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Milano

Post-impressionisti a Venezia: la Scuola di Burano

Un'isola con i tratti di un'utopia. Una improbabile fusione tra Venezia e Pont Aven, tra la rigogliosa, preziosa e persino un po' ingombrante tradizione vedutista lagunare e le immaginifiche, sintetiche visioni bretoni. Questa è stata Burano un secolo fa. Un luogo magico, una sospensione nel tempo e nello spazio che ha fatto da incubatore per una nuova idea di pittura. Nella storia dell'arte italiana del Novecento la piccola isola a ridosso del capoluogo veneto occupa un posto del tutto particolare, da quando fu eletta come Patria pittorica da quattro artisti a loro modo emarginati -  Umberto Moggioli, Gino Rossi, Pio Semeghini, Luigi Scopinich i loro nomi – che qui fondarono negli anni Dieci una nuova tradizione pienamente rispondente al loro spirito, e che avrebbe prodotto frutti significativi sino al secondo Dopoguerra. A questo singolare connubbio ed al suo retaggio è dedicato lo splendido volume intitolato “La scuola di Burano”, opera di Gian Piero Rabuffi, professore d'arte contemporanea, sociologo d'arte e critico d'arte,  edito da Pime.

Primo a giungere a Burano fu il trentino Umberto Moggioli, allora ventitrenne, che già aveva esposto alla Biennale del 1907 ma che stava manifestando chiari segnali della volontà di allontanarsi dai cliché del naturalismo descrittivo “alla Ciardi” allora imperante. Folgorato dall'atmosfera sognante dell'isola, dai suoi colori, dalla sua composta quiete e spiritualità,  finì per trasferirvisi con la moglie Anna. Suo vicino di casa, un pittore con cui aveva da poco stretto amicizia: il veneziano Gino Rossi, reduce da un avventuroso soggiorno a Parigi ed in Bretagna, sulle tracce di Van Gogh e Gauguin. In Bretagna Gino Rossi ci era stato con un suo caro amico, Pio Semeghini. Che fu  a sua volta“convocato” a Burano a partire dal 1910. Due anni più tardi, ecco anche l'istriano Luigi Scopinich. Cosa accomunava i quattro? Come spiega Rabuffi, essi ambivano a una espressività nuova, ispirata dalle lezioni postimpressioniste di Oltralpe, schietta, vivida ed antiretorica. E Burano offriva loro l'opportunità di mantenere un legame con la tradizione italiana raccontando tuttavia una Venezia laterale ed inedita, più intima ed innocente. L'obiettivo, mai esplicitamente dichiarato, era di allineare la pittura italiana alle avanguardie artistiche europee, seguendo un percorso del tutto diverso rispetto alla coeva cavalcata futurista. Come è facile immaginare, non tutti erano disposti ad accogliere tale proposta. L'apice della loro parabola si raggiunge nel 1913, con una mostra alla Galleria Ca' Pesaro dell'amico Nino Barbantini il cui clamore giunse sino al Consiglio comunale di Venezia che ne impose la chiusura. L'esposizione fu salvata da alcuni artisti belgi che presentavano nel frattempo alla Biennale alcuni loro dipinti, i quali  chiesero di poter esporre “tra i vivi di Ca’ Pesaro piuttosto che tra i morti dei Giardini”. Provocazione che entusiasmò persino Umberto Boccioni, il quale da Milano si complimentò vivamente con i buranesi.

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Poi la Grande Guerra, Moggioli stroncato dalla Spagnola nel 1919 e Rossi fatto prigioniero a Caporetto, prima stazione di un penoso calvario che ne minò la salute mentale portandolo a concludere i suoi giorni smarrito tra un  istituto psichiatrico e l'altro. Ma il seme era stato gettato. A Burano fecero ritorno la vedova Moggioli e Semeghini. E attorno a loro si formò spontaneamente un cenacolo di artisti di nuova generazione, attirati da un luogo che i quattro buranesi avevano reso “di culto”, proprio come era avvenuto per Pont Aven con Gauguin. Tra i nomi più interessanti, quelli di Carlo Della Zorza, Neno Mori, Fioravante Seibezzi, Nino Springolo, Juti Ravenna, Marco Novati. Ma a Burano non era raro in quegli anni veder palesarsi personalità come Felice Carena o Filippo De Pisis. Ed anche i milanesi del Bagutta non disdegnavano estemporanee incursioni sull'isola. Lo spirito era rimasto lo stesso, così come il senso di far parte di un'enclave: con il consolidarsi del regime fascista, il paesaggismo buranese assunse sempre più i tratti di una gentile resistenza alla magniloquenza retorica di Novecento. Al termine del secondo conflitto mondiale Burano sarebbe ormai divenuta tradizione, e come tale, inevitabilmente destinata ad essere sopravanzata dai venti di rinnovamento di nuove e agguerrite generazioni.

Cosa dunque rimane di quell'esperienza? Semeghini, che pur volle sempre schermarsi, affermando che non ci fu mai intenzione di immaginarsi come una scuola o un movimento, ha lasciato trapelare  rammarico per la mancanza di un mezzo di comunicazione come una rivista ufficiale per diffondere il proprio pensiero ed incidere maggiormente sul proprio tempo. “Altri movimenti, forse meno interessanti del nostro, ebbero diversa fortuna”, commentò una volta. Ma del resto lui e gli altri furono essenzialmente ed intimamente pittori: attivismo militante e proselitismo non erano nelle loro corde più autentiche. Pur tuttavia, come sottolinea Rabuffi, furono artisti orgogliosamente consci della importanza del loro ruolo e della loro testimonianza. E la loro lezione, che ci parla ancora oggi di integrità morale e adesione irriducibile ad alti valori, mantiene intatta la sua rilevanza e merita di non andare perduta.

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