Milano
Milano, rubavano i video delle telecamere di sorveglianza domestici e li rivendevano online: cinque condannati
Tra i condannati anche alcuni installatori di impianti domotici. Violata la privacy di migliaia di cittadini italiani e stranieri hackerando le telecamere installate in case, palestre, spogliatoi, hotel

Milano, rubavano i video delle telecamere di sorveglianza domestici e li rivendevano online: cinque condannati
Cinque esperti informatici, alcuni dei quali operavano anche come installatori di impianti domotici, sono stati condannati dal Tribunale di Milano a pene comprese tra i 2 anni e mezzo e i 3 anni e mezzo. Il giudice Cristian Mariani ha emesso la sentenza con rito abbreviato, riconoscendo le accuse formulate dal pubblico ministero Giovanni Tarzia: associazione per delinquere e detenzione/diffusione abusiva di codici per l’accesso a sistemi informatici.
Gli imputati avevano messo in piedi una rete criminale che violava la privacy di migliaia di cittadini italiani e stranieri. Il sistema era basato sull’hackeraggio di telecamere di sorveglianza installate in abitazioni private, palestre, spogliatoi, hotel, locali notturni. Le immagini venivano “dirottate” verso server esterni, e le credenziali di accesso venivano poi rivendute online, spesso in apposite chat ospitate sul social russo VKontakte.
Il servizio a pagamento con criptovalute
L’accesso al materiale illecito era organizzato come un vero e proprio abbonamento. Gli annunci, pubblicati online, recitavano: “Benvenuto nel primo canale in Europa dedicato alle spycam. Un maxi archivio con appartamenti, bagni, garage, spogliatoi, night club, camere d’hotel”. Per soli 10 euro si potevano acquistare pacchetti da 50 password. Un mercato sommerso che si muoveva in criptovalute, con una domanda costante e globale.
Solo in Italia 70mila telecamere esposte online
Il meccanismo si basava su un primo step di scansione automatica della rete, in cui software dedicati individuavano telecamere con credenziali di accesso deboli o rimaste uguali alle impostazioni di fabbrica. Una volta ottenuto il controllo del flusso video, il materiale veniva selezionato in base al tipo di luogo e al grado di “interesse” per poi essere venduto o scambiato. Solo in Italia, si stima che siano oltre 70mila le telecamere esposte online.
Le persone riprese non ne erano a conoscenza e non hanno querelato
Uno dei problemi affrontati in aula è stata l’impossibilità di identificare gran parte delle vittime. Le persone riprese non sapevano di essere state violate e, dunque, non hanno sporto querela. Questo ha limitato l’applicazione di alcuni reati come l’accesso abusivo a sistemi informatici protetti (art. 615-ter del Codice penale), che è procedibile solo su denuncia. Il danno resta comunque evidente e diffuso, in un contesto in cui la tutela della privacy tecnologica appare ancora troppo fragile.
Il caso milanese si inserisce in un fenomeno globale. La combinazione tra la crescita dei dispositivi connessi e la mancata protezione da parte degli utenti ha creato un mercato parallelo di immagini rubate e vendute. Le indagini hanno messo in luce come anche operatori IT qualificati e inseriti in grandi aziende possano deviare la propria professionalità verso attività illegali e redditizie. Un richiamo, anche per il legislatore, alla necessità di rafforzare controlli, normative e consapevolezza digitale.