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"YBa'S - Young British Artists": Hirst e gli altri, la storia in un libro

"YBa'S - Young British Artists": Hirst e gli altri, la storia in un libro

L'ultimo significativo movimento artistico del Novecento o la prima autentica manifestazione culturale ultracontemporanea? Gli Young British Artists di Damien Hirst, Tracey Emin, Sarah Lucas e soci sono stati probabilmente entrambe le cose. Al crocevia tra due mondi che da allora appaiono sempre più distanti ogni giorno che passa. Il loro esordio avvenne in un'epoca totalmente pre-digitale, il 1988 della mostra "Freeze", autoprodotta da un gruppo di brillanti e ambiziosi studenti della Goldsmiths. Ma le regole del gioco che il sistema dell'arte segue oggi sono quelle che seppero adottare loro per primi e più di altri. E nessuno naturalmente come Hirst, visionario artista e spregiudicato curatore del proprio stesso brand. Ripercorre ora la loro parabola un interessante e approfondito volume di recente pubblicazione, edito da Pime e firmato dallo storico di arte contemporanea e sociologo dell'arte Gian Piero Rabuffi, intitolato "yBa's - Young british artists".

Figli del terremoto postmodernista, gli yBa's fanno di dissacrazione, autoironia e nichilismo il proprio linguaggio comune. Così come quella che Rabuffi definisce "la cinica consapevolezza del venir meno dei confini e delle barriere tra realtà e iperrealtà". Fiction e verità, anima e prodotto appaiono facce indistinguibili della stessa medaglia: diversamente da Warhol, tuttavia, la loro non è più una scoperta, ma ormai la condizione naturale che respirano e che traducono nelle loro opere. Superficialità kitch e inquietudini esistenziali convivono e si citano rincorrendosi senza soluzione di continuità. Il linguaggio che apprendono dalla pubblicità è quello dello shock. Le loro opere sono pop e nascono per scandalizzare. E tuttavia non celano un'ambizione. Osservando lo spleen proprio di certo romanticismo crepuscolare o decadentismo simbolista con cui affrontano spesso tematiche relative alla morte, al dolore, al senso della vita, Rabuffi annota come "gli yBa's riscoprono l'impudico ed ingenuo bisogno di affidare all'arte un tentativo di esprimere ipotesi di risposta, a temi e domande di proporzioni universali".

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Negli anni Novanta le loro opere dissacratorie e sconvolgenti portano l'arte contemporanea sulle colonne dei tabloid di maggiore tiratura, generando ampi dibattiti e dividendo critica e pubblico. Non c'è solo il prometeico Hirst degli squali in formaldeide e, in anni più recenti, del teschio tempestato di diamanti. C' è il femminismo ironico ma abrasivo di Tracey Emin ("My bed") o Sarah Lucas (i suoi "Self-Portraits"), la brutale cronaca nera che si fa caustica analisi sociologica in Marcus Harvey ("Myra"), gli autoritratti realizzati utilizzando il proprio stesso sangue congelato di Marc Quinn, il pandemonio scatenato nel 1996 da Chris Ofili con la sua "The Holy Virgin Mary", black e tratteggiata su uno sfondo di sterco decorato e ritagli di giornali porno, le visioni infernali, oscene e distopiche dei fratelli Dinos e Jake Chapman. Questo per citare gli episodi e gli autori più noti, ma il volume di Rabuffi è attento ad arricchire il racconto scavando anche nell'opera dei protagonisti minori, e contestualizzando il tutto nel più ampio affresco degli anni della "cool Britannia".

E non può dunque restare escluso dalla narrazione anche l'altro tratto che rende gli “Young British Artists” un movimento di rottura, con una attenta analisi di quegli efficaci e spregiudicati meccanismi promozionali che tanta parte hanno avuto nel determinare il successo stellare anche in termini economici avuto dai più talentuosi artisti del lotto. C'è il ruolo del collezionista Charles Saatchi, naturalmente, in grado di condizionare il giudizio di parte rilevante del mercato dell'arte contemporaneo ponendo gli “yBa’s” sotto la propria influente ala, ma almeno altrettanto incisive si sono rivelate alcune mosse del suo ex pupillo Hirst con vendite-evento come "Beautiful inside my head forever", con le quali per la prima volta sono stati letteralmente bypassati tutti i canali intermedi tra l'artista ed il collezionista. Una spinta a spostare gli orizzonti in direzioni inedite in fondo già presente sin dalle prime prove collettive degli yBa's. "Non avevamo la percezione di stare necessariamente cambiando la fisionomia dell'arte inglese ma volevamo cambiare il percorso prestabilito di come uno diventa artista", ha affermato Gary Hume parlando degli esordi del gruppo. Il risultato? Come commenta Rabuffi: "Volevano cambiare le regole del gioco per loro, le hanno cambiate per tutti".

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