Milano
"Da Sherman a Vezzoli", la collezione Iannacone in mostra a Palazzo Reale
Le opere d'arte contemporanea del collezionista milanese Giuseppe Iannacone protagoniste di un percorso che affronta con coerenza i grandi interrogativi dell’identità, del corpo, della memoria, della rappresentazione

"Da Sherman a Vezzoli", la collezione Iannacone in mostra a Palazzo Reale
"Questa non è una mostra di arte contemporanea". A chiarirlo sin da subito nel catalogo che accompagna l'esibizione è il curatore Daniele Fenaroli. "Da Cindy Sherman a Francesco Vezzoli", ospitato sino al 15 maggio al Palazzo Reale di Milano, è infatti il racconto di una collezione privata. Quella del milanese Giuseppe Iannacone. Avvocato che negli anni ha dato forma a un corpus di opere che riflette il suo sguardo personale, il suo gusto, le inclinazioni e le passioni. Ma questo non toglie che la qualità delle scelte operate dall'avvocato abbia consentito di trasformare in condivisione pubblica quello che originariamente era una questione privata. Qualità delle scelte, specifichiamo, sia relativamente alle singole opere, sia soprattutto rispetto al dialogo che tra le stesse si è instaurato, consentendo l'individuazione di un chiaro e coerente percorso culturale.
Non si tratta infatti di una raccolta enciclopedica, ma di una narrazione costruita attraverso scelte appassionate e spesso controcorrente, che prediligono linguaggi forti, autobiografici, politici, poetici. Da questo impulso nasce l’idea della mostra: un percorso articolato in sezioni tematiche che si snodano come un viaggio attraverso i grandi interrogativi dell’identità, del corpo, della memoria, della rappresentazione. Le opere selezionate non sono mai meri esempi di tendenze, ma tasselli di un racconto che parla di relazioni, ossessioni, fragilità, trasformazioni.
Attraversando la mostra della collezione Iannacone: il tema dell'identità
Il percorso espositivo si apre con la figura cardine di Cindy Sherman, la cui sala monografica introduce subito il visitatore alle domande centrali della mostra. Con la sua pratica fotografica radicale, Sherman esplora l’identità come costruzione artificiale, giocando con il travestimento e i codici visivi della cultura popolare. In mostra, opere iconiche come gli "Untitled Film Stills", la serie "Fashion" e il disturbante "Untitled #555" (2010-2012) propongono un universo femminile ambiguo, in bilico tra cliché e disvelamento. Sherman diventa così la matrice da cui si dirama l’intero percorso.
Nel corpo della mostra, le opere si organizzano in sezioni tematiche che riflettono i nuclei principali della collezione. Una delle prime riguarda il ritratto come dispositivo identitario, intimo e politico. Qui troviamo l’opera di Elizabeth Peyton, capace di restituire con tocco leggero l’interiorità dei suoi soggetti, come in "Fred Hughes in Paris" (1994), e la pittura spiazzante e pop di Lisa Yuskavage, che declina il corpo femminile in una chiave provocatoria e onirica. La sua "Big Blonde Jerking Off" (1995) sfida lo sguardo dello spettatore, imponendo una riflessione sul desiderio e sulla rappresentazione.

Accanto al ritratto, la mostra indaga la costruzione dell’identità attraverso il corpo e la memoria. Nan Goldin e Francesco Vezzoli, pur con linguaggi opposti, interrogano la vulnerabilità e la messa in scena. Goldin con il suo realismo emotivo e le sue fotografie intime restituisce l’urgenza del vivere, l’imperfezione e la poesia della quotidianità; Vezzoli rielabora l’immaginario mediatico e storico con raffinata ironia, come nel ricamo "L’Amore: Anna Magnani Loved Roberto Rossellini" (2002).
Il tema della rappresentazione dell'identità black e del corpo come luogo di risignificazione emerge nella sezione in cui la pittura evocativa di Lynette Yiadom-Boakye e quella mitica e simbolica di Jem Perucchini restituiscono alla pura fisicità uno spazio poetico e assertivo. Perucchini, in particolare, interpreta la figura mitologica di Tiresia in un dittico che affronta il tema della fluidità di genere con un linguaggio pittorico colto e personale, tra narrazione classica e contemporaneità.

Il rapporto tra corpo e natura, materia e spiritualità, è invece il fulcro della sezione dedicata al dialogo tra Kiki Smith e Giulia Cenci. Smith, con le sue sculture e carte, propone una riflessione lirica e simbolica sulla condizione umana, come in "Guardian" (2005) o "Eve" (2001), in cui il corpo diventa soglia tra mito e realtà. Le sue opere incarnano un femminile forte e amorevole, connesso alla dimensione animale e naturale.
Lo spazio del sogno e dell’inconscio si manifesta con forza nel surrealismo poetico di Francis Alÿs, presente in mostra con opere come "Untitled (Study for Painting and Punishment)" (2000–2003), che riflettono su tensione e scelta, immobilità e decisione. L’immaginario di Alÿs diventa un punto di accesso all’universo di artisti come Hernan Bas, i cui lavori – tra letteratura decadente e sensibilità queer – raccontano di personaggi sospesi tra introspezione e desiderio. La sua grandiosa opera "Ubu roi (The War March)" (2009) incarna perfettamente l’atmosfera densa e malinconica che percorre tutta la sua produzione. All’interno dello stesso registro emotivo, ma con una modalità radicalmente autobiografica, si colloca Tracey Emin. L’artista britannica utilizza il proprio corpo come mezzo espressivo, trasformando esperienze personali e intime in opere di forte impatto emotivo come nella grande polaroid "I’ve got it all" (2000), tra desiderio, appagamento, trauma e libertà individuale.

Una sezione chiave del percorso è dedicata alla relazione tra uomo e animale, simbolo arcaico ma sempre attuale. In questa cornice si collocano le installazioni stranianti di Paola Pivi, come "Senza titolo (asino)" (2003), che disorientano con l’accostamento tra natura selvaggia e ambienti domestici. Anche Matthew Barney interviene in questo discorso con la visionarietà del ciclo "Cremaster", in cui la figura animale è intrinsecamente connessa a ritualità, forza primordiale, metamorfosi. In "Cremaster 5: Her Giant" (1997), l’animale diventa emanazione simbolica di un universo estetico barocco e denso.
In equilibrio tra ironia e mistero, Chloe Wise in "Olivia with Duck Mask" (2023) sovverte l’immagine del ritratto femminile con una maschera animale che trasforma l’identità in parodia surreale, mentre non manca Banksy, che con "Bronze Rat" (2006) e "Ballerina" (2005) continua la sua riflessione sull’arte come atto di resistenza e libertà: il topo, icona della sua street art, e la ballerina con maschera antigas sono metafore potenti di ribellione e denuncia.

La mostra si conclude con una riflessione sul corpo a riposo come figura di vulnerabilità e rinascita. Il "Kiss" (2001) di Marc Quinn, scultura in marmo di Carrara che raffigura due amanti, uno dei quali privo di arti, ribalta i canoni della bellezza classica per affermare una visione del corpo non conforme, inclusiva, profondamente umana. Allo stesso modo, "Untitled" (2000) di Laura Owens rappresenta la quiete e la sospensione del corpo disteso, luogo di sogno e contemplazione.

Una rêverie che si fa narrazione collettiva
La mostra diventa così, come annotato da Vincenzo De Bellis, un vero e proprio viaggio nella rêverie, quello stato sospeso tra realtà e immaginazione in cui l’arte riesce a farci sostare. Una rêverie che si fa narrazione collettiva attraverso lo sguardo privato di un collezionista, offrendo al pubblico la possibilità di perdersi e ritrovarsi nei percorsi tracciati dagli artisti, in un continuo confronto tra singolarità e universalità. Non c’è un solo quadro della raccolta, e sono dello stesso Iannacone le parole con cui concludiamo il nostro percorso, "che non sia il riflesso di una sfaccettatura dell’animo umano".