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Arquata del Tronto, come la ricorda Alessio Viola

Estate del ’71, appena diplomati, si parte in autostop. La meta, un ristorante a Spoleto, il Panciolle. Segnalato come meta obbligatoria da Raffaele, pare che valesse la pena di un viaggio.

L’autostop era un sistema di trasporto fantastico, ma non sempre lineare. Partivi verso un posto, non si sapeva bene se poi ci arrivavi, e soprattutto se facevi la strada più breve. I passaggi erano come capitava, prendevi quello che gli automobilisti ti offrivano.

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Partimmo in tre, Lanfranco trovò subito una ragazza bella e sola disposta ad accompagnarci. Preferimmo andasse lui da solo con lei. Io e Simone continuammo verso Spoleto. Con un paio di passaggi arrivammo a Pescara, si dormiva sulle panchine della stazione. Poi ad Ascoli Piceno. Dormimmo nei giardini, non erano male.

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Cazzeggiammo un poco in quella città, cosa avrà mai Ascoli da vedere ci dicemmo. Non era brutta, anzi. Bisognava andare, Spoleto ci attendeva. On the road, pollice alzato. Becchiamo uno che ci dice di andare verso Norcia, che poi è vicina a Spoleto. Perché no.

In realtà non andava a Norcia, lo scoprimmo in viaggio. Disse che gli dispiaceva vederci in giro sotto il sole, lui ci passava vicino, ci avrebbe lasciato in un posto vicino. Anzi non proprio in un paese, ma ai piedi di una collina su cui sorgeva quel paese, Arquata del Tronto. Mai sentito.

Arquata del Tronto terremoto
 

Si stava facendo sera, il tizio ci lasciò carichi di zaini e stanchezza ad un bivio il cartello era in salita come tutto li intorno, diceva un km per Arquata. Salimmo. Neanche una macchina. Un calesse, una bicicletta un carretto, niente. Salimmo, il paese era avvolto di quell’aria della sera in estate, che se non sei al mare è fresca, leggera, una umidità sostenibile, il silenzio e le case con poche luci.

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Salimmo ancora. Case antiche, pietra, qualche finestra illuminata, immaginammo le persone a cena, non era il caso di suonare a casa di nessuno a rompere per sapere come si potesse andar via da li. I profumi nell’aria erano quelli che ti devi aspettare in un borgo così, legna bruciata, erba tagliata, alberi piante un rumore di torrente o di una fontana chi lo capiva. Salimmo ancora.

Ci dicemmo che ci sarebbe stata sicuramente una stazione dei carabinieri. Anche se al tempo era assolutamente scorretto pensare di chiedere aiuto a loro. Non c’era. Non si vedevano macchine, ma ci confortò un cartello di autolinee locali, un orario mezzo strappato annunciava per il mattino successivo un pullman per Norcia. Ottimo. Si trattava solo di trovare un posto per dormire ed uno per mangiare. Girammo per le stradine, era calato il buio. Non c’erano bar aperti o ristoranti, niente.

L’immagine del presepe con tutta la sua retorica ti avvolgeva: se c’era un posto degno di essere definito in quel modo era Arquata, in quella sera d’estate. Immaginammo le persone nelle case, giocammo ad indovinare cosa facessero che facce avessero. E neanche un albergo, che te lo dico a fare. Girammo ancora, incominciava a fare freddo. Avevamo i sacchi a pelo ovviamente, ma non si vedeva un posto per stendersi, tipo portici cortili cose così. Seduti sui gradini di una chiesa, come in una canzone di Battiato, aspettammo che ci venisse un’idea.

Arquata del Tronto dormiva, serena nella sua innocenza, immune dal dolore. Per un attimo invidiammo chi viveva in quel posto. Arrivavamo dal casino di una città di mare del sud, quella pace quella serenità che traspirava come umidità dai pori delle antiche pietre poteva contagiarti, a lasciarsi andare. Poi l’idea: chi ti può aiutare sempre, chi ha come dovere morale assistere i bisognosi?

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Il mio passato da chierichetto e mio padre che era sarto ecclesiastico mi vennero in mente. Non esisteva altro legame con il mondo esterno che la memoria, niente telefoni pubblici, nelle fantasie di un Bradbury forse i cellulari. La chiesa, proprio lei, la grande madre, loro non possono rifiutarsi di ospitarci. Girammo intorno alla chiesetta e naturalmente c’era una canonica.

Dissi a Simone di lasciar parlare me, che me ne intendevo di preti e chiesa. Bussammo. Nella memoria mi dispiace di non ricordare come fosse il prete che ci aprì. Probabilmente era come tutti i preti di paese, di mezza età stempiato una pancia prominente lo sguardo bonario. Anzi era sicuramente così, il parroco di Arquata del Tronto nell’agosto del ’71. Esattamente di questi giorni.

Raccontai subito che ero un chierichetto, nascosi il particolare che fossi un ex. Raccontai anche di mio padre e del lavoro che faceva. Non ce n’era bisogno in realtà. Come un parroco di paese dei libri di un tempo ci offrì la sua ospitalità.

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La canonica era spartana, diciamo. Un bigliardino, sedie accumulate, polvere. Potevamo dormire li. Non c’erano chiavi, ringraziammo, tirammo fuori qualche panino bruciato dal caldo negli zaini. Stendemmo i sacchi, ringraziammo la santa madre chiesa che ci aveva ospitati come i pellegrini di un tempo. Dormimmo il sonno della gioventù e della stanchezza, e sognammo le mille vite che ancora ci attendevano.

Al mattino, una fontana fuori della canonica e il campo attorno furono la nostra sala da bagno. La valle era splendida, il profumo della campagna di mattina prometteva felicità, vita, futuro. Il parroco non lo vedemmo, dovevamo prendere il pullman.

Pensammo di lasciare un biglietto, ma a quell’età le buone maniere vengono travolte dalla contingenza. Il bus partiva più o meno davanti alla chiesa, lo prendemmo. Vedemmo le prime facce di persone di Arquata, belle come lo sono tutte quelle delle persone innocenti.

Stavamo scendendo verso Norcia ormai. Nel bus nostalgia dolce per un posto incontrato per caso, diventato per una notte casa, ricovero, madre, padre. E noi per una sola notte figli di quel paese. Arrivammo poi a Norcia, e dopo ancora a Spoleto. Il Panciolle era chiuso, il viaggio di ritorno poteva incominciare. Pensammo che non avremmo più sentito parlare di Arquata del Tronto. Noi, suoi figli per una notte.

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