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Strage di Piazza Fontana, Rognoni: "Il mio 12 dicembre 1969"
Piazza Fontana

Strage di Piazza Fontana, Rognoni: "Il mio 12 dicembre"

Una bomba collocata all'interno della filiale milanese della Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana a Milano causa 17 morti e una novantina di feriti: è il 12 dicembre 1969, data indelebile nella storia recente del Paese, che dà inizio alla lunga stagione della 'Strategia della tensione' e ad una sanguinosa serie di attentati come quelli alla stazione di Bologna, piazza della Loggia, del treno Italicus.

La ricerca della verità per quei fatti non si è mai conclusa: al termine dell'ultimo processo del 2005 la Cassazione ha affermato che la strage fu realizzata dalla cellula eversiva di Ordine Nuovo capitanata da Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987, ma non è mai stata emessa una sentenza per gli esecutori materiali, coloro che cioè portarono la valigia con la bomba. E ricchissima è la letteratura fatta di inchieste e ricostruzioni che hanno analizzato tutti i punti della vicenda, da quelli più evidenti a quelli più oscuri.

In occasione dell'anniversario della strage, Affaritaliani.it Milano pubblica in esclusiva due capitoli del nuovo libro scritto da Giancarlo Rognoni e Ippolito Edmondo Ferrario, intitolato "La Fenice- Una testimonianza del neofascismo milanese", edito da Ritter, racconto in prima persona dello stesso Rognoni, unico milanese coinvolto nel processo e poi infine prosciolto. Leader del gruppo "La Fenice" finito sotto processo per un fallito attentato a un treno in cui rimase ferito uno dei militanti e per cui è stato condannato in contumacia mentre era latitante in Spagna, Rognoni fu poi accusato di essere il basista degli ordinovisti veneti che avrebbero eseguito la strage di piazza Fontana e gli altri attentati, è stato condannato all'ergastolo in primo grado e poi assolto definitivamente. Fu uno dei leader della "piazza nera" milanese nei primi anni '70. Nei capitoli XIX e XX del libro, ricostruisce con Ippolito Edmondo Ferrario quei giorni del dicembre 1969. Ecco le sue parole.

CAPITOLO XIX: LO SPETTRO DELLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA

Come già detto, l’eredità umana e culturale della Fenice non venne dimenticata nonostante le traversie personali e le avversità. Nonostante tutto, sotto la cenere degli anni, la brace era rimasta accesa. Come gruppo eravamo certamente stati dispersi e divisi, ma non del tutto. Nico Azzi, più giovane di me, aveva subìto una lunga e dura detenzione. So che aveva avuto dei problemi con le guardie carcerarie, e tutti quegli anni non erano stati certo una passeggiata. Dei fatti del passato che ci avevano visti protagonisti non parlammo più. Ci incontrammo nuovamente in alcune occasioni pubbliche, come le commemorazioni annuali a Campo X, ma anche in privato. Una volta che Nico venne a casa mia insieme ad un altro camerata, mi avvisò del fatto che probabilmente sarei stato coinvolto nelle indagini sulla strage di piazza Fontana a Milano, in merito alla quale lui stesso era stato da poco interrogato. Fu certamente un’avvisaglia che però non presi troppo sul serio, poiché ritenevo impossibile l’accusa di un nostro coinvolgimento nella strage.

Mi sbagliavo, e i fatti seguenti lo dimostrarono: Nico fu arrestato e io mi sarei ritrovato a far parte del processo nel ruolo di indagato. Tutto si basava sulle dichiarazioni di un pentito, Edgardo Bonazzi, il quale asseriva che Nico Azzi in carcere gli aveva confessato che il nostro gruppo aveva avuto funzioni di supporto logistico a coloro che avevano eseguito la strage di piazza Fontana Conoscendo bene Nico non ho mai creduto alla versione di Bonazzi; Nico non dava confi denza, magari dava l’impressione, parlandoci, di essere al corrente di situazioni, ma non lo vedo nel ruolo di chi forniva informazioni. Bonazzi, da parte sua, non era un militante di spicco e dubito fortemente che ricevette confi denze, anche di una certa portata, da altri con cui condivise il carcere.

Occorre sempre tenere presente la funzione carceraria delle rivelazioni. Molti detenuti nel tempo hanno utilizzato il sistema della collaborazione con gli investigatori per ottenere privilegi, approfi ttandone ampiamente. Nico negò di aver mai fatto simili dichiarazioni in carcere, ma ormai era troppo tardi. La macchina della giustizia si era messa in moto e per molti anni avremmo dovuto combattere per dimostrare la nostra innocenza. A sostenere la tesi che Nico avesse fatto simili confi denze, giunse in supporto dell’impianto accusatorio uno strano ritrovamento fatto nel 1985 in un appartamento di viale Bligny 42 a Milano.

In questo stabile, nelle soffitte all’epoca utilizzate come ricovero per sbandati, lo stesso giudice Guido Salvini aveva sequestrato un ingente quantitativo di documenti che facevano parte dell’archivio di Avanguardia Operaia. Tra questi comparivano una serie di fogli dattiloscritti dedicati alle confidenze che Nico Azzi avrebbe fatto in carcere. Questa documentazione però al processo non ebbe alcuna rilevanza particolare (anche questo giustifi ca un sospetto di depistaggio), ma ci si basò sulle dichiarazioni di Bonazzi. Dichiarazioni che Bonazzi rilasciò nel 1994, a distanza di moltissimi anni dai fatti accaduti. Secondo Bonazzi, Nico gli aveva confi dato che il nostro gruppo aveva fornito ai veneti l’appoggio logistico per l’attentato del 1969. La prima evidente incongruenza era che il gruppo della Fenice, perché di noi si parlava, nel 1969 non esisteva ancora.

E sempre nel 1969 non conoscevo neppure alcune delle persone successivamente imputate nel processo di piazza Fontana. Ma da lì a poco avrei scoperto meglio il teorema secondo il quale avevo necessariamente fatto parte dell’organizzazione dell’attentato. Fui chiamato a colloquio dal giudice Guido Salvini. L’accusa che mi si muoveva in primis era quella di associazione sovversiva, forse quella anche più semplice da sostenere. Da principio tesi a sottovalutare il mio coinvolgimento nel processo perché mi apparve poco credibile, basato com’era su accuse aleatorie. Anche il fatto che fossi l’unico per il quale non era stato spiccato un mandato di cattura mi tranquillizzava, ma evidentemente mi sbagliavo. Per gli altri indagati, Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Carlo Digilio, erano stati spiccati altrettanti mandati. La mia strategia difensiva era tutta tesa a dimostrare che le frequentazioni che mi si imputavano di avere erano successive al 1969.

L’assurdità del teorema non stava tanto nella questione delle date (che come avrei dimostrato non collimavano), ma nel fatto di affermare che dalla semplice conoscenza e frequentazione di talune persone derivasse in modo incontrovertibile la mia partecipazione diretta all’attentato. In ciò stava la gravità delle accuse mossemi insieme all’assenza di prove e di fatti specifi ci. Sulla questione delle date, conobbi Carlo Maria Maggi e altri veneti sul fi nire del 1969, quando si verifi cò il rientro nel MSI del Centro Studi Ordine Nuovo. Potrei averli conosciuti un paio di mesi prima del 12 dicembre del 1969: ma ipotizzare che da una frequentazione superfi ciale, fresca di poche settimane, potesse nascere l’idea di aderire al progetto stragista di persone appena conosciute è una follia. Il problema, al di là di queste date, era che dalla semplice conoscenza di queste persone derivava l’assioma dell’aver condiviso l’attentato. Tali accuse erano poi supportate dalle dichiarazioni rese nel 1994 da Martino Siciliano.

Quest’ultimo sosteneva, a distanza di ben venticinque anni, la mia partecipazione ad una riunione tenutasi nella villa di Marco Foscari, nel luglio del 1969, nei giorni dell’allunaggio, durante la quale i rapporti tra veneti e milanesi si fecero sempre più stretti. A smentire la mia presenza, in quella specifi ca data, a villa Foscari fu inaspettatamente un’informativa dei carabinieri che certifi cava la presenza di un gruppo di milanesi, tra i quali il sottoscritto, nella zona del Gran Sasso insieme ad altri camerati, per un campo organizzato dal Msi. Fu a Milano che incontrai Foscari la prima volta, insieme a Siciliano stesso. Il tramite era stato Gianbattista Cannata, amico di Foscari. Rividi Foscari in qualche altra situazione, ma non intrecciai mai con lui rapporti di amicizia. Credo di essere andato a Villa Foscari una o due volte, in occasione di qualche festa. Marco Foscari era un personaggio estremamente estroverso: amante della bella vita, poco alla volta aveva dissipato tutto il suo patrimonio per concedersi ogni lusso.

Per come lo conobbi era un tipo molto simpatico, catalizzatore di energie positive, ma - ripeto - molto interessato ai piaceri della vita Fu grazie a Foscari che Siciliano venne introdotto nell’ambiente milanese. Ricordo un ultimo dell’anno trascorso a casa di un camerata milanese, Franco Mojana, a cui partecipai insieme a Siciliano e ad altri. Verso le cinque del mattino ricevetti a casa una telefonata da una comune amica, Ada. Ricordo che la ragazza mi chiese di poter fare da testimone al matrimonio tra lei e Martino, che si erano conosciuti quella sera stessa… Al momento non compresi, pensando mi fosse chiesto di fare il testimone per un incidente stradale e non per delle nozze così tempestive. Sono tutti episodi che ben poco hanno a che vedere con riunioni e organizzazioni di attentati e stragi… Successivamente, vicissitudini personali portarono Siciliano a tentare anche il suicidio nei servizi di un bar vicino alla sede del MSI a Milano. A tutta una serie di illazioni che mi venivano mosse, risposi portando diverse prove concrete. Dimostrai la mia presenza sul posto di lavoro, in banca, il 12 dicembre grazie ad una dichiarazione della Banca Commerciale Italiana, l’istituto per cui lavoravo in una fi liale di viale Campania. Tale documento fu fondamentale, perché impedì all’accusa di conferirmi il ruolo di colui che aveva addirittura posto l’ordigno all’interno dei locali in piazza Fontana; rimanevano però le accuse di aver fornito supporto logistico.

Su come si sarebbe svolto il mio 12 dicembre entrerò nel merito successivamente, riportando un episodio in particolare. Approntai una difesa in più punti per dimostrare la mia estraneità ai fatti, ma gli sforzi furono inutili. Si volle sostenere un sillogismo per il quale, essendo in contatto con i supposti autori della strage, io stesso dovevo avervi preso parte secondo precise modalità logistiche.

Il 28 giugno 2001 presenziai in aula e rilasciai ai giudici questa mia dichiarazione: «(…) Quest’ultimo aspetto voglio sottolinearlo perché ha una certa attinenza con questo processo che vede la tesi accusatoria reggersi in larga parte sulle vociferazioni che sarebbero corse in ambito carcerario. È una banale ovvietà, ma voglio ribadirlo. Il carcere è un ambiente degradante e corruttore. Considerate che io, cinquantaseienne, le sole volte che vidi droghe di tutti i tipi fu proprio quando ero detenuto nei cosiddetti carceri speciali. In carcere è facile smarrirsi. Il dottor Maggi mi fu vicino venendomi a trovare, scrivendomi, inviandomi libri, facendomi sentire insomma parte di una comunità viva. Per chi non dispone di simili àncore e magari non dispone di una salda struttura spirituale è facile piegarsi e spesso sprofondare nella degradazione e nell’abiezione. Altrettando facile subire sollecitazioni e lusinghe oppure reagire agli stimoli come una sorta di rifl esso pavloviano. Ed è quanto mi pare sia avvenuto per alcuni. Ad esempio Bonazzi.

Individuo un pezzo di una lettera che da poco ho ritrovato che egli mi scrisse dal carcere di Nuoro l’8 ottobre 1980, proprio nel 1980, e mi dice: “Da parte mia ho preparato un pezzo sulla strage che apparirà su un giornaletto di camerati a fi rma Quex”. «“È chiaro che la strage è di potere” lo scrive maiuscolo e sottolineato. “Su questo non ci possono essere dubbi”. «Ed ora indica come uno fra i responsabili me, che con il potere ho certo ben poco a che vedere. Spesso, durante le udienze, è stata ventilata l’esistenza di una sorta di incitamento alla violenza da parte della “Fenice”. Orbene questo periodico era regolarmente registrato, tutti i numeri depositati. Eppure nessun articolo è stato presentato a sostegno di questa tesi. Segnalo anzi che il motto campeggiante in tutte le prime pagine dei vari numeri era quello di Don Bosco, “Nello sport, come nella vita, audaci, forti, leali e generosi” a cui avevamo sostituito “sport” con “impegno politico” e rappresentava, questo sì, il nostro pensiero. Debbo dire, e credetemi che è assolutamente la verità, arrivati alla conclusione di questo processo, non ho ancora ben capito che cosa io avrei esattamente fatto, quale sarebbe stato il mio ruolo in questo progetto criminale. Si è molto parlato dei tempi e dei luoghi in cui io ho conosciuto i miei coimputati e il Siciliano.

Mi pare che una parte civile per sostenere una tesi accusatoria mi abbia fatto presenziare negli stessi giorni a eventi differenti con differenti persone, siti in luoghi a centinaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro. Io non ho conosciuto Siciliano nell’occasione indicata dallo stesso e ho conosciuto i miei coimputati solo in data susseguente a quella della strage. Essenziale però a mio giudizio non è nemmeno questo, bensì il fatto che io non ho avuto, né nella genesi né nella realizzazione di questo attentato, alcun ruolo. Mi pare quasi che si stia presentando un paradosso assurdo. Da un punto di vista giudiziario, ovviamente non morale, sarebbe quasi preferibile che io avessi assunto un qualche ruolo, magari marginale, per poter, confessando, sfuggire, tramite prescrizione, al giudizio. «In realtà però è che non posso e neppur volendo, confessare alcunché. Dovrei mentire benché non veda che ruolo credibile potrei creare anche in considerazione del fatto che le indagini hanno permesso di appurare che il giorno della strage io ero al mio posto di lavoro. È infatti presumibile che, in un piano così articolato e complesso, nessuno spazio possa essere affi dato a complici non necessari e, nel mio caso, fonte di possibile identificazione.

Fra l’altro credo che l’intossicazione a cui fu sottoposto lo schieramento politico a cui appartengo sia frutto di tecniche di disinformazione e depistaggio attuate a posteriori. Se la regia vi fu, questa costruzione di indizi attuata dopo i fatti, si rivela molto labile per le diffi coltà di distinguere il vero dal falso, sia per il passare del tempo, che offusca i ricordi, sia per la disinformazione che fu attuata ai danni di un’area in anni di forti tensioni politiche e sociali in cui a volte varie persone si sono trovati ad essere involontari attori o comparse. Il Pubblico Ministero, con un’immagine suggestiva, suggerisce che non credere all’impianto accusatorio equivarrebbe a considerare colpevoli di un complotto inquirenti e magistrati che hanno istruito questo procedimento.

«Questo non è vero. Io ho molto apprezzato le indagini di polizia giudiziaria eseguite su disposizione della pubblica accusa tendenti a verifi care le mie dichiarazioni. D’altronde non poteva essere differentemente, dato che proprio i risultati di quelle indagini costituiscono larga parte della mia difesa. Pensavo anzi che il Pm desse maggior credito alle indagini da lui disposte. Quello che ho molto apprezzato, durante il drammatico interrogatorio cui fu sottoposto Azzi in carcere, è che lo stesso, riaffermando l’astio nei miei confronti, ribadiva di non aver mai fatto dichiarazioni sui miei presunti coinvolgimenti nella strage di piazza Fontana. Ho apprezzato, dicevo, il comportamento della pubblica accusa che rifi utava la scorciatoia proposta dall’avvocato dell’Azzi per uscire dall’impasse e cioè il mio arresto. «Credo che il Pubblico Ministero sia convinto della tesi accusatoria da lui proposta, e non abbia chiesto la mia condanna solo per appagare la legittima soddisfazione di aver chiuso il caso.

Questo però ai miei occhi non fa di lui motore di un complotto bensì semplicemente un uomo che sbaglia, perché sbaglia. Su alcuni organi di stampa questo processo è stato presentato come l’ultima occasione. Se debbo essere sincero questo è per me motivo di preoccupazione. Il timore cioè che si colga questa occasione per chiudere in qualche modo il caso trovando dei colpevoli pur che sia. Nei sopravvissuti si sviluppa una forte ritrosia a rivisitare quegli anni, vuoi per un desiderio di cancellazione, vuoi perché tentati inconsciamente di attribuire a sé stessi il ruolo dei buoni, vuoi perché non vogliono coinvolgere persone con cui in un lontano passato hanno condiviso battaglie politiche che spesso portavano a scontri radicali e ciò spiega le eventuali discrepanze o reticenze. Come ho già detto non posso che augurarmi, anche sotto l’aspetto egoistico di un tornaconto giudiziario, che i colpevoli siano trovati e che io sia giudicato per le azioni da me compiute e non per la fede politica professata; che voi possiate, seppur a distanza di tanti anni, offrire giustizia e che questa sia fi glia della verità.

«Per concludere questa mia dichiarazione voglio pubblicamente, con pacatezza, ma anche con forte determinazione, affermare che per questo orribile reato sono completamente innocente». Il primo grado si concluse per me con la condanna all’ergastolo. Il giorno che appresi della sentenza vissi un profondo senso di smarrimento. Provai la tentazione di arrendermi, di non riconoscere la giustizia che mi stava giudicando e addirittura di non fare ricorso. Non mi aspettavo di essere condannato all’ergastolo di fronte ad accuse totalmente inconsistenti. La prospettiva di rimettere in gioco completamente la mia vita con un mio ritorno in carcere era cosa concreta. Se una parte di me avrebbe voluto arrendersi, l’altra reagì. Proseguii nel dimostrare la mia innocenza. Non mollai grazie alla mia famiglia, all’insistenza di mia moglie Franca e dei miei avvocati. Così, con rinnovato vigore, affrontammo il secondo grado del processo, sforzandoci di smontare, dopo averle analizzate, tutte le varie tesi accusatorie.

Fu un lavoro enorme, intenso che richiese uno sforzo notevole. Trascorsi settimane facendo ricerche, acquisendo articoli e documenti nelle biblioteche, al fi ne di documentare meglio le date e l’inquadramento cronologico di molti fatti attinenti al processo. Tusa mi aiutò in questo compito, mentre a difendermi ebbi anche l’avvocato Enzo Fragalà che si concentrò sugli aspetti più politici della vicenda, ma non solo. I tempi della giustizia furono lunghi, ma alla fi ne fummo in grado di dimostrare la mia totale estraneità ai fatti. Appresi della mia piena assoluzione all’estero. Una parte di me era certa che non mi avrebbero assolto. Avevo perso fi ducia nella giustizia e quindi decisi di percorrere il cammino di Santiago prima di tornare in carcere.

Lungo la strada fui raggiunto dalla telefonata nella quale l’avvocato Tusa mi comunicava la piena assoluzione. Fu una vittoria, ma conquistata ad un caro prezzo perché vissi quegli anni, ben undici, con la prospettiva di non riuscire a dimostrare la mia innocenza. Al termine di questa sofferta vicenda giudiziaria affi dai un breve comunicato agli organi di stampa. Con alcune precisazioni misi la parola fi ne al lungo iter giudiziario.

CAPITOLO XX: IL MIO 12 DICEMBRE 1969

Il mio 12 dicembre 1969 Vorrei tornare per un attimo al giorno della strage, a quel 12 dicembre del 1969. Ho un ricordo particolare legato a quel preciso giorno. Come già dimostrato, avevo lavorato in banca, ero in sede quel giorno. Finito l’orario di lavoro, nel pomeriggio mi ero ritrovato con altri camerati nella sede del MSI di corso Monforte. La notizia dell’esplosione si sparse subito in città e con altri raggiungemmo a piedi la piazza che distava pochi minuti. In quel periodo Marco Cagnoni, uno del nostro gruppo, aveva avuto dei problemi durante un volantinaggio di fronte al liceo Carducci. Un ragazzo di sinistra era arrivato e aveva tirato un pugno nell’occhio a Cagnoni, per scappare subito dopo. La stessa scena si ripeté il giorno in cui accorremmo in piazza per capire cosa fosse successo. La situazione era confusa e concitata. Mentre eravamo lì, Cagnoni fu preso ancora di mira da questo soggetto, che lo colpì a freddo scappando subito dopo e lasciandoci furibondi. Anche se il danno era banale, l’intenzione aveva il sapore della sfi da, quasi una beffa dannunziana, solo che ne eravamo noi il bersaglio. Comunque, al di là di questa insignifi cante scaramuccia tra avversari, quel giorno nessuno pensò ad una strage causata da una bomba.

Qualcuno parlava dell’esplosione di una caldaia. Erano tutte voci incontrollate, ma era tutto troppo irreale. Ho ancora però vivido il nostro smarrimento di fronte a quella scena devastante. Lo stesso giorno altri attentati funestarono l’Italia, anche se la bomba di piazza Fontana causò i danni più gravi. A Roma esplosero tre ordigni che ferirono sedici persone; un quarto, inesploso, fu trovato a Milano, nella sede della Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala: poche ore dopo il ritrovamento fu fatto brillare dagli artifi cieri, impedendo di fatto agli inquirenti di poterlo analizzare. Alcuni ipotizzarono in questa azione già un primo tentativo di depistaggio delle indagini. Il dato evidente era che nello stesso giorno erano state poste tra Roma e Milano cinque bombe.

A me pare che un’operazione di questo tipo avrebbe richiesto l’operatività di un gruppo composto da almeno una quindicina di persone esperte e direttamente coinvolte. Così come non vedo una capacità operativa da imputare ad alcuni singoli militanti, non mi sentirei di chiamare in causa anche elementi provenienti dal mondo italiano dei servizi militari. Piuttosto, negli anni mi sono sentito più propenso a intravedere un’operazione orchestrata e portata a termine da elementi non italiani. Non ci vedo proprio uffi ciali e sottouffi ciali italiani vestire i panni degli stragisti, e non trovo credibile il singolo uffi ciale dei servizi o di altri apparati dello Stato che attui un piano simile di sua spontanea iniziativa prendendosene la responsabilità. Chiunque chiederebbe di esserne sollevato da chi gli sta sopra nella gerarchia di comando. Ritengo che tale aspetto andrebbe approfondito. Naturalmente sono tutte ipotesi, ma quella per me più credibile rimane quella della presenza di servizi segreti esteri che avrebbero potuto gestire una situazione di questo tipo. Ho avuto occasione di leggere, seppur frettolosamente, il libro del magistrato Guido Salvini dedicato alla strage di piazza Fontana.

Sinceramente mi attendevo molto di più. Su piazza Fontana vi è moltissimo materiale giudiziario; io stesso ho letto centinaia di file e metri cubi tra verbali e altro materiale cartaceo. Il dott. Salvini ha accesso a fonti quasi illimitate, e mi attendevo ipotesi più strutturate e sostenute da dati meno vaghi ed evanescenti. Il testo mi è parso più che altro animato dal tema di una certa polemica fra magistrati. Quello più preso di mira è il dott. Felice Casson di Venezia, successivamente diventato parlamentare del PCI. Fui interrogato da entrambi gli inquirenti e da parte di nessuno dei due debbo lamentare particolari scorrettezze. Tanto per chiarire, non furono loro a spiccarmi un nuovo mandato di cattura il giorno della concessione della semilibertà; non furono loro ad accogliermi al successivo interrogatorio dicendomi «lei ha un piede dentro e uno fuori, decida cosa vuol fare» (circa un altro anno e mezzo di carcere); non furono loro, gambe allungate sulla scrivania, a suggerirmi «le devo dire che ai sensi degli articoli x, y… se ci fornisce dati sulla responsabilità dei suoi coimputati chiude i suoi problemi giudiziari». No, nessuno di questi due magistrati si è lasciato andare, nei miei confronti, a simili comportamenti. Quello che resta, dopo undici anni di processo, è il sapore strano di essere giudicato da un avversario politico, e i confi ni a volte appaiono sfumati.

Questo vale soprattutto per il dott. Salvini; anni fa un giornalista del “Corriere della Sera” mi aveva informato che in uno scontro abbastanza cruento, verifi - catosi davanti al liceo Manzoni, fra i militanti di sinistra vi era proprio il magistrato, allora giovane studente e referente di un gruppo anarchico. Certamente, se (come pare) l’episodio corrisponde al vero non ritengo conveniente che un protagonista di quei fatti sia diventato giudice degli altri; diffi cile credere che non vi possa essere un’infl uenza almeno psicologica. Sicuramente, per ciò che mi riguarda, Guido Salvini scrive cose non esatte e si dimentica di segnalare che la mia assoluzione fu con formula piena (come ricordò un importante giornalista, difficile credere che la Corte di Assise di Appello e successivamente quella di Cassazione fossero infarcite di seguaci di Pavolini). Tornando al libro di Salvini, lo spazio che concerne la strage, seppure denso di riferimenti, mi è sembrato anche denso di contraddizioni. Nella parte iniziale si impegna nello scagionare gli anarchici, senza spiegare chi potesse essere il passeggero sul taxi di Cornelio Rolandi (si consideri che fu contestato il riconoscimento di Valpreda, non l’episodio in sé stesso). Si ricorda che il tassista, quel 12 dicembre, fece salire sul suo taxi un passeggero con una borsa in piazza Beccaria, a poche decine di metri da piazza Fontana.

Arrivato in piazza scese dal taxi chiedendo di essere aspettato, risalì dopo pochi minuti senza borsa e si fece portare in via Albricci, cioè a poche centinaia di metri dalla Banca dell’Agricoltura (tra l’altro, per una serie di sensi unici, un percorso più breve a piedi che in macchina). È intuibile che un normale cittadino che avesse dovuto ricorrere a questa corsa, magari per diffi coltà di deambulazione, una volta pubblicizzato il fatto, si sarebbe presentato alle autorità inquirenti per chiarire la situazione. Su questo aspetto, la corsa in taxi, non ci sono dubbi, ed in effetti Rolandi non fu mai sospettato di falsa testimonianza o di mitomania. In questo contesto forse è interessante ricordare un episodio poco noto, o dimenticato: nei giorni immediatamente susseguenti la strage, Rolandi ebbe fra i passeggeri il presidente del Patronato scolastico milanese a cui confidò il suo tormento per aver probabilmente dato il passaggio al responsabile dell’attentato.

Questi lo invitò a denunciare subito la cosa alle forze dell’ordine e lui stesso, appena fi nita la corsa, telefonò alla polizia (mentre Rolandi in contemporanea contattava i carabinieri). Nei giorni seguenti un sacerdote amico consigliò al presidente del Patronato di registrare a futura memoria i fatti di cui era stato partecipe; cosa che fu fatta. Uno dei miei avvocati, l’onorevole Enzo Fragalà, riuscì a scovare, dimenticata in qualche cancelleria di tribunale, la registrazione e la produsse in dibattimento. Credo che tutti coloro che siano interessati a questo attentato farebbero bene ad ascoltare questa lineare testimonianza, magari confrontandola con le dichiarazioni incerte e imbarazzanti di alcuni collaboratori di giustizia. Nella parte centrale del libro si espone un’ipotesi, a mio giudizio, decisamente fantasiosa, secondo la quale l’investigatore Tom Ponzi, già combattente della Repubblica Sociale, avrebbe filmato l’accesso alla Banca dell’Agricoltura nel momento della strage.

La conclusione del testo adombra una tesi ancora più fantasiosa e cioè quella del doppio attentato; uno effettuato da anarchici (peraltro in contraddizione con l’inizio della esposizione salviniana), naturalmente teleguidati da forze oscure, ed un secondo effettuato dai sempre presenti neofascisti. Temo che a distanza di tanti anni sia improbabile, forse impossibile, risalire agli autori di questo orribile attentato; sono certo però che si potrebbe facilmente (direi che è scritto nelle carte) arrivare ai depistatori. Chi depista non necessariamente può essere responsabile del crimine: si può depistare per mitomania, per cupidigia, per ambizione, per odio politico od altro ancora. Reputo comunque che chiunque, normale cittadino, o funzionario dello Stato, si sia esercitato in questo grave fatto debba essere tenuto a dare delle spiegazioni. Penso che i magistrati che tanto si sono espressi sulla strage di piazza Fontana abbiano contratto almeno un debito: quello di chiarire uffi cialmente questo aspetto. È un compito possibile, raggiungibile, forse scomodo, ma lo debbono assolvere.

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