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Milano
“Salome”, quando la Scala decide di fare la Scala
La "Salome" di Strauss alla Scala (Foto: Marco Brescia & Rudy Amisano)

“Salome”, quando la Scala decide di fare la Scala

Quando la Scala decide di fare la Scala (e non sempre lo fa...) non ce n'è per nessuno. Con “Salome” di Richard Strauss in scena in questi giorni il teatro milanese ha messo in campo la migliore regia possibile, la migliore cantante in attività, una compagnia di canto eccelsa, un direttore poco noto da noi ma rivelatosi di grande levatura, un'orchestra in stato di grazia. Il tutto al servizio di una partitura straordinaria.

Un passo indietro. È la sera del 9 dicembre 1905; al Teatro Regio di Dresda va in scena la prima di “Salome” di Richard Strauss, atto unico tratto da Oscar Wilde. Un argomento scabroso, una trama con scene atroci degne del miglior pulp alla Tarantino, decisamente “forte” ancor oggi. Alla fine dell'esecuzione ci sono 38 chiamate da parte del pubblico. Tutto questo in piena età guglielmina, una società intrisa di tradizionalismo, militarismo, nazionalismo, autoritarismo, che immaginiamo certo non particolarmente aperta ai temi di Wilde. Il successo sarà clamoroso anche in Italia, fin dalle due “prime”: la prova generale aperta al pubblico diretta da Toscanini alla Scala nel pomeriggio del 23 dicembre 1906 e l'esecuzione diretta da Richard Strauss in persona al Regio di Torino la sera dello stesso giorno. Del resto era un periodo di successo per opere che raccontavano storie crudeli: l'anno prima, 1904, erano state rappresentante “Jenufa” di Janacek e “Madame Butterfly” di Puccini, segno che la sensibilità delle avanguardie intellettuali del tempo andava oltre  il perbenismo dominante nella società e nelle istituzioni. Come sempre, del resto.

La “Salome” di Richard Strauss è la prima opera di successo del musicista bavarese, che quattro anni dopo avrebbe partorito la per certi aspetti gemella “Elektra”. Due capolavori del pre-espressionismo caratterizzati da tematiche scabrose e da musica vorticosa, sensuale e violenta, e insieme nervosa, tagliente, raggelante. Una partitura che fa da ponte tra Wagner e Berg, anche se sottopelle, soprattutto in alcuni passaggi dei corni (e anche per la frequenza con cui il libretto utilizza le parole “rosa” e “argento”), si intravede il germe che porterà al “Rosenkavalier” del 1911 e all'inizio della nuova, lunga fase di creatività del compositore.

La regia psicanalitica e scarnificata di Michieletto

Alla Scala in questi giorni l'opera straussiana è in scena con la regia di Damiano Michieletto, pensata per la stagione 2020-21 ma rappresentata allora solo una volta, senza pubblico e andata in onda in televisione durante la pandemia.

La lettura di Michieletto, che sarebbe ora di considerare non più un “enfant prodige” ma solo un “prodige” della regia, è fortemente psicanalitica. Salome, come Amleto, è orfana di padre, assassinato dallo zio e dalla madre che poi si sono sposati. E desidera vendicare e riscattare la figura paterna. È lei che comanda il gioco dei rapporti malati della famiglia, che fa esplodere l'equilibrio coniugale fra madre (Erodiade) e patrigno (Erode), è per lei che si uccide il capo delle guardie Narraboth, è lei che esige dal libidinoso patrigno la testa del profeta Jochanaan che le si è negato; è lei che gioca in un crescendo di perversione sessuale con la testa mozzata del profeta, che però Michieletto sostituisce col teschio del padre ucciso proprio dal patrigno, insieme alla rievocazione attraverso la bambina-mimo dello stupro subìto nell'infanzia.

Storiaccia torbida che un altro regista avrebbe potuto assecondare con effetti appunto alla Tarantino, mentre Michieletto sceglie la via del raggelamento attraverso simboli, scenografia geometrica e luci che vanno a seconda delle situazioni dal tagliente all'avvolgente (una menzione speciale al lighting designer Alessandro Carletti). Una scarnificazione assoluta (da qui la “non danza” dei sette veli... di cui l'orchestra riesce a rendere la natura di valzer deformato) che mette in risalto la prodigiosa partitura straussiana. Sorprende, e conquista, soprattutto il contrasto fra la geometria delle scene (Paolo Fantin) e la simmetria della disposizione dei personaggi sul palcoscenico (compresi gli angeli dalle ali nere) con una musica di cui tutto si può dire meno che sia geometrica e simmetrica.

L'orchestra e il cast vocale

Qui emerge il direttore tedesco Axel Kober, debuttante al Piermarini, che dall'orchestra scaligera riesce a ottenere colori straordinari, sonorità robuste e corpose, livide e aggressive, con la violenza richiesta dal compositore soprattutto agli ottoni e alle percussioni. Meraviglioso il suono scrostato delle trombe nei momenti più concitati e drammatici. Per la cronaca, questo è l'organico oltre gli archi: ottavino, 3 flauti, 2 oboi, corno inglese, heckelphon (una variante di oboe tenore appena nata nel 1904), clarinetto in mi bemolle, 2 clarinetti in la, 2 clarinetti in si bemolle, clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto, 6 corni, 4 trombe, 4 tromboni, basso tuba; 4 timpani, un timpano piccolo, tam-tam, piatti, grancassa, tamburo rullante, tamburo a sonagli, triangolo, xilofono, castagnette, glockenspiel; 2 arpe, celesta, harmonium e organo (dietro le scene).

Protagonista assoluta della serata è stata il quarantaquattrenne soprano lituano Vida Miknevičiūtė, esplosa nel 2021 nella “Elektra” di Salisburgo, un repertorio già estremamemte ricco, per la prima volta alla Scala. E speriamo che torni spesso, perché insieme ad Asmik Grigorian è una di quelle artiste che oltre a cantare sanno tenere la scena, veri animali da palcoscenico. Acuti solidissimi, intensi, pieni, sicuri, declamato terreo, come quando ripete ossessivamente “Voglio la testa del profeta”(che non è più pre-espressionismo, è già espressionismo al massimo grado).

Michael Volle è una presenza assidua alla Scala; c'era qualche preoccupazione sulla sua tenuta vocale dopo il non brillante concerto liederistico di dicembre, invece il baritono tedesco, wagneriano che più wagneriano non si può, ha offerto una prestazione di spessore: ieratico, potente, sicuro in tutte le gamme, grande fraseggio. Speriamo che prima o poi il nuovo “Falstaff” di Robert Carsen in cui debutterà al Metropolitan di New York arrivi anche al Piermarini.Tutti gli altri cantanti della compagnia sono stati di alto livello; a cominciare dal meraviglioso Narraboth del giovane tedesco Sebastian Kohlhepp, forse il ruolo di tenore più bello di Strauss (che, si sa, non amava i tenori). Per continuare con l'Erodiade magnetica e disumana disegnata da Linda Watson e l'Erode nevrotico e aspro di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke.

Bravi anche gli interpreti dei ruoli minori. E una menzione speciale per gli atletici e misteriosi angeli della morte dalle ali nere creati dalla coreografia di Thomas Wilhelm, ripresa da Erika Rombaldoni. Costumi moderni di Carla Teti, a rimarcare la natura atemporale del dramma.

Uno spettacolo che soggioga lo spettatore e lo inchioda alla poltrona in una apnea di 141 minuti. La Scala ha fatto la Scala, le siamo grati. Ma adesso bisogna riequilibrare, a marzo torna “Bohème” con la regia di Zeffirelli nata nel 1965, come se nel frattempo sul capolavoro di Puccini non avessero detto la loro – solo per citarne due – Graham Vick e Mario Martone. Eh, bisogna pur dare un colpo al cerchio e uno alla botte...

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