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Milano
Un “Rigoletto” fra “Kill Bill” e “Parasite”
Rigoletto. Foto credit: Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Un “Rigoletto” fra “Kill Bill” e “Parasite”

La scena finale nel libretto di Verdi e Piave non c'è. Nessuno ammazza il Duca di Mantova e i suoicortigiani, il sangue non schizza sulle pareti e sui vetri come in Kill Bill di Quentin Tarantino. Eppure Mario Martone ha voluto concludere con un eccidio efferato il Rigoletto scaligero rappresentato in questi giorni al Piermarini. Sono chiari i riferimenti, espressamente citati dalregista, anche a Parasite, il film del 2019 del coreano Bong Joon-ho. Nel libretto la mattanza non c'è, dicevamo, eppure “ci sta”, in coerenza con la lettura drammaturgicache il regista napoletano dà del capolavoro verdiano. Per Martone il Duca di Mantova non è ungioviale seduttore, un allegro sciupafemmine, come da tradizione, ma un delinquente, uncocainomane (lui e i suoi accoliti), uno stupratore seriale, un autentico figlio di puttana. Tutti coloroche gli stanno intorno, i cortigiani “vil razza dannata”, sono correi e correo è pure Rigoletto, che siribellerà alle leggi del clan solo perché il capoclan gli ha violentato la figlia, che aveva inutilmentetentato di salvare segregandola in casa.

Una regia forte e urticante

In scena corrono fiumi di coca e di alcol; in contemporanea al primo duetto fra Rigoletto e la figlia, sulla parte alta della scena le ragazze reduci dall'orgia della notte precedente vanno in bagno, si lavano e si asciugano a favor di pubblico, a pochi passi da maschi barcollanti strafatti e ubriachi. Feccia umana sia quelli “di sopra” –  i ricchi e potenti – sia quelli di sotto – senzatetto, drogati, prostitute – ripugnanti agli altri e a se stessi. I due ambienti sono comunicanti, tra l'"alto” e il“basso” c'è un continuo via-vai, come a dire: nessuno è innocente in questo sporco mondo. L'idea di Martone è forte, urtante e urticante. Può non piacere. Ma è un'idea, lascia il segno, e Diosa quanto bisogno di idee ci sia nel teatro d'opera, soprattutto in un teatro come La Scala che negliultimi tempi ha fatto troppo spesso del conformismo registico la sua cifra, schiacciata com'è dall'esigenza di accontentare il pubblico tradizionalista, quello che fa quadrare i conti e quindi pretende spettacoli “tranquilli”.

Il Duca di Mantova criminale non è un'idea nuova in assoluto: prima di Martone ci sono stati Jonathan Miller nel 1982, poi David McVicar, Graham Vick e Damiano Micheletto, il più recente, due anni fa al Circo Massimo di Roma. Ma la messa in scena, grazie anche alla potente scenografiagirevole di Margherita Palli, è parsa particolarmente convincente.

Ottime direzione e voci

La parte musicale è stata di alto livello, innanzi tutto per la direzione del giovane Michele Gamba, spesso imprevedibile nella agogica e sicuramente mai scontata. L'accompagnamento orchestrale del“Cortigiani, vil razza dannata” è stata una lunga scossa elettrica a mille volt, che ci ha fulminato e ustionato. All'opposto, i duetti tra Rigoletto e Gilda sono stati caratterizzati da tempi lenti eintrospettivi. Anche Gamba, come Martone, è un artista che può dividere, ma certo non lasciaindifferenti. I cantanti cantano bene e altrettanto bene recitano (anche qui la mano del grande regista è evidente).

Il giovane baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat, Rigoletto ha uno strumento vocaleimpressionante per potenza e – combinazione rara – eleganza (i vedovi inconsolabili di Leo Nuccipossono finalmente trovare consolazione); Nadine Sierra, Gilda, ha timbro morbido e luminoso enobile fraseggio; anche Piero Pretti, il Duca di Mantova, pur su un livello inferiore ai due colleghi-super, è stato protagonista di una prestazione eccellente. Grandissimo il livello dei comprimari, sututti lo Sparafucile di Gianluca Buratto, la Maddalena di Marina Viotti e soprattutto il Monterone di Fabrizio Beggi, basso dai grandi mezzi vocali, il cui personaggio è stato letteralmentereinventato da Martone: da brividi la scena in cui assiste come un fantasma al duetto tra Rigoletto eGilda, a rappresentare la coscienza disperata dell'abisso del male in cui tutti sono precipitati senza speranza di redenzione. Alla prima molti spettatori hanno risposto con boati di dissenso, cosa che non è successa alla seconda rappresentazione, quella a cui ha assistito chi scrive. O la polemica – probabilmente strumentale – nel frattempo si era smorzata, o il pubblico è stato effettivamente conquistato da un ospettacolo “impressionante”, nel senso che lascia una forte impronta sullo spettatore.

E comunque, alla fine, sopra tutto e sopra tutti, ora e sempre Viva Verdi, il padre di tutti noi. E poi, se non avesse scritto “Bella figlia dell'amore”, non avremmo avuto Amici miei di Mario Monicelli (ah, il quartetto-parodia interpretato da Tognazzi, Moschin, Noiret e Del Prete, un capolavo roassoluto, anche questo patrimonio dell'umanità).

 

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