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Warhol a Milano: la pubblicità della forma e la celebrazione dell'icona

Warhol a Milano: la pubblicità della forma e la celebrazione dell'icona

Che cosa penserebbe Andy Warhol di questa nostra epoca? E di una società che più ancora degli anni Ottanta pare proiettata ogni giorno di più a confermare le sue intuizioni e le sue profezie? La più celebre di queste recitava: "In futuro tutti saranno famosi per quindici minuti". Doveva avere in mente qualcosa connesso alla televisione o alla pubblicità. E sono invece stati i social a mostrarci quanto l'artista statunitense avesse colto nel segno. Perchè la sua riflessione - o meglio il suo lampo di pensiero - andava a cogliere una verità che non riguardava tanto il medium (i media), quanto, più profondamente, una vocazione ossessiva che attraversava già allora la società. E che solo negli ultimi dieci anni ha trovato il proprio adeguato paradigma culturale fatto di like, condivisioni, selfie, post, personal branding.

Anche l'arte di Andy Warhol ha avuto la stessa prerogativa di sapersi muovere agile ed indifferente tra diverse forme espressive, senza mai perdere di vista il proprio core business, la celebrazione del prodotto. Quale prodotto? E sempre stato altrettanto indifferente: scatole di detersivi, divi dello showbusiness, capolavori del passato, se stesso. Ciò che conta è l'affermazione tautologica implicita in ogni suo soggetto: io sono ciò che sono. E in questo risiede il mio valore. Effimero ed estemporaneo, uguale a quello di qualsiasi altra cosa.

In questa società warholizzata più di quanto lo stesso Warhol avrebbe osato immaginare, ogni nuova mostra a lui dedicata è posta dinanzi a un dilemma: quale forma di percorso e di racconto è possibile esperire che non sia celebrazione dell'icona? Forse uno sforzo vano. Una mostra di Andy Warhol è una mostra di Andy Warhol ed in questo risiede il suo valore.

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Warhol: la mostra alla Fabbrica del Vapore a cura di Achille Bonito Oliva

Alla Fabbrica del Vapore di Milano è visitabile sino al 26 marzo una rassegna, curata da Achille Bonito Oliva con la collaborazione di Edoardo Falcioni,  che sceglie come file rouge: "La pubblicità della forma". E che evidenzia coerentemente con tale impostazione alcuni memorabili episodi in cui l'identità tra arte e marketing si fa pressochè totale. Nel corso della sua carriera Warhol non ha infatti solamente preso in prestito (anti)etica ed estetica del linguaggio pubblicitario adattandole ai propri fini espressivi. Non di rado il flusso creativo ha seguito il percorso inverso, con l'autorializzazione di operazioni commerciali in cui il prodotto finale guadagna a buon diritto lo status di opera d'arte. Una distinzione peraltro piuttosto arbitraria giacchè nella prospettiva dell'artista-imprenditore a capo della Andy Warhol Enterprises i confini tra i due mondi sono stati di fatto aboliti.

Warhol tra musica, moda, imprenditoria

E dunque. Warhol e la musica: celeberrimo il sodalizio con i Velvet Underground dei quali l'artista fu manager e per i quali realizzò la famosissima cover con la banana. Ma non meno iconico fu l'esito della collaborazione con i Rolling Stones, sfociato nella provocatoria cover dell'album Sticky Fingers. Dalla musica alla carta stampata, Warhol realizzò cover per Time e Playboy, oltre a fondare nel 1969 "Interview", prototipo di ogni successivo magazine di costume. Altrettanto forti i legami con il mondo della moda. E significative le collaborazioni per le campagne di alcuni dei più famosi designer, da Armani a Versace, da Valentino a Yves Saint Laurent sino al prediletto Halston. Ne sono nati poster che consentono di considerare l'artista statunitense degno erede di Henri de Toulouse-Lautrec. Al cuore della mostra milanese si trova un altro esemplare connubio di arte e marketing: la Bmw M1 Art Car dipinta di proprio pugno da Warhol applicando in meno di trenta minuti sei chili di colore, e che si piazzò al sesto posto alla 24 Ore di Le Mans del 1979.

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Tracce e indizi di un Warhol diverso

Sin qui, puro warholismo. Ma provando ad avventurarsi ai margini dell'universo creativo del padre della pop art è possibile provare a scorgere tracce  e indizi di una diversa tensione. E cogliere tratti sfuggenti di Andrew Warhola Jr. dietro la maschera dell'artista-macchina e gli illusionistici giochi di specchi e scatole cinesi delle sue opere maggiori. Sono in particolare tre i momenti che la mostra alla Fabbrica del Vapore riesce a catturare. Il primo si rifà agli esordi del suo percorso, il terzo si colloca alla fine della sua carriera, il secondo coglie Warhol in quella stagione di metà anni Settanta in cui la sua stella sembrava brillare meno fulgida.

Ecco dunque il giovane e ambizioso disegnatore pubblicitario appena giunto a New York da Pittsburgh negli anni Cinquanta. Le sue illustrazioni per Harper's Bazaar, The New Yorker, Vogue, Glamour lo rendono presto un apprezzato professionista. Ma parallelamente Warhol comincia a realizzare per conto proprio delicati ed intimi ritratti, disegni a penna o litografie. Prove giovanili che a posteriori stupiscono per il loro candore e per la capacità di introspezione psicologica che rivelano.

Venti anni dopo, Warhol ha compiuto la rivoluzione della Pop art realizzando le opere che lo avrebbero portato a raggiungere uno status nel ventesimo secolo paragonabile solo a quello di Picasso. Ma come è sempre stato, anche il suo successo si offusca a favore di nuove correnti e nuove istanze che sembrano sopravanzarlo. E' in questa condizione - che certo non è possibile definire un declino giacchè il suo percorso di istituzionalizzazione si compie definitivamente proprio in quegli anni - che l'artista ritrova il gusto di una provocazione ribelle e trasgressiva, realizzando il ciclo intitolato "Ladies&Gentlemen". Una galleria di ritratti con protagoniste quattordici drag queen, figure ambigue ed emarginate, ignote e proibite, attraverso le quali l'artista intende anche raccontare al pubblico qualcosa di molto più personale.

Warhol e Leonardo: l'Ultima cena del 1987

L'ultima breccia sul finire del percorso di vita di Warhol. Con (anche) Milano a fare da cornice. L'inesorabile processo di trasformazione di ogni prodotto in merce e quindi in arte finisce per toccare anche i grandi capolavori del passato, specie i soggetti sacri, trattati alla stregua di un poster di Liz Taylor o di una scatola di conserve alimentari. Anche Leonardo da Vinci viene fagocitato. E la serie di dipinti intitolata "The last supper", rivisitazione warholiana dell'affresco in Santa Maria delle Grazie ospitata nel vicino Palazzo delle Stelline, è nel gennaio 1987 l'ultima mostra realizzata in vita dal maestro della pop art. Sembra l'ultimo oltraggio. E' invece una confessione. Solo dopo la sua morte diviene gradualmente noto a tutti ciò che solo le persone a lui più vicine sanno: Andy Warhol era un cattolico praticante, frequentava messa regolarmente alla San Vincenzo Ferrer di Manhattan e faceva regolarmente volontariato a favore dei senzatetto. "Non voleva che le persone lo sapessero perchè era una cosa privata", avrebbe raccontato suo fratello Paul.

Rivelazioni che hanno gettato nuova luce sull'interpretazione di molta della sua produzione artistica. All'equazione merce-arte è diventato possibile aggiungere un ulteriore livello di complessità: il sacro. Una dimensione spirituale che apre a suggestive speculazioni su quali siano state per Warhol le intime e profonde correlazioni tra questi tre poli. Muovendosi tra religioni mercificate e consumismi divinizzati. E con l'arte a dibattersi nel mezzo. Ancora una volta: chissà cosa penserebbe Andy Warhol di questa nostra epoca.

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