gvir e Smotrich, a loro volta coloni illegali, assaltano, uccidono, bruciano, vandalizzano, terrorizzano. Secondo gli standard comuni, quelli che regolano la convivenza civile fra popoli, simili bande verrebbero considerate alla stregua di ladri, terroristi, saccheggiatori, assassini, e come tali verrebbero giudicati. Non loro. Unici al mondo, godono di uno speciale lasciapassare che gli garantisce perpetua impunità e diritti illimitati: la Bibbia. Un libro che per loro è Legge, Verbo rivelato, patto imperituro con Dio che li ha prescelti fra tutti. Semenza divina al quale appartengono anche gli oltre 50 coloni che la scorsa notte, mascherati e armati fino ai denti, hanno invaso il villaggio palestinese di Jit (la biblica Samaria, vicino Qalqilya), dando fuoco a case e veicoli. Nell’attacco un ragazzo palestinese che cercava di difendere la propria è stato aggredito a morte da un colono. Uno solo degli oltre 50 componenti del  gruppo è stato arrestato dall’Idf, come riporta The Times of Israel, nel quale si legge che sul "grave" attacco l'esercito ha avviato un'indagine congiunta con la polizia e lo Shin Bet.

La disumanizzazione e persecuzione dei palestinesi è iniziata nel 1948, il 9 aprile, giorno della strage del piccolo e pacifico villaggio di Deir Yassin. Da allora è stato un lento processo, un metodo che prevede una formazione che inizia fin dalla tenera età, fra i banchi di scuola e nei libri di testo. Senza la comprensione di questo punto non si può fare nessuna analisi. E non si può nemmeno comprendere come l'attacco di Hamas del 7 ottobre abbia trascinato un intero Paese nel più orribile dei baratri. Quando viene raccontato che i palestinesi vengono cresciuti a pane e odio fin da piccoli, è bene ricordare che una delle tattiche più care agli israeliani è quella di demonizzare il nemico trasferendo su di lui i propri crimini e misfatti. Un corposo numero di pubblicazioni, fra cui quelle dell’accademica israeliana Nurit Peled-Elhanan, analizzando i mezzi comunemente usati nei manuali scolastici “per operare la delegittimazione dell’«altro» (il palestinese)”, dimostrano come nel pregiudizio e nel segno della disumanizzazione vengano cresciuti i bambini israeliani. “Nessuno dei testi israeliani contiene fotografie di individui palestinesi, che sono invece rappresentati mediante simboli razzisti o immagini che li classificano come terroristi, profughi, contadini primitivi, i tre «problemi» che essi costituiscono per Israele”. A tutti questi ragazzi, ai quali viene insegnato che la narrazione ebraica è giusta, quella araba è sbagliata, a 18 anni viene messo fra le braccia un mitra e sulla testa un elmetto.

Informarsi sulla tragedia priva di senso e umanità che si sta consumando, nell'indifferenza generale del mondo occidentale, a Gaza e in Cisgiordania, dove ormai sono in corso dei veri e propri pogrom contro i palestinesi, è dovere di tutti. Contestare Israele o esponenti ebrei pro-guerra non significa essere antisemiti. Dissentire coi metodi e non condividere pensieri e azioni di Israele non è antisemitismo. È semplicemente dissenso. Impedire di farlo e di parlare, come sta accadendo sempre più spesso, è repressione.

 




Leggi anche/ Doha, proseguono i negoziati per fermare la guerra. Hamas: "Nessun segnale positivo dai colloqui" - Affaritaliani.it






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