Milano
Scola, i gay, la castità: ecco perchè non sono d'accordo. di Guido Camera

di Guido Camera
L’intervista rilasciata ieri al Corriere della Sera dall’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, mi ha lasciato profondamente perplesso. Due passaggi del suo pensiero, in particolare, mi trovano in radicale disaccordo. Il cardinale Scola, parlando delle unioni omosessuali, afferma che “nel riconoscere la dignità personale di chi prova attrazione per lo stesso sesso, noi cristiani siamo stati un po’ lenti”. Ma quale è il presupposto, secondo l’arcivescovo ambrosiano, perché la Chiesa riconosca piena dignità agli omosessuali? La castità. Sinceramente non riesco proprio ad accettare un tale punto di vista. Comprendo le grandi difficoltà della Chiesa – o meglio, di una parte della Chiesa - a far fronte ai grandi, e repentini, cambiamenti sociali e culturali che stiamo vivendo, però non credo che, nel 2015, si possa realmente pensare di poter chiedere a due persone che si amano, solo perché sono del medesimo sesso, di rimanere casti per essere accettati dalla comunità cristiana.
Sia chiaro che io rispetto la castità come scelta di vita – anche se penso che sia una decisione che va contro la nostra natura, oltre che foriera di malsane frustrazioni – però non ritengo giusto che la si possa imporre come condizione per il riconoscimento della dignità di una persona. Non è forse discriminatorio? La cosa, peraltro, mi suona ancor più assurda se penso che la comunità cristiana si fonda su principi quali il rispetto della vita umana, la solidarietà e l’amore verso il prossimo. Vi è poi un altro punto nodale del pensiero del cardinale Scola che mi ha suscitato vivo disaccordo: l’arcivescovo di Milano – dopo avere indicato quelle che lui ritiene essere le differenze tra unioni omosessuali e famiglie tradizionali – si duole del fatto che: “lo Stato debba occuparsi direttamente di queste cose e sono anche un po’ seccato di fronte a questo Parlamento europeo, perché non ha il diritto di premere sui singoli Stati in favore di una normativa in campo etico”.
A dire il vero, mi sembra che ci si debba seccare del contrario, ovvero del fatto che ancora si tentino invasioni di campo della Chiesa nelle prerogative dello Stato e dei suoi organi costituzionali: eppure è dal 1861, data della proclamazione di Roma capitale d’Italia, che dovremmo avere tutti culturalmente digerito il sacrosanto principio Libera Chiesa in Libero Stato! Lo Stato deve garantire i diritti dei cittadini, emanando leggi che evitino situazioni di discriminazione e disuguaglianza: se decide di plasmare delle regole che, all’interno delle leggi civili, disciplinino diritti e doveri delle unioni omosessuali – che sono oggi, piaccia o non piaccia, una realtà di cui si deve prendere atto – non può certo la Chiesa gridare alla lesione del primato di sovranità morale. Una cosa è fare opera di lobbyng – in favore o contro un progetto di legge - mediante le formazioni politiche cattoliche presenti in Parlamento; un’altra è arrivare apertamente a sostenere che il Parlamento – italiano o europeo che sia - non possa legiferare su temi etici.
A mio giudizio, in una democrazia laica e moderna sono parole inaccettabili. Del resto, fino a prova contraria non è mica un obbligo sposarsi in Chiesa, e dunque accettare le regole del matrimonio cristiano e canonico: sbagliano coloro che decidono, per troppa leggerezza, di sposarsi su di un altare senza essere pienamente consapevoli di cosa ciò comporta, a cominciare dall’indissolubilità del vincolo matrimoniale. Sono regole della comunità cristiana, e come tali vanno accettate, anche da parte dei laici e dei non cristiani. Come, viceversa, la Chiesa deve accettare le regole che, democraticamente, lo Stato dà, e vuole dare, ai suoi cittadini: anche sui temi etici. Perché il tempo delle scomuniche deve rimanere confinato nelle pagine buie dei libri di storia.