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Palazzi & potere
Referendum costituzionale e riflessioni minime... ad alta voce
Parla Annibale Marini, Presidente emerito della Corte Costituzionale 
 
 

La prima, in ordine logico, riflessione che suggerisce la lettura del risultato referendario è che la riforma costituzionale sonoramente bocciata dal popolo italiano è l’ultimo tentativo di una classe politica di riscrivere una Costituzione che, pur se con una certa enfasi, può definirsi e, paradossalmente, è stata definita da quella stessa classe, come la più bella del mondo anche se, come tutte le cose umane, perfettibile per il decorso del tempo.

Sicchè, non è certo casuale se la Costituzione vigente non parla di “riforma”, ma di “revisione” per indicare quelle innovazioni della Carta che investono aspetti determinati e puntuali lasciando immodificato il quadro generale.

Ciò che non si può certo dire di una innovazione che ha per oggetto ben quarantasette articoli e che, pertanto, non può ricomprendersi nella categoria, per quanto ampia, delle revisioni.

Da qui la speranza che la stessa classe politica si convinca che la Costituzione, pur se rivedibile, meno si tocca e meglio è anche perché non è facile dire quando, come e dove si può toccare.

Il secondo commento, anch’esso a caldo, riguarda lo stesso procedimento di revisione che la Costituzione circonda di garanzie diverse e più stringenti di quelle proprie dell’ordinario procedimento legislativo a significare che (anche) la revisione costituzionale (e a fortiori la riforma) richiede un consenso largamente maggioritario del Parlamento che rappresenta la più alta e insostituibile espressione della volontà popolare.

E non basta che questo consenso esista nella fase iniziale del procedimento di revisione, dovendo permanere immutato nelle fasi successive o nella fase ultima.

Chi sostiene il contrario, finendo col ridurre il vero significato del principio maggioritario ad una mera operazione aritmetica, dimostra di non avere neppure letto il “Manifesto dei valori” del Partito Democratico sottoscritto dai più importanti esponenti di quel partito nel 2008 e soprattutto di aver capito poco o nulla del procedimento di revisione caratterizzato da un consenso largamente maggioritario e quindi necessario in tutte, dico tutte, le sue fasi.

Va altresì ribadito, anche se può apparire scontato, che il referendum si articola sempre e necessariamente su due, e soltanto due, ipotesi alternative formulate in modo da tutti comprensibile e non già su un numero maggiore che devono poi essere coordinate dagli elettori per renderle alternative. Ed in proposito è sufficiente far riferimento a quei quesiti, in tema di risparmio di spesa e di diminuzione del numero dei parlamentari, basati su dati sostanzialmente numerici senza tuttavia specificarli. Con il risultato, per quanto  riguarda il risparmio di spesa, di diversità interpretative che vanno dalle generose stime governative fino ad annullarsi nelle più corrette valutazioni tecniche (ed imparziali) della Ragioneria Generale dello Stato. Non si va, quindi, lontano dal vero quando si afferma che proprio la formulazione disomogenea e generica dei quesiti ha finito con il trasformare il referendum sulla riforma in un referendum sulla persona dell’On.le Presidente del Consiglio, confidando (forse) che la persona del Presidente avrebbe avuto un effetto trainante dell’elettorato che invece è risultato di segno opposto.

La c.d. personalizzazione del referendum non è cioè dovuta, soltanto, a ciò che ha detto il Presidente Renzi nelle sue quotidiane apparizioni televisive, ma al modo in cui i quesiti referendari sono stati formulati.

E forse in futuro il compito di decidere sulla legittimità dei quesiti dovrà essere affidato all’unico organo che in passato ci ha insegnato che i quesiti da sottoporre al giudizio insindacabile del popolo sovrano devono essere non solo chiari e comprensibili, ma omogenei. E ciò esclude l’ammissibilità di quesiti in cui si naviga con grande disinvoltura dal risparmio di spesa e quindi da un dato numerico alla modifica del rapporto legislativo Stato-Regioni e, tanto per gradire, all’abolizione del CNEL; quesiti tutti tra i quali non esiste un nesso logico o funzionale.

Non senza aggiungere che ci sono norme della c.d. riforma (ed una di queste è l’art. 70) che richiedono l’opera dell’indovino anziché dell’interprete.

L’esercizio del diritto democratico di voto, ed è quello che viene in considerazione nella specie, esige che chi vota conosca con precisione su che cosa vota ed esclude, dunque, per definizione l’ammissibilità di quesiti formulati in modo confuso o disorganico.

Quando ciò accada l’unica risposta che può dare l’elettore è quella (negativa) del rigetto della riforma e non dell’approvazione, come infatti è puntualmente avvenuto nonostante il generoso aiuto dei c.d. poteri forti che proprio in quanto forti dovrebbero astenersi dall’intervenire in una competizione che è solo di popolo e tale deve rimanere.

E qui mi fermo non perché non ci sarebbero altre cose da dire, ma perché ritengo, o mi illudo, che quelle che ho detto siano sufficienti a spiegare un risultato elettorale che, checchè se ne pensi, ha rappresentato una grande prova di democrazia di un grande Paese che vuole conservare per trasmetterla ai figli ed ai figli dei figli la sua più inestimabile ricchezza storica ed ideale.  

 

Annibale Marini

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