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Libri & Editori
Bianciardi: una vita in rivolta di Sandro Montalto

Recensione di Lidia Sella

Sandro Montalto non si è lasciato intimidire dalla splendida biografia su Luciano Bianciardi, “Vita agra di un anarchico”, opera del giornalista Pino Corrias (Feltrinelli, 1993). Consapevole che un tale luminoso precedente editoriale poteva rappresentare un ostacolo, ha scelto di trasformarlo in una sfida. Determinato a muoversi sullo stesso terreno, ha dunque pubblicato Bianciardi - Una vita in rivolta (Mimesis 2018, nella collana Sisifo, che raccoglie testi controcorrente ) .  Montalto insomma si è mostrato impavido. Ma il suo coraggio è stato premiato.  Attraverso un sapiente montaggio di brani che attingono sia alla produzione letteraria, giornalistica ed epistolare di Bianciardi che ai pareri espressi su di lui dai suoi contemporanei - amici, colleghi e famigliari - egli ha infatti ricostruito in maniera esaustiva, e intrigante, la personalità inquieta di questo autore ribelle. Nel contempo, ha offerto al lettore un quadro vivo e fedele del secondo dopoguerra, un’epoca di orgogliosa ricostruzione e di intenso fermento intellettuale, in una Milano attivissima sul fronte imprenditoriale, nonché in ambito culturale, eppure spesso incurante, talvolta persino spietata, sul piano umano.  

Montalto ha scavato fra le pieghe del passato tormentato di Bianciardi, ha messo in luce i lati oscuri della sua personalità dolente, il malessere di fondo che l’ha infine trascinato nel gorgo dell’alcolismo. Ha inoltre sottolineato l’acume, l’originalità e la forza dirompente del suo pensiero critico. E la raffinata, graffiante ironia. C’è un passo autobiografico di Bianciardi, paradigmatico del suo umorismo amaro, che merita di essere citato: “Io sono uomo di facili costumi, cioè non dico mai di no a nessuno. Faccio, in altre parole, il battone. E batto i tasti della macchina.” Verso la figura di Bianciardi, Montalto sembra provare una straordinaria empatia, tanto da comprenderlo in profondità, quasi potesse intuirne i più reconditi moti del cuore. Circostanza che lo ha  agevolato nel suggerire interessanti riflessioni sui principali nodi esistenziali di questo personaggio eccentrico, ostaggio di una costante infelicità, sebbene dotato di un’energia e di un’inventiva inesauribili. Luciano Bianciardi rappresenta in effetti il prototipo del pirandelliano Uno, nessuno e centomila . E la lettura di questo saggio lo conferma, capitolo dopo capitolo. Bianciardi muore il 14 novembre 1971, di coma etilico, un mese prima di compiere quarantanove anni. Ciononostante è come se avesse vissuto mille vite. È stato soldato, bibliotecario, traduttore, giornalista, romanziere, ideologo, critico televisivo, attore, violoncellista.  In La vita agra , il romanzo che l’ha reso celebre, così si autodefinisce: “Un’ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla.”  

Di lui, Enrico Vaime ha detto: “Aveva certe occhiaie che sembravano calzoni alla zuava e lo sguardo lucido da grappa gialla (la più tosta).” In Bianciardi com’era, Mario Terrosi ci svela un ricordo: “Luciano mi confessava di avere a momenti l’ossessione dell’Io: la noia angosciosa di essere sempre presente a sé stesso. Studiando, mangiando, passeggiando, mai gli pareva di essere solo, ma sempre in compagnia di un sé stesso che lo guardava, lo sorvegliava, e non si staccava mai. In compagnia degli altri riusciva a liberarsene.” Terrosi rammenta poi che: “Salutarlo era una scommessa: poteva rispondere con un abbraccio o con un grugnito.”   Illuminante il giudizio di Umberto Eco: “Su tutta l’opera di questo grande scrittore comico si diffonde sempre un’ombra di malinconia e spesso d’indignazione. Infatti la sua vena era quella del sarcasmo, e il sarcasmo nasce sempre da una rabbia dolente.” Vale la pena riferire un commento di Carlo Cassola: “C’era in lui questo bisogno di infrangere i tabù sessuali, per cui si capisce anche come abbia tradotto con grande soddisfazione i Tropici.di Miller.” Bianciardi è un indomito rivoluzionario, “un arrabbiato di professione”.  In un’intervista rilasciata a Franco Ferrarotti, ha ribadito la propria opposizione “alla logica capitalistica che trasforma l’uomo in un oggetto e lo rende schiavo.”  Bianciardi ha in odio l’ipocrisia borghese e le ingiustizie sociali.  

È nemico giurato della pubblicità, cavallo di Troia del consumismo. Ne L’integrazione ha scritto: “Neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina nuova, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quello che il padrone impone e credono che sia questa la vita moderna, la felicità. Sgobbano, corrono come allucinati dalla mattina alla sera, per comprarsi quello che credono di desiderare; in realtà quel che al padrone piace che si desideri.” Bianciardi si scaglia contro il matrimonio e il comune senso del pudore.  Stila altresì un delizioso “stupidario degli stereotipi lessicali che inflazionano l’inespressività moderna” e preconizza il formarsi di una “neolingua”, sul modello angoscioso teorizzato da Orwell in 1984 .  Detesta Milano: “Qui c’è un vantaggio - confida, e si sfoga, in una lettera datata 26 aprile 1961 - che ti danno un lavoro e ti pagano. Per il resto non è una città, non è un paese, non è niente. È solo una gran macchina caotica, senza cielo sopra e senza anima dentro. Andrebbe minata.” E prosegue: “A Milano non ho amici, sono stato solo fin dal primo momento. Quando ho avuto bisogno nessuno mi ha dato una mano, e tutto questo credo mi abbia cambiato, in peggio. Mi sono fatto duro, non amo più la compagnia del prossimo e sento che l’antica vena ironica sta diventando cattiveria.

Per questo amo tanto sentir parlare di Grosseto, e a volte mi sembra di aver tradito la mia città, voi amici, le mie origini, venendomene quassù. Abito all’ottavo piano di un grattacielo, vedo poca gente (soprattutto livornesi), lavoro, tremo ogni volta che suona il telefono, o il campanello, perché so che quando ti cercano non sono mai buone notizie. O vogliono quattrini o vogliono lavori finiti.” Tra il 1952 e il 1971, ci informa Montalto, Bianciardi ha pubblicato quasi mille articoli, su una trentina di testate differenti. In un pezzo di estrema lucidità, e attualissimo, intitolato Censura e protesta, ha affermato : “Ogni censura è miope e stupida. (....) il ricorso alla censura è un sintomo di insicurezza da parte dell’autorità che vi ricorre. Non a caso la censura si aggrava e diventa feroce nei momenti critici. Non a caso nelle società più civili si attenua e scompare. Le parole, quando non ledano l’onorabilità dei privati, non dovrebbero fare mai paura, e soltanto una società malata di fobie può inserire nei propri codici i reati di opinione. Le idee, anche le più balorde, si combattono nel confronto con quelle giuste, e non con l’intervento della polizia.” Chissà se chi ha formulato la “Legge Mancino” aveva letto questo brano di Bianciardi che Montalto ha avuto il merito di riscoprire. E con ogni probabilità non è un caso, ci fa notare Montalto, se ai giorni nostri Bianciardi viene rispolverato soltanto per riproporre gli aspetti più politicamente innocui della sua produzione. Guidato dal suo infallibile fiuto per l’aforisma, Montalto ha anche inserito bellissimi esergo, in testa ai paragrafi. Ne citiamo due. Il primo è di Marguerite Yourcenar: “Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro l’inverno dello spirito.” Il secondo è di Albert Camus, altro spirito in perenne rivolta: “Non c’è amore del vivere senza disperazione di vivere.”  Peccato però che questo libro sia andato in stampa con una messe di refusi. Ma i bravi correttori di bozze di una volta oggi si sono estinti. Oppure forse rappresentano un lusso che nemmeno i grossi editori possono più permettersi. 

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