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Milano
Blitz della Dda in Lombardia, ma per il Gip "nessun sodalizio mafioso"
Antimafia

Il Gip smonta la maxi inchiesta della Dda di Milano: solo 11 arresti 

L'inchiesta della Dda di Milano sulla presunta esistenza di un "sistema mafioso lombardo" che vedrebbe in Lombardia un'alleanza tra esponenti di cosa nostra, 'ndrangheta e camorra e' stata smontata dal gip di Milano Tommaso Perna. Il giudice, con un'ordinanza di custodia cautelare, ha concesso solo 11 misure in carcere e rigettato la richiesta per altri 142 indagati.

"Non e' stato possibile ricavare l'esistenza di un'associazione di tipo confederativo che raggruppa al suo interno le diverse componenti criminali - sottolinea il giudice - Quel che e' del tutto assente nella presente indagine, da una parte, e' la prova dell'esistenza del vincolo associativo tra tutti i sodali rispetto al sodalizio consortile, dall'altra, dell'esternazione del metodo mafioso che deve caratterizzare l'unione tra persone e beni, tale da assurgere al rango di un fatto penalmente rilevante".

Secondo il gip, dall'inchiesta condotta dai carabinieri del nucleo investigativo di Milano, invece, "e' emersa la presenza di contatti tra alcuni appartenenti alle singole componenti criminali, per lo piu' basati su specifiche conoscenze personali e in ogni caso afferenti a cointeressenze rispetto a singoli affari, talvolta leciti e talaltra illeciti, circostanza questa, che diversamente da quanto ipotizzato dalla pubblica accusa, non costituisce un elemento innovativo nel contesto lombardo". La pm Alessandra Cerreti - da quanto appreso - ha impugnato l'ordinanza davanti al Tribunale del Riesame.

L'indagine della Dda tra Milano e provincia

Nello specifico si tratta di un'indagine coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano che ha riguardato un contesto criminale operante prevalentemente nel territorio lombardo, in particolare, tra la città di Milano e la sua provincia, la città di Varese e la sua provincia, formato da soggetti legati alle tre diverse organizzazioni di stampo mafioso cosa nostra, 'ndrangheta e camorra, il cosiddetto sistema mafioso lombardo, che gestisce risorse finanziare, relazionali e operative, attraverso un vincolo stabile tra loro caratterizzato dalla gestione e ottimizzazione dei rilevanti profitti derivanti da sofisticate operazioni finanziarie realizzate mettendo in comune società, capitali e liquidità. Nelle operazioni, comprensive anche di 60 perquisizioni, sono impegnati piu' di 600 Carabinieri sull'intero territorio nazionale.

Tra gli indagati Paolo Aurelio Errante Parrino, cugino di Matteo Messina Denaro

C'è anche Paolo Aurelio Errante Parrino, ritenuto il "punto di riferimento del Mandamento di Castelvetrano nel Nord Italia", riconducibile al boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, tra gli oltre 150 indagati dell'inchiesta della Dda di Milano che ha ottenuto solo 11 arresti nel tentativo di ricostruire un ipotetico patto tra mafie in Lombardia. Già condannato a dieci anni per associazione per delinquere di tipo mafioso, è ritenuto referente nell'area lombarda della cosca trapanese e indicato quale "'uomo d'onore della famiglia di Castelvetrano', con compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni da compiere e delle strategie da adottare per la realizzazione degli scopi illeciti dell'associazione". Per i pm dell'antimafia Errante Parrino è il punto di riferimento del mandamento di Castelvetrano nel Nord Italia "mantenendo i rapporti con i vertici di cosa nostra, in particolare, con Matteo Messina Denaro, rappresenta "il punto di raccordo tra il sistema mafioso lombardo e l'ex latitante, a lui trasferendo comunicazioni relative ad argomenti esiziali per l'associazione".

 

Il gip: "Su Parrino la Procura ha portato solo elementi di tipo suggestivo"

Di diverso avviso il gip di Milano Tommaso Perna che non ha dato l'ok all'arresto in carcere.  Per il gip mancano le prove per affermare che Errante Parrino "abbia proseguito, anche dopo la prima condanna del 1997, il suo rapporto di affiliazione al mandamento di Castelvetrano, né tantomeno all'associazione lombarda ipotizzata dalla Pubblica Accusa", ossia quella confederazione di tre mafie. Lo scrive Perna che, in un passaggio delle oltre 2mila pagine dell'ordinanza, spiega perché Parrino non può essere arrestato, così come altri 142 indagati, come chiedeva, invece, la Dda milanese. Il giudice chiarisce che è sì vero che Parrino è un "esponente storico del clan" mafioso di Messina Denaro, "seppur da tempo trasferitosi" a vivere ad Abbiategrasso, nel Milanese, ma manca nell'inchiesta "la prova dell'esternazione nel territorio milanese della metodologia mafiosa" da parte sua.

Per il giudice, la Procura su Parrino, come in realtà su decine di altri indagati, ha portato solo "elementi" di tipo "suggestivo" per provare che il 76enne "abbia continuato a far parte del sodalizio" mafioso anche dopo la fine degli anni '90. Manca, tra le altre cose, la prova "del contenuto degli incontri" tra Parrino e "Bellomo Girolamo". Secondo l'accusa, Parrino sarebbe stato "intermediario per conto della famiglia trapanese dei Pace nella controversia con Amico Gioacchino". E, nel novembre 2021, a Castelvetrano avrebbe incontrato anche le sorelle, la nipote e la madre dell'allora superlatitante Messina Denaro. E ancora, sempre secondo la Dda, avrebbe intrattenuto "perduranti e confidenziali rapporti" con il sindaco di Abbiategrasso (Milano) Cesare Nai (non è indagato), che chiamava, scrive la Procura, "Cesarino", e con altri esponenti del Consiglio comunale. Ma non c'è alcuna prova, secondo il gip, che Parrino abbia messo in pratica la "metodologia mafiosa" nei fatti elencati, definiti dallo stesso giudice anche come "scarsamente rilevanti", e che addirittura lo avrebbe fatto come presunto appartenente della confederazione delle tre mafie. Tra l'altro, quando un detenuto si sarebbe rivolto a Parrino affinché intervenisse sul sindaco perché, mentre era in carcere, gli era stata "sequestrata l'abitazione di edilizia popolare", l'intervento del 76enne si era rivelato "non dirimente", scrive il gip, trovando "l'opposizione" del primo cittadino. Un episodio che dimostra, chiarisce il giudice, che anzi "la presunta associazione" non è "in grado di esercitare alcun potere di controllo sul territorio". Per il gip, in pratica, a Parrino sono state contestate dal pm "vicende bagatellari".

"Abbiamo un bel pacchetto di voti, posso portare senatori in Europa"

Secondo le accuse nelle indagini, il patto tra mafie avrebbe avuto anche lo scopo, tra i tanti, di mantenere "contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale, bancario, in modo da ottenerne favori, notizie riservate, erogazioni di finanziamenti, rete di relazioni" e di condizionare "il libero esercizio di voto". Agli atti intercettazioni come "abbiamo un bel pacchetto di voti, perché posso portare o senatori in Europa". Parole di Filippo Crea, presunto 'ndranghetista, indagato. Tra le decine di attività illecite che, secondo la Dda, il "sistema" di mafie avrebbe portato avanti, c'è anche l'acquisizione di "appalti pubblici e privati, anche attraverso l'attivazione di canali istituzionali".

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